Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 291 - maggio-giugno 2002 [.pdf]
PAGINA 1 Armi, la merce perfetta.
– Demagogia razzista e spauracchio delle Destre per imbrogliare i lavoratori.
Crisi Fiat: I Giganti vacillano.
– Per un Primo Maggio contro il Capitale, tutte le sue guerre e i suoi governi.
PAGINA 2 Riunione Generale del partito Genova, 25-26 maggio  [RG83]: La Centralizzazione finanziaria - Corso della Crisi economica - Marxismo e Geografia - La Guerra Civile americana - Il Ciclo dello Stato nella Storia umana - Storia dell’Afghanistan - Attività sindacale - Crisi in Palestina.
PAGINA 3 – Dalla rovina delle aristocrazie del lavoro alla ripresa di classe.
– L’individuo nella illusione della persona.
PAGINA 4 ALGERIA, IERI E OGGI: 7. L’insurrezione algerina, rivoluzione tradita del proletariatato agricolo e dei fellah (1954-1962) - 3) Il tradimento: gli accordi di Evian.
– La terra, liberata dai rapporti proprietari, giardino per l’uomo.
PAGINA 5 Il dominio dell’Imperialismo  [ 1 - 2 - 3 - 4 ] LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA: Parte II - b) L’attuale gigantismo - I Fondi comuni - Le banche locali.
PAGINA 6 Agevolazioni contributive... a dividere la classe operaia.
– Come è andata a finire alla Swissair.
– Conservatori o Laburisti nulla cambia per il popolo degli abissi.
– Bagliori di classe: Nella Cina del "miracolo economico" - Un Calcio agli scioperi.

 
 
 
 
 



PAGINA 1
Armi, la merce perfetta

Come previsto, il budget della spesa militare degli USA ha avuto questo anno un’impennata, superando i valori degli ultimi 20 anni. In più, come evidenzia il "Sole 24 Ore" del 3 febbraio, il Pentagono, evidentemente non accontentandosi del via libera per l’acquisto di armi per centinaia di miliardi di dollari, ha inaugurato la pratica dell’approvvigionamento tramite leasing, procurandosi anche ciò che non ha i soldi per comprare. Nel budget finiranno solo i costi per il pagamento della quota dell’anno in questione.

È così che a fine dicembre un primo contratto con la Boeing, che sta accusando difficoltà economiche, prevede, per 26 miliardi di dollari, la fornitura in leasing di aerei "convertibili" da uso civile a militare e viceversa, con restituzione dopo 10 anni (la loro vita sarebbe di 30/40 anni). Contro di esso si levano accuse di lobbismo e di protezionismo da parte degli europei che si dicono pronti ad offrire propri Airbus per il 40% in meno.

Normalmente l’andamento della spesa militare USA è anticiclico a quello della crisi e dalla stagnazione produttiva: crescita (+46%) dal 1975 al 1985 (crisi) – calo dal 1985 al 1998 (ripresa) – lieve crescita dal 1998 al 2000 – impennata per gli anni a venire. Col sopraggiungere della nuova crisi e la stagnazione del mercato, quello delle armi si pone come possibile sbocco della sovrapproduzione capitalistica. È un consumo di merci indotto che si realizza attraverso i meccanismi della spesa pubblica e dunque il prelievo fiscale: risorsa che ha come origine lo sfruttamento e la pressione crescente sulle condizioni delle classi lavoratrici.

Perché armi e non strade, ospedali, scuole, etc, che sono egualmente merci e di cui egualmente si potrebbe fare carico la spesa pubblica (obbiezione tipica socialdemocratica)?

Innanzi tutto gli armamenti e lo sviluppo dell’attività bellica rispondono alle aspirazioni imperialistiche degli Stati riguardo alla conquista e spartizione di aree di influenza politico-commerciale e di controllo sulle fonti di approvvigionamento di materie prime; aspirazioni che in epoca di crisi e di contrazione dei mercati, dove la concorrenza si fa sempre più aspra, divengono particolarmente pressanti. Gli armamenti inoltre sono una merce particolare: destinati alla distruzione di altre merci e di capitali, aprono la via alla ricostruzione, con un volume di affari che cresce in proporzione alle devastazioni apportate. Per questi motivi il capitalismo in epoca di crisi punta verso la guerra.

Motivi più particolari giustificano inoltre la politica insistentemente guerrafondaia che la super-potenza americana persegue, particolarmente in questi anni. Gli USA non solo hanno un apparato militare di potenzialità incommensurabile rispetto a quello degli altri Stati del mondo, e di conseguenza anche una spesa militare in proporzione, ma anche un apparato produttivo nel settore degli armamenti che non ha eguali. Fra le prime dieci industrie militari nel mondo svettano tre colossi americani, Lockhed Martin, Boeing e Raytheon, che da sole ricoprono il 64% del fatturato mondiale.

Inoltre la spesa USA per ricerca e messa a punto in ambito militare è egualmente grandeggiante rispetto alle altre potenze, tanto che la maggioranza delle apparecchiature di avanguardia nel settore provengono da quella parte, se non altro come progettazione, brevetti, licenze, etc.

In breve si può affermare che, dopo il crollo dell’URSS, l’industria americana primeggia nel mercato degli armamenti, e ciò lascia comprendere quanto la borghesia americana punti sul suo sviluppo. E per vendere le armi ci vuole la guerra.

Ancora più interessante che rivendere all’esercito americano, con i fondi sborsati dal governo americano, è rivendere ad altri eserciti con i soldi sborsati da altri governi, in un modo o in un altro "convinti" ad acquistare, fossero anche i potenziali avversari nel prossimo conflitto. Il non plus ultra è armare e mantenere il proprio esercito a spese degli altri, operazione riuscita nella guerra del Golfo, della quale gli USA hanno presentato il conto all’Arabia Saudita.

È perseguendo questi obbiettivi che all’interno della NATO, gli USA da anni, ed ancor più dopo il fatidico 11 Settembre, premono insistentemente perché i più o meno fedeli alleati provvedano ad incrementare la spesa in funzione dell’ammodernamento dei rispettivi apparati bellici. Il nuovo concetto strategico che dovrebbe ispirare la riorganizzazione degli eserciti non sarebbe più la contrapposizione ad un avversario costituito, ma la funzione di gendarmeria internazionale: gestione di situazioni di crisi nel mondo, serie di minacce a breve termine nei confronti della sicurezza degli Stati membri. L’obbiettivo per gli alleati sarebbe raggiungere metà della potenzialità bellica degli USA in 10 anni.

Ma da parte americana si lamentava da tempo una certa resistenza politica dei governi al crescere della pressione fiscale destinata all’aumento della spesa militare, «dal momento che non è identificabile una minaccia esplicita nella regione». A questo proposito l’ex segretario della difesa W.Choen affermò che, per realizzare i piani di riarmo, «dobbiamo ricordare ai nostri alleati, oltre che al nostro popolo, che le minacce sono reali».

Poi venne l’11 Settembre, tuttavia previsto, ma che i servizi di sicurezza non hanno "saputo" scongiurare (oppure è colpa del Presidente che una mattina a colazione, ha scambiato un dispaccio della CIA con la bolletta della luce). Ne è seguita, come detto, un’impennata della spesa militare, ben giustificata da motivi di sicurezza dopo cotanto sconquasso.

Ma gli europei ancora nicchiano. A metà maggio a Reykjavik i rappresentanti degli alleati nella NATO vengono rampognati dai colleghi americani: la campagna afgana avrebbe dimostrato la necessità di un ammodernamento generale della tecnica militare e «il problema è che questa strada la stiamo percorrendo, finora, da soli». Spiegano i rappresentanti del Pentagono: «Non è un fatto politico, ma tecnico, insomma il modo di combattere nostro e degli eserciti alleati che prima era uguale, ora non lo è più: fra un po’ sia i singoli reparti, sia i quartier generali non saranno più capaci di intendersi». Dietro questo concetto generale viene presentata una lista di armi e di sistemi, di cui gli europei dovrebbero dotarsi, «presumibilmente con grande soddisfazione delle industrie militari americane», è il commento che si lascia sfuggire "La Repubblica". E l’alto convegno si conclude con l’impegno da parte dei ministri alleati di varare un vasto programma di ammodernamento delle forze armate.

È l’America che conduce il gran gioco e dichiara la posta per parteciparvi. Nessuno del consesso vuole rimanerne fuori, e gli esclusi chiedono di entrare... Ed ecco allora gli abbracci, le battute, le foto di gruppo, i grandi sorrisi contornati dalla coreografia di cartapesta messa su dall’insulso giullare italiota, che accolgono l’antico nemico ravvedutosi al libero mercato. Tutti tengono ben stretto il coltello sotto il tavolo.
 
 
 
 



Demagogia razzista
e spauracchio delle destre
per imbrogliare i lavoratori

Nel momento in cui scriviamo la Camera ha approvato la cosiddetta legge "Bossi-Fini". La discussione preliminare di tale legge ha presentato le caratteristiche proprie della solita politica borghese: fiumi di parole vuote, sbraiti dementi su demagogiche quisquilie, un po’ di toni da "vera Destra" per contentare l’elettorato più razzista e un altro po’ da "Destra più democratica" per i piccolo-borghesi che hanno il cuore più tenero. Da sinistra (Rifondaroli & Co.) qualche declamazione sul "pericolo fascista" e sui "diritti inalienabili dell’uomo", pur se non focosi come quelli a cui ci avevano abituati i loro padri stalinisti.

In realtà ciò che emerge, a chi la cappa della Controrivoluzione se l’è levata dagli occhi come i comunisti, è che tanto per la Destra quanto per la Sinistra il proletariato immigrato è una merce e per giunta a basso prezzo. Se Destra e Sinistra blaterano al proprio elettorato le loro nette differenze sulla "questione immigrazione", nei fatti (che, ci risulta, sono quelli che contano) la questione è risolta nello stesso modo dalle due correnti della politica borghese, poiché soltanto in quel modo il Capitale può risolverla.

Secondo i comunisti rivoluzionari, infatti, lo Stato borghese nella fase imperialistica non può che essere uno Stato di tipo fascista, pur se si auto-definisce democratico, come ad esempio lo Stato italiano dal 1945 ad oggi. La borghesia fa credere così al proletariato che i problemi di questo mondo si possano risolvere all’interno di una soluzione che appartenga o alla Destra o alla Sinistra borghese, nascondendo che il "problema" non sta in un tipo di governo rispetto ad un altro, ma sta in realtà nella natura del capitalismo, che obbliga la classe operaia, tanto se dominata da fascisti quanto da "democratici", a produrre per il profitto e non per la Specie Umana.

Se conferme a questa tesi ne abbiamo avute pressoché quotidianamente (dal carattere di Stato dei Sindacati Tricolore alle manifestazioni proletarie militarizzate, dal potere mediatico alla propaganda bellica avutasi nell’ultima decina d’anni, ecc.), altre ne possiamo trovare anche nel modo in cui i Governi, di Sinistra prima e il Governo Berlusconi ora, trattano della "questione immigrati":
    1°) furono i governi di Sinistra ad introdurre i campi di internamento per gli immigrati in varie parti d’Italia nei quali ci sono già scappati dei morti, a seguito di disperati tentativi di fuga;
    2°) furono i governi di Sinistra a cominciare la pratica, che ora è di successo, di affondare con la Marina carrette stracolme di disperati immigrati (con la legge Bossi-Fini alla Marina Militare sono stati affidati ancora più poteri, provvedimento che contemporaneamente è stato approvato anche nell’Inghilterra di Blair e che verrà a breve scadenza discusso nell’intera Unione Europea);
    3°) furono i governi di Sinistra a decidere che il flusso di immigrati deve essere regolato annualmente a seconda della quantità richiesta dalle aziende italiane, proprio come nel capitalismo si fa per qualsiasi merce.

Il Governo Berlusconi non ha fatto che continuare quella politica. Il fatto è che nel capitalismo comanda il Capitale: il governo, che sia di Destra o di Sinistra, non fa che obbedire.

L’immigrato è quel tipo di proletario senza riserve indispensabile al Capitale, in quanto mantiene la media dei salari bassa per tutto il restante proletariato ed è ricattabile con i modi più meschini e schifosi. Il proletariato immigrato inoltre serve a dividere la classe quando questa cerca un margine di manovra per la lotta antipadronale e dà inoltre libero sfogo al basso bisogno della piccola borghesia di trovare un capro espiatorio alle proprie filistee frustrazioni.

Il consigliere di Confindustria Guidalberto Guidi ha ammesso candidamente che «la nostra industria non può sopravvivere se non ha l’aiuto degli immigrati» ("La Stampa", 30 maggio). Ne è prova il fatto che ogni anno si ripete il vociare, ad esempio, degli agrari che spingono il governo ad innalzare il numero di immigrati da accogliere rispetto a quello inizialmente stabilito per compiacere il piccolo-boghesume. Nel terzo decreto del "Welfare" (chissà cosa vuol dire!) pare che la quota di immigrati, richiesti soltanto per lo sfruttamento nelle aziende agricole e turistiche, sia per il 2002 di circa 49.000 (in netto aumento rispetto ai 41.056 del 2000 e ai 39.400 del 2001).

In campagna elettorale partiti quali Alleanza Nazionale o la Lega Nord (come all’estero le varie "estreme destre", da Le Pen allo sfortunato Fortuyn) declamano sulla chiusura delle frontiere, per poi dimostrare una volta al governo che erano soltanto un insieme di frasi per accaparrare voti, in quanto il Capitale non permetterebbe che tali programmi si possano concretamente realizzare. I proletari immigrati servono al Capitale, tanto se guidato da una Destra quanto da una Sinistra.

Aldilà di tutto l’ipocrita filisteismo che si definisce antirazzista, la cosmopolita e interraziale Borghesia per forza di cose fomenta il razzismo nel proletariato, in quanto trova più facile piegare alle proprie necessità le disperate popolazioni del Terzo Mondo, che inoltre, se tenute separate socialmente e sindacalmente, possono essere utilizzate come maglio per demolire le condizioni relativamente migliori degli operai occidentali.

Tanto per il capitalismo sotto veste fascista quanto per quello che si vuole democratico il proletariato immigrato non può che essere carne da straziare per estorcerne plusvalore. A seconda delle necessità economiche il Capitale massacra la forza-lavoro immigrata o in campi di internamento o nella più tradizionale produzione di fabbrica e agraria: così avveniva nell’Inghilterra dell’800, patria del Capitale, così è avvenuto e avviene nel XX e nel XXI secolo. Il 71% degli immigrati che lavorano in Italia vive in piccoli appartamenti sovraffollati. Questo non è forse internamento?

Nella legge Bossi-Fini vi sono poi i punti sulla regolarizzazione di chi fra gli immigrati lavora in nero. La legge ha deciso la regolarizzazione fino ad ora soltanto delle domestiche e delle cosiddette "badanti" (che ammonterebbero a più di 500 mila). È stato deciso poi che il permesso di soggiorno è vincolato all’esistenza di un contratto di lavoro: chi non ha un lavoro o chi lo ha perso dovrà rientrare, come un cane preso a calci, al proprio paese.

Altra delizia della legge è la pretesa di registrare le impronte digitali di tutti gli extra-comunitari presenti in Italia. Rutelli, memore del dogma borghese della uguaglianza giuridica, ha combattuto in Parlamento... affinché si registrassero le impronte digitali anche di tutti gli italiani!

La morale della legge, seguito di similari provvedimenti già presi dai governo precedenti: il lavoratore immigrato lavorerà come un mulo 10, 12, 15 ore al giorno; in cambio  di un salario spesso appena sufficiente a pagarsi vitto e alloggio. Che non provi minimamente a lamentarsi dei soprusi del padrone in quanto se non gli rinnova il contratto sarà costretto a tornare, dopo le bastonate della polizia democratica, a morir di fame nel suo paese di provenienza.

Nella futura ripresa della lotta di classe proletari italiani e immigrati lotteranno fianco a fianco per l’uguaglianza salariale e normativa a parità di lavoro. Il proletariato immigrato comprenderà nella fresca esperienza della lotta che i diritti che conquisterà non sono un valore in sé ma contano solo in quanto abbattono degli ostacoli a che il proletariato possa lottare come un tutt’uno e non diviso contro il Capitale. Il futuro Sindacato di Classe non avrà al suo interno differenze di razza, nazionalità e religione. La futura Rivoluzione Comunista sarà senza patria e senza differenze di colore della pelle, in perfetta linea con quello slogan di fuoco che forgiammo nel Manifesto del 1848 e che recitava minaccioso PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI!
 
 
 
 
 
 
 



Crisi Fiat
I giganti vacillano

Al momento non si conosce l’esito della vicenda FIAT. È noto il numero di tagli di personale, previsto in oltre 2.400 unità. Il crollo delle vendite, che si è manifestato col mancato successo della Stilo, la scarsa redditività dei modelli utilitari più venduti (Punto, Panda, 600), non del tutto ammortizzata dalle vendite di auto di categoria superiore come le Alfa Romeo, hanno richiesto l’intervento di importanti banche nazionali quali San Paolo-IMI, Banca di Roma, Unicredito, intervento che in Borsa ha provocato reazioni significative: le azioni del Gruppo FIAT hanno avuto un lieve rialzo, mentre i titoli delle Banche in questione un sensibile ribasso! Le banche acquisterebbero il 51% delle attività finanziarie e commerciali del Gruppo e avrebbero l’onere di ricapitalizzare una holding che nel solo primo trimestre di quest’anno ha registrato un passivo di oltre 400 milioni di euro.

Poco chiari appaiono i termini degli accordi con l’americana General Motors: si parla della già avvenuta cessione del settore auto, nonostante varie smentite da parte di esponenti della famiglia Agnelli e di altri alti dirigenti.

Nella sola area torinese, compreso l’indotto, sono circa 10.000 i posti di lavoro minacciati. Il presidente dell’associazione delle piccole imprese propone soluzioni "autarchiche" invitando ad "acquistare italiano" per salvare il posto ai lavoratori italiani, ma poi minaccia il trasferimento delle produzioni nei paesi dell’Europa Orientale a causa qui dell’eccesso di "costi" e della scarsa "flessibilità" della manodopera.

In tutte le fabbriche italiane del gruppo, sia dell’auto sia di altri settori, sono già stati fatti diversi scioperi spontanei, non sempre controllati dai sindacati della Triplice e dal sindacato giallo SIDA-FISMIC, sia tra i lavoratori FIAT sia tra quelli di aziende appaltatrici (pulizie, trasporti, mense, magazzini, ecc). È da apprezzare che i lavoratori si siano mobilitati, e senza divisioni tra dipendenti FIAT e delle società fornitrici e appaltatrici, questi ultimi, di cui numerosi interinali, ancor meno garantiti.

È evidente che la crisi FIAT è solo una manifestazione della crisi del capitalismo che, generalizzandosi, renderà impossibile agli Stati "tutelare" o "accompagnare alla pensione" i licenziati. La difensiva operaia deve quindi contare solo sulla forza e sulle mobilitazioni. La "concertazione", che i sindacati confederali dicono di difendere, si basa sulle divisioni e sulla corruzione di pochi: è necessario che i lavoratori, giovani e anziani, "garantiti" e no, italiani e stranieri, si riorganizzino sulla strada opposta, quella dello scontro aperto e ad oltranza col padronato, in una prospettiva di difesa generale di tutta la classe.
 
 
 
 
 
 
 
 



Il testo distribuito dal partito
Per un Primo Maggio contro il Capitale tutte le sue guerre e i suoi governi

Proletari, Compagni!

Il capitalismo mondiale continua ad affondare nella palude della sua crisi storica, dovuta non a particolari politiche errate, ma alla natura stessa del Capitale, alla produzione per il Mercato. In questa prospettiva vanno letti gli ultimi sviluppi della crisi che ha colpito l’Argentina (dove 100 bambini al giorno muoiono di fame) e il Venezuela in cui si vuol far credere al proletariato che la colpa sta nel malgoverno e nella corruzione.

Il vulcano della produzione, invece di liberare il proletariato e quindi l’umanità dall’insicurezza, genera il suo contrario, cioè le crisi economiche di sovrapproduzione, la miseria crescente e la pauperizzazione in tutti i continenti.

Il capitalismo non può assicurare uno stabile e reale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ai suoi schiavi salariati.

Il mito borghese riformista di una crescita graduale ma continua del benessere all’interno della società capitalistica si è rivelato un inganno alimentato per più di mezzo secolo dall’opportunismo, mentendo ai lavoratori per meglio sottometterli al lavoro salariato, illudendoli che con i metodi della concertazione, della democrazia, del parlamentarismo, e quindi della pace sociale, si sarebbe umanizzato il Capitale.

TUTTO QUESTO ERA ED È FALSO!

Il capitalismo mondiale è una macchina inesorabile, è un mostro che divora nervi, sudore e sangue, nelle sue guerre come nelle sue paci. Più diventa senile, più diventa feroce.

Mentre la borghesia riesce a difendere i suoi profitti e la piccola borghesia intellettuale e bottegaia il suo quieto vivere, per la classe operaia si annunciano solo sacrifici "necessari per tutti", cioè tagli ai salari, riforma pensionistica, licenziamenti, aumento dei carichi di lavoro. I giovani proletari, grazie alla politica concertativa degli ultimi decenni, cioè con la collaborazione diretta tra sindacato, padroni e governo – anche di "sinistra" – vengono sbattuti sul mercato del lavoro senza alcun "diritto" né protezione.

Il Capitale, che chiede oggi ai proletari di curvare la schiena nella precarietà più assoluta, domani chiederà loro di offrirsi come carne da cannone al suo "bagno di giovinezza", alla Terza Guerra Imperialista, guerra di cui oggi si possono intravedere i primi bagliori, dai Balcani all’Asia al Medio Oriente.

Approfittando degli avvenimenti dell’11 Settembre la borghesia statunitense cerca di trascinare la classe lavoratrice a stringersi attorno alla bandiera americana in nome del patriottismo. Ai proletari palestinesi si nasconde la matrice di classe che li vede schiacciati dall’intesa di fatto fra borghesia israeliana e borghese Autorità Palestinese, mentre i fratelli di classe israeliani, terrorizzati dai suicidi attentati degli "islamici", sono spinti a schierarsi con il militarismo borghese del loro paese. Nei paesi arabi (Egitto, Nord Africa, Iran, Siria, etc) la "causa palestinese" è utilizzata per distogliere le classi lavoratrici dall’odio verso i loro infami governi borghesi. Le classi dominanti di India e Pakistan chiamano i proletari su fronti contrapposti per le prove di un possibile macello "irredentista". Il "terrorismo" ceceno viene usato per giustificare le peggiori nefandezze della borghesia russa contro i ceceni e contro lavoratori russi.

Tutto ciò non è altro che la riconferma della invariante teoria marxista: tra Capitale e Lavoro esiste un rapporto di antagonismo inconciliabile, al di sopra del quale nessun ponte può essere gettato. Un identico interesse oppone in tutto il mondo la classe operaia al nemico Capitale, un solo interesse accomuna i proletari di tutti i paesi, immigrati compresi.

In Italia la classe operaia, al seguito di Partiti falsamente comunisti e di sinistra e inquadrata in Sindacati falsamente di classe, è stata avviata sulla strada del cedimento e della collaborazione con la borghesia e con il suo Stato, mentre, come abbiamo visto più volte, viene tenuta aperto il diversivo del "terrorismo", sempre utile a rafforzare la solidarietà fra le classi.

A questo bilancio non possiamo sottrarci. Esso è il presupposto affinché, scuotendosi di dosso la rassegnazione dei vinti, il proletariato riprenda il proprio percorso autonomo di classe, nella prospettiva comunista e internazionalista, e possa rispondere NO! al coro assordante che grida: SACRIFICI! DEMOCRAZIA! ORDINE!

Riprenda il proletariato la via maestra, la sola tracciata dalla sua storia di classe, quella dell’autentico Comunismo rivoluzionario.

Compagni, lavoratori!

Risorga la lotta degli oppressi contro i loro oppressori. Alle riduzioni salariali, ai licenziamenti, al precariato, è possibile rispondere non divisi per località o per aziende ma uniti in un risorto Sindacato di Classe, rompendo con i sindacati collaborazionisti, in primo luogo Cgil-Cisl-Uil che chiamano opportunisticamente a raccolta i lavoratori, pur se numerosi, a manifestare contro obbiettivi falsi o parziali, perfettamente compatibili alle esigenze del Capitale. Solo inquadrati in un vero Sindacato di Classe si arriverà ad un’unica lotta disciplinata di tutte le categorie, tornando così a sentire e a far sentire la propria forza collettiva.

Risorga il vero Partito Comunista, quello di sempre, di Marx e di Lenin, per la difesa della secolare dottrina emancipatrice, per la direzione domani della riscossa internazionale del proletariato, per il Comunismo!

PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



PAGINA 2

Riunione Generale del partito
Genova, 25-26 maggio 2002  [RG83]

 
 
 
 
  • La Centralizzazione finanziaria - [Resoconto esteso]
  • Corso della Crisi economica -
  • Marxismo e Geografia -
  • La Guerra Civile americana - [Resoconto esteso]
  • Il Ciclo dello Stato nella Storia umana -
  • Storia dell’Afghanistan -
  • Attività sindacale -
  • Crisi in Palestina.
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  • The American Civil War [Extended report]
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    Si è tenuta a Genova nei giorni 25 e 26 maggio scorsi la riunione della nostra compagine militante con la presenza di quasi tutti i suoi gruppi.

    Al di sotto del frastuono mediatico della propaganda borghese permane la fiacchezza dell’ambiente sociale circostante e la debolezza della lotta di classe ed il partito è cosciente che solo in tempi migliori potrà estendere il suo circuito e la sua influenza. Questo non fa sì che esso possa interrompere la sua opera di manutenzione ed utilizzo della dottrina per spiegare i fenomeni colossali e sconvolgenti della planetaria involuzione del capitalismo, né rinunciare ad infiltrasi, con la sua propaganda e con il suo indirizzo, ovunque si accenda la più flebile fiammella di vita proletaria.

    Questo rapporto con la vivente classe, che non è mai cessato nei lunghi decenni dalla sua ricostituzione nel dopoguerra, è una delle condizioni di esistenza del partito. Sulla base del permanente lavoro di difesa dell’invariante programma storico, è questo settore di intervento nelle lotte operaie che, a suo tempo, diverrà preponderante quantitativamente e costituirà il robusto tramite fra il partito storico e la rivoluzione in atto.

    Dei numerosi importanti rapporti esposti a Genova diamo subito qui lo schema rimandando alle prossime pubblicazioni della rivista "Comunismo" la loro riproduzione integrale.
     

    La Centralizzazione finanziaria

    Si concludeva il lavoro già esposto alle precedenti riunioni descrivendo i soggetti più importanti nei movimenti finanziari: i vari tipi di banche e i fondi comuni di investimento. Si è cercato di individuare, approssimativamente, il rapporto di grandezza esistente tra il mercato del capitale finanziario rispetto a quello delle merci, che statistiche molto generiche indicano in 40.

    Circa i fondi comuni, protagonisti di primo piano nelle recenti grandi operazioni di fusione-acquisizione, tra gli assicurativi-pensionistici si è citato il più grande al mondo, l’americano Fidelity, con un patrimonio pari al Pil del Messico, tra quelli speculativi il Quantum Fund di Soros ed il caso del salvataggio di Ltcm.

    Rispetto alla centralizzazione delle banche locali e ai fallimenti si è presentato il caso europeo e quello americano ed è seguita una panoramica sulle banche d’affari pure con una tabella sui loro surplus sul mercato dei cambi.

    Si è quindi esposta una sintesi dell’origine e sviluppo delle banche centrali e delle loro deboli riserve economiche rispetto i possibili attacchi speculativi da parte dei fondi e descritti gli organismi finanziari internazionali, la loro origine, scopo e budget assegnato: Fmi, Banca mondiale, Bri, Ocse e Bers.

    Venendo ai dati recenti si dimostrava il prevalere negli investimenti internazionali del carattere finanziario su quello industriale, dove i primi sono 4 volte i secondi; del mercato internazionale dei capitali si sono riferiti dei dati circa l’ampiezza del mercato dei "derivati" e la diversa grandezza e ripartizione tra quello americano e quello europeo.

    Seguivano alcune considerazioni finali tratte dal nostro sogno-bisogno del comunismo, che ci lascia sempre però con i piedi per terra, circa l’esaurito ruolo storico rivoluzionario del capitalismo, benché il proletariato sia oggi in ritardo e non organizzato. Nonostante cotanta "globalizzazione", sventolano sempre più le bandiere del nazionalismo, delle razze, delle culture, delle religioni sotto le quali si scatenano le guerre "di difesa", necessarie a perpetuare il dominio economico e di classe. Gli Stati nazionali, che per effetto della "globalizzazione" non avrebbero più ragione di esistere, sono in realtà contrapposti sui piani commerciale e finanziario ed hanno ragione di esistere principalmente come strumento di controllo e di oppressione di classe.

    Solo il comunismo rivoluzionario potrà opporre il suo internazionalismo all’internazionalismo del Capitale, che intanto avvicina i proletari, nella condizione oggi di oppressi, di collaboranti disinteressati domani.
     

    Corso della Crisi economica

    Il breve comunicato che è seguito circa il ricaccio e l’ordinamento dei dati statistici riferiva delle nuove fonti di dati cui lo studio del partito può attingere e se ne illustravano i primi risultati. In particolare si mostravano i progressi raggiunti nell’allineamento dei dati storici della produzione industriale americana, mettendo in evidenza alcune sue contraddizioni (già rilevate in antichi nostri studi). In particolare si approfondiva il confronto fra la serie dell’indice generale della manifattura, e quelle dei settori in cui è suddivisa, e la serie del consumo di elettricità nell’industria, misurato questo non in valore ma in quantità fisiche. Si rendeva evidente la divergenza in anni recenti delle due curve.

    Si esponeva quindi un quadro tendente al confronto quantitativo fra la forza produttiva dei maggiori capitalismi, fondato sia sulle grandezze globali sia sul consumo di singole materie prime.

    Infine si davano alcuni indicatori statistici più aggiornati che confermano, nonostante le dichiarazioni borghesi contrarie, che la crisi economica in corso è tutt’altro che superata.
     

    Marxismo e Geografia

    In polemica con una delle teorie oggi alla moda, che si fa chiamare "determinismo geografico", probabilmente in opposizione a quello "storico" nostro classico, nel terzo esposto è stato riferito del ruolo che la "geografia" ha nel materialismo dialettico, tanto come studio del rapporto fra l’uomo e l’ambiente, naturale o artificiale, quanto come rapporto spaziale fra gli uomini nella specificità dei vari modi di produzione (ad esempio lo squilibrio città/campagna).

    Gran parte della geografia borghese attuale non ha dignità scientifica, non è in grado di andare aldilà dell’empirismo: vede in modo "documentaristico" un dato fenomeno senza inserirlo nel suo reale divenire dialettico, lasciando da parte le cause determinanti che sole ne permettono di comprenderne l’essenza.

    Il "determinismo geografico", come il marxismo, indica nell’ambiente la condizione prima affinché l’umanità si possa evolvere in date regioni e non in altre. Se vede l’ambiente determinare l’uomo, però sembra ignorare che a sua volta l’uomo, in cooperazione con gli altri uomini, agisce con la sua prassi nell’ambiente naturale. Se necessario alla sua esistenza l’uomo inventa dei mezzi di produzione più sofisticati e produttivi e facendo ciò rivoluziona i rapporti di produzione nel quale vive. Per il marxismo l’ambiente è una forza produttiva. L’evolversi dell’umanità nella storia è dovuto allo scontro dialettico fra forze produttive e rapporti di produzione, mentre per il determinismo geografico è sempre e soltanto l’ambiente esistente, naturale o artificiale, a determina questa evoluzione.

    Si è passati dipoi ad analizzare come il rapporto spaziale fra gli uomini e il rapporto fra l’uomo e l’ambiente siano venuti a mutare nella successione dei modi di produzione.

    Nel comunismo primitivo l’uomo era parte integrante della natura: dalla natura era dominato, ma non dalla sua produzione, come sarà per l’uomo invece delle società classiste. Limite della geografia di quell’umanità era però la divisione naturale in gran numero di tribù che si dividevano il territorio.

    Il passaggio all’agricoltura stanziale avvenne in date regioni e non in altre per diversi motivi quali: 1) declino delle risorse naturali e quindi crescente difficoltà di procacciarsi il cibo con la caccia e la raccolta; 2) disponibilità in un dato territorio di specie animali o vegetali addomesticabili; 3) crescente efficienza e complessità dei mezzi di produzione; 4) relazione stretta fra densità demografica in aumento e produzione di cibo; 5) prevalere numerico e tecnico-culturale delle popolazioni agricole-allevatrici su quelle di cacciatori nomadi. Il fatto ad esempio che nell’America esistesse soltanto il lama come animale da allevare, a differenza dell’Eurasia che aveva i principali animali ancora oggi allevati dall’uomo, ha determinato importantissime conseguenze nell’evolversi dei rapporti di produzione e quindi sociali.

    Con l’avvento delle società di classe l’uomo si trovò espropriato dalla natura, espropriazione che è cresciuta in radicalità col progressivo allontanarsi dall’originario comunismo primitivo. Dialetticamente questa espropriazione ha rappresentato però la premessa per il futuro armonico dominio dell’uomo sulla natura, ritorno che sarà permesso grazie proprio al razionale riconoscimento da parte dell’uomo delle leggi di questa.

    La variante asiatica della forma secondaria presentava una sorta di unità indifferenziata di città e campagna, la variante greco-romana vede invece la propria storia caratterizzata dalla città. Se i caratteri geografici del grande territorio cinese hanno determinato una evoluzione storica per il paese isolata dal resto del mondo e priva della necessità dell’utilizzo dello schiavismo, il Mediterraneo, mare chiuso e facilmente navigabile, ha all’opposto contribuito notevolmente nel determinare i peculiari caratteri della variante greco-romana.

    La caduta dell’Impero romano e l’imporsi del modo di produzione feudale provoca la decadenza delle città e il passaggio alla centralità della campagna, ma dal X secolo circa vi sarà un rifiorire delle città che andrà accentuandosi con lo sviluppo della borghesia e la crescente divisione del lavoro.

    È però soltanto con l’imporsi del modo di produzione capitalistico che lo squilibrio fra città e campagna raggiungerà livelli estremi fino a giungere alle attuali megalopoli di decine di milioni di abitanti. La città è una necessità dell’accumulazione capitalistica ed in essa il proletariato vive il suo inferno terrestre nella vita in mefitiche case e in un’abominevole agglomerazione urbana selvaggia e inquinante.

    Soltanto nel comunismo il genere umano avrà gli strumenti per superare la divisione fra città e campagna.
     

    La Guerra Civile americana

    In rapporto al lavoro sulla storia della classe operaia negli Stati Uniti d’America si è palesata la necessità di chiarire il contesto economico e politico nel quale si sono formate le sue caratteristiche peculiari. L’esposto, che chiudeva i lavori del sabato, ha quindi affrontato la storia di quel paese, grosso modo tra la conquista definitiva dell’indipendenza e gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra civile.

    Nel periodo il paese conosce uno sviluppo prodigioso, soprattutto nei decenni più vicini alla guerra civile. La popolazione supera nel 1860 i 31 milioni, grazie soprattutto a forti correnti di immigrazione. Anche se il paese è eminentemente agricolo, commercio e industria crescono a ritmi vertiginosi; il risultato è una forte concentrazione di popolazione e ricchezza negli Stati del Nord-Est; è in questi Stati che la classe operaia nasce e si rafforza, anche se rimane sempre un po’ fluida per la continua emorragia di forze verso l’Ovest, dove chiunque può forgiare il proprio destino solo contando su un fucile ed una vanga.

    Il Paese è guidato con continuità dal Partito Democratico, forte soprattutto al Sud, contrario a qualsiasi protezionismo (chiesto dalla nascente industria e avversato dai piantatori) e a una eccessiva centralizzazione del potere. L’ago della bilancia è il Midwest, le grandi pianure del centro, che vengono gradualmente messe a coltura dai pionieri; questi sono naturalmente alleati del Sud, ma una serie di fattori economici gradualmente li avvicina al Nord, che da parte sua si rafforza sempre più. Uno dei fattori che allontana gli uomini della frontiera dai sudisti è lo schiavismo, un tipo di rapporto padrone/lavoratore oramai superato per la moderna produzione capitalistica, e che interessa solo i piantatori del Sud, soprattutto dopo che la loro agricoltura si è in massa convertita alla produzione di cotone. Le premesse per un cambio di rotta nel paese, con il passaggio del potere al Partito Repubblicano (che nasce negli anni ’50), sono quindi chiare e tali da spaventare i sudisti, che con la perdita del potere perderebbero anche il controllo delle condizioni per la sopravvivenza della loro economia

    L’argomento, di non lieve complessità, non ha potuto essere esaurito in un solo rapporto, e la sua conclusione sarà presentata in una prossima riunione generale.
     

    Il Ciclo dello Stato nella Storia umana

    Riprendevamo domenica mattina con la continuazione dello studio sulla storia delle forme statali.

    Le migrazioni 100.000 anni or sono portarono l’Homo sapiens su quasi tutta la superficie delle terre emerse del pianeta.

    Esiste una continuità tra le tribù agrarie comuniste e i primi Stati della forma secondaria perché tali Stati non nascono dall’abbattimento di vecchi apparati di potere. Le istituzioni gentilizie vengono fatte proprie dalle classi proprietarie che si circondano di uomini armati per imporre l’ordine costituito alla società.

    La forma fondiaria secondaria di produzione, basata sul possesso fondiario, può essere suddivisa nei tre tronconi principali: asiatico, germanico e schiavista. Ma vi è una continuità tra queste forme che altro non sono che varianti di uno stesso livello produttivo dovute alle differenze ambientali che portano ad un diverso dimensionamento dei lotti terrieri. Ne consegue un diverso rapporto tra l’apparato dello Stato e i proprietari terrieri col variare della dimensione delle proprietà. Così troviamo i due opposti nel piccolo appezzamento asiatico e nel latifondo europeo, con le conseguenti varianti dello Stato despota asiatico e dello Stato servo dei latifondisti in Europa e in Giappone. Tra questi estremi troviamo svariate sfumature di cui un tipo è quello germanico.

    Interessante notare l’organizzazione sociale dei popoli nomadi, che implica l’assorbimento di questi popoli nelle macchine statali dei popoli vinti.

    Sono invece le istituzione prestatali delle tribù agricole che, in base al possesso terriero, costituiscono veri embrioni di Stati.

    Si sono poi brevemente descritti i tratti, oltre che dei popoli nomadi, delle civiltà stanziali indiana, slava, inca e araba.
     

    Storia dell’Afghanistan

    Iniziava quindi con l’Afghanistan il resoconto di uno studio sui paesi dell’Asia centrale.

    Il territorio dell’Afghanistan è prevalentemente montuoso. La catena dell’Hindukush separa la pianura settentrionale da quella meridionale, più arida della prima. Le attività principali si svolgono alle pendici pedemontane presso i fiumi ed intorno alle oasi. Queste sono il 12% del territorio così come la terra coltivata. Vi si pratica una agricoltura irrigua di matrice persiana.

    Grandi estensioni di terra, sia nelle oasi sia nelle altre aree coltivate, sono in mano a capi clan e alle famiglie dominanti. Questi, insieme all’"aristocrazia" dei gruppi nomadi dominano il paese, soggiogano la massa dei contadini poveri e dei diseredati e, in combutta con gli imperialismi vicini e lontani, li incatenano alla miseria e all’arretratezza.

    Le successive invasioni di grandi popoli nel corso della storia, la funzione diaframmatica delle montagne e la questione sociale appena indicata sono i tre fattori che hanno fatto e fanno dell’Afghanistan un miscuglio ed un intreccio etnico. La popolazione ad oggi si aggira attorno ai 25 milioni di abitanti divisi in varie etnie, Pasthun, maggioritari, seguiti, in ordine numerico decrescente, da Tagiki, Hazari, Uzbeki, Turkmeni, Baluci, Nuristani, ed altri minori.

    La graduale espansione a partire dal XVI secolo dell’etnia Pasthun, portò nel 1747 Ahmad Shah a riunire sotto di sé gli altri capi clan sia Pasthun sia delle altre etnie. Il regno era più esteso dell’attuale Afghanistan.

    Fin dal successore di Ahmad Shah si riaccesero le rivalità etnico tribali. Di esse approfittarono le potenze confinanti, i Sikh, la Persia e soprattutto l’Inghilterra e la Russia zarista.

    Il governo inglese delle indie osteggiava le mire russe ad uno sbocco sull’oceano indiano. Ne seguirono le due guerre anglo-afghane del 1839 e del 1878 entrambe risoltesi con una cocente sconfitta degli inglesi. Nel 1885 Russia ed Inghilterra fecero un primo accordo per delimitare le aree di rispettiva influenza. Nel 1893 fu definita la cosiddetta linea Durand ossia il confine con l’India britannica, identico all’odierno confine con il Pakistan, che lasciava al di fuori dell’Afghanistan una grossa fetta dell’etnia Pasthun. Nel 1907 i russi dichiararono l’Afghanistan fuori dalla propria sfera di influenza ed il paese divenne un semi-protettorato britannico.

    Un terzo conflitto anglo-afghano scoppiò all’indomani dell’assassinio del re Habibuallah nel 1919, quando il suo successore Amanullah dichiarò che la nazione afghana doveva godere di piena libertà interna ed esterna, con tutti i diritti delle altre potenze indipendenti. Il conflitto si concluse con il riconoscimento della piena indipendenza dell’Afghanistan nel 1921.

    Con Amanullah furono intraprese una serie di riforme sul piano politico, sociale e religioso, che nel 1923 portarono all’istituzione di un governo costituzionale, all’abolizione dei titoli nobiliari e all’estensione della istruzione alle donne. Nel 1933 salì al trono l’ultimo re afghano il diciannovenne Muhammad Zahir Shah, esiliato a Roma dal 1973 fino a poche settimane or sono, dopo la sua deposizione ad opera del cugino e cognato Daud.

    Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti presero il posto dell’Inghilterra nella contesa con la Russia staliniana, che proseguiva la politica imperiale degli zar.

    Nel 1978 durante un colpo di Stato guidato dal Partito Democratico del Popolo Afghano, filo russo, venne ucciso Daud. Il nuovo regime iniziò una serie di riforme partendo da quella agraria che trovò subito la resistenza di una parte della popolazione. Questa resistenza divenne ben presto opposizione armata in quasi tutto il paese tanto da richiedere un intervento diretto dell’esercito russo nel 1979.

    L’avanzata russa verso sud portò gli Stati Uniti a sovvenzionare la guerriglia antisovietica dei mujaheddin con armi e dollari attraverso il Pakistan e l’Arabia Saudita. La guerra provocò circa un milione di morti tra gli afghani e decine di migliaia fra i soldati russi. L’armata rossa dovette cominciare la sua ritirata nel maggio 1988.

    Nel 1992 sotto i colpi dei mujaheddin si pose fine all’ultimo governo filo russo di Najibullah. Si insediarono a Kabul i tagiki Burhannidin Rabbani e Massud ed il generale uzbeko Dostum. Nel tentativo di scalzarli il Pasthun Hekmatiar bombardò per due anni la capitale. Costui in un primo tempo fu appoggiato dagli Stati Uniti, ma successivamente da essi abbandonato a favore di altri Pasthun, i Talebani.

    Questi emersero nel 1994 aiutati dal servizio segreto pakistano, l’ISI, e dall’Arabia Saudita, entrambi sotto la regia statunitense. Movimento nato dal nulla, nel giro di qualche anno arrivò a controllare il 90% del paese, ad esclusione della valle del Panshir, ancora nelle mani di Massud, al quale agli aiuti russi si erano aggiunti quelli iraniani ed indiani.
     

    Attività sindacale

    Le due relazioni hanno brevemente riassunto l’attività dei compagni che lavorano nella Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti  e nelle Rappresentanze Sindacali di Base del Pubblico Impiego.

    Questi ultimi mesi hanno visto le deboli ma vitali organizzazioni di base cercare di porre un argine all’offensiva del governo e del sindacalismo confederale sul famigerato Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una querelle volutamente rinfocolata dai contendenti e che minacciava di far perdere la tramontana a queste organizzazioni, che cercano di contrastare lo strapotere dei sindacatoni.

    Sono stati brevemente ripercorsi gli ultimi avvenimenti, che hanno visto sia in dicembre sia a febbraio gli scioperi dei soli Sindacati di Base, i quali poi hanno partecipato allo sciopero generale indetto da CGIL CISL e UIL ad aprile, mantenendo però un’apprezzabile autonomia di posizioni e di mobilitazione, importante per mostrare a tutti i lavoratori le loro diverse posizioni ed atteggiamenti.

    Riguardo all’FLMU-telefonici, in quest’ultimi mesi si è avuto, di nuovo rispetto a quanto avevamo riferito alla Generale di settembre, la partecipazione alle elezioni RSU, boicottate invece 4 anni fa, essenzialmente per la quota del 33% riservato ai Sindacati firmatari di contratto. Senza nessunissima illusione di poter in qualche modo invertire la politica sindacale, consci del ruolo "conciliatore" per quale le RSU sono state partorite, l’FLMU ha partecipato alle elezioni, in Toscana con una lista propria e nella rimanente regioni con una lista comune a Cobas e Snater, raccogliendo risultati minimi certo ma significativi di un apprezzabile legame con i lavoratori, risultati che permettono ai pochi eletti di poter svolgere, anche in quella sede, la loro opera di contrasto della generale politica sindacale confederale.

    Anche la nostra azione nelle RdB Pubblico impiego è tesa a favorire il prevalere al suo interno della prospettiva della rinascita di un genuino sindacato di classe, che rifiuti ogni forma di concertazione e difenda gli esclusivi interessi dei lavoratori salariati, dei sempre più numerosi precari, "atipici", disoccupati.

    Ad ogni occasione, come nella recente Conferenza di organizzazione, cerchiamo di mostrare che i cosiddetti “diritti sindacali” di cui gode la RdB, dalla riscossione delle quote sindacali per delega, ai distacchi, ai permessi retribuiti, alle assemblee durante l’orario di lavoro, se possono all’immediato apparire (come è avvenuto negli ultimi anni) strumenti che facilitano l’organizzazione e le lotte, essi hanno come contropartita lo stretto controllo dello Stato su queste organizzazioni, l’accettazione delle sempre più rigide normative antisciopero, il diffondersi di “abitudini” molto lontane da quelle classiche di un sindacato di lotta, che trova la sua forza in primo luogo nella mobilitazione dei propri iscritti e simpatizzanti e nel loro quotidiano sacrificio.

    In particolare nel settore dei Beni Culturali le RdB sono impegnate in un’azione tesa a premere sul ministero perché assuma stabilmente i circa 2.500 precari che da anni lavorano nei musei statali con contratti a termine. Allo stesso tempo stanno conducendo un’azione contro la ventilata privatizzazione di musei e aree archeologiche, evento questo che provocherebbe un differenziarsi delle condizioni di lavoro e di salario e porterebbe ad un generalizzato aumento dello sfruttamento, rendendo anche estremamente più diffile l’opera di organizzazione.

    * * *

    Il lavoro svolto, minimo certo, è però affrontato con la serietà, la ponderazione e l’impegno che da sempre ci caratterizzano, a fronte di condizioni difficili, in organizzazioni in cui inevitabilmente predominano mille ubbie e comportamenti democratoidi, popolareschi e legalitari, con una classe in generale legata alla corruzione sociale di CGIL, CISL ed UIL.

    Data la composizione del piccolo partito attuale, che conta fra i suoi militanti pochi lavoratori salariati attivi, è inevitabile che quantitativamente prevalgano le forze impegnate nello studio della storia del movimento proletario, della teoria marxista e delle vicende internazionali. Questo non implica però che nel partito si innalzino barriere fra teoria ed azione, anzi è espressione di sana vita di partito riuscire a tramutare in quotidiani e coerenti comportamenti classisti il secolare bagaglio programmatico e di esperienza delle lotte del proletariato internazionale.

    Tesi nostra, mille volte espressa, è che il partito ricerca la guida per l’azione nella teoria e non nella pratica del giorno per giorno e che neanche nei movimenti più radicali ad accesi il partito potrà rinunciare ai propri principi, neppure ad un’infinitesima parte di essi e nemmeno per essere alla testa delle organizzazioni sindacali qualunque esse siano; non oggi e certamente neppure domani, quando enormi, reali movimenti metteranno in moto la macchina del ricostruito Sindacato di classe, perché tale rinuncia alla fine determinerebbe la rovina del movimento stesso e persino dell’organo Partito.

    Il Partito, questo il nostro marxistico ABC, non fa il Sindacato, il Sindacato è il prodotto dei rapporti di forza fra le classi. L’azione di Partito è volta ad accelerare processi ed a prevenire errori, mostrando come la più intransigente lotta economica tende a coincidere col previsto programma di Partito e con la sua direzione. Svolgendo in positivo i compiti previsti del propagandista, dell’organizzatore e del dirigente sindacale, non sottaciamo mai il nostro punto di vista di comunisti, che diffondiamo tra gli operai, organizzati e non organizzati, inquadrati in sindacati piccoli o grandi, di classe o riformisti.

    Questa nostra tensione ed opera di propaganda nell’ultimo decennio si è potuta avvantaggiare di una rete reale di organismi sindacali di opposizione che si muovono di fatto in difesa dei lavoratori, accolgono la milizia dei lavoratori comunisti e nei quali possiamo liberamente esporre le nostre concezioni sulla lotta operaia. Questa attività sindacale, che va condotta in ogni organizzazione non irreversibilmente conquistata dal nemico borghese e tende, dichiaratamente, alla conquista al partito della direzione del sindacato, è volta a favorire la nascita di organismi di difesa operaia e a mantenere gli esistenti, per quello che i nostri sforzi permettono, nel senso di classe, o almeno ad opporci a quegli indirizzi che tendono a portarli sulla strada già seguita dai confederali.

    Il Partito, qualunque sia l’appassionato impegno dei propri militanti, come non può suscitare un movimento che non c’è, non può altresì rompere gli steccati aziendali o promuovere quelle azioni dirette e generali che ci attendiamo domani dalla classe lavoratrice. Volenti o nolenti, questi gruppi minoritari di oppositori sindacali si ritrovano inevitabilmente a condurre agitazione e scioperi minoritari e per minime rivendicazioni aziendali o categoriali. Sono costretti a muoversi nella legalità perché non ancora sufficientemente appoggiati dalla massa dei lavoratori, oltre che osteggiati dalle strutture padronali che hanno una consolidata intesa con i sindacati Confederali. Occorre avvertire e risolvere dialetticamente l’apparente contraddizione tra la piccolezza e incertezza delle azioni pratiche che questi organismi possono intraprendere e quelle che noi sappiamo essere le necessarie direttrici dell’azione di classe.

    Il Partito, nel suo insieme, con la riproposizione costante della dottrina e dei suoi insegnamenti è il retroterra necessario all’azione minima e quotidiana che i nostri oggi isolati compagni devono svolgere nella loro attività sindacale, al fianco del più piccolo e sparuto gruppo di lavoratori che intraprende la strada della ricostruzione dell’organo difensivo di classe. Questo fraterno, faticoso, costante lavoro, è oggi opera di piccoli granelli, ma che sappiamo indispensabili al pieno dispiegarsi del movimento generale di classe, essenziali, nel senso che solo la loro presenza lo renderà possibile.
     

    Crisi in Palestina

    L’ultimo rapporto ha riguardato gli avvenimenti in corso che hanno nuovamente precipitato la regione mediorientale in una situazione politica e sociale molto critica, confermando che essa resta una delle aree di scontro principali tra i rivali imperialismi. Si informavano i compagni della decisione di riprendere il lavoro che negli anni passati, oltre ad un costante intervento sui nostri organi di stampa, aveva già portato alla pubblicazione di un numero speciale della rivista "Comunismo".

    L’esposto alla riunione ha ricordato le posizioni classiche del Partito sulla complessa questione nazionale e coloniale e confermato la valutazione che in tutta la regione mediorientale i rapporti economici e sociali dominanti sono quelli capitalistici e che non vi è più alcuna possibilità di affermazione storica per le pur irrisolte questioni delle nazionalità minori, in primo luogo per quelle curda e quella palestinese. Nella situazione attuale di maturo capitalismo in tutti i Paesi dell’area, indirizzare quindi le masse diseredate curde, palestinesi, irachene od iraniane alla mobilitazione in alleanza con le rispettive classi dominanti per la soluzione di inesistenti "questioni nazionali" è irrimediabilmente reazionario.

    In un breve riepilogo degli ultimi, tragici avvenimenti si è potuto porre in evidenza come il proletariato di Jenin e delle altre città occupate della Cisgiordania, anche a causa della politica collaborazionista dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dell’Autorità palestinese, si sia trovato solo e disarmato dinanzi ai carri armati e alle ruspe dell’esercito israeliano. Un segnale positivo è stato rappresentato dalla mancata offensiva contro la striscia di Gaza, causata sì dalle caratteristiche di quell’agglomerato urbano e dalla presenza sociale di un numeroso proletariato, ma anche dalla forte opposizione alla guerra che va estendendosi all’interno di Israele ed anche nelle principali metropoli mediorientali, dal Cairo ad Amman.

    I diversi schieramenti imperialistici tendono ad un controllo capillare delle aree strategiche. A questo scopo, qualora decidessero a tavolino, nei covi controrivoluzionari della diplomazia internazionale, di assegnare un territorio ai palestinesi, o altro ai curdi, non sarebbe per dare soluzione alle "legittime aspirazioni" di questi popoli, come demagogicamente si dichiara ad ogni occasione, ma per fomentare nuove guerre e nuovo sfruttamento proletario. Più volte si è parlato in interminabili conferenze della possibilità della creazione di uno "Stato palestinese" su una parte della Cisgiordania e a Gaza, territori minuscoli sui quali sarebbe impossibile costituire un’economia vitale, che certo non potrebbe accogliere i milioni di profughi palestinesi che ancora sognano il ritorno nella loro terra. Allo stesso modo si ipotizza la creazione di uno Stato curdo da costituire nel nord dell’Irak una volta abbattuto l’attuale regime.

    Perdurando gli attuali rapporti di produzione non esiste soluzione alla babele del Medio Oriente. Su quei territori martoriati riapparirà lo spettro dell’internazionalismo proletario, della solidarietà di classe, del comunismo. Al proletariato d’Occidente e di Israele spetta di non restare insensibile agli orrori perpetrati dalle proprie classi dominanti, di separarsi da esse, di denunciare quella rapina e oppressione di piccoli popoli, che condanna in linea di principio e contro cui deve impegnare la sua forza.
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     



    PAGINA 3
    Dalla rovina delle aristocrazie del lavoro alla ripresa di classe

    Rapporto in sezione a Torino

    Da Marx in poi noi comunisti ci siamo distinti da utopisti, operaisti, volontaristi ecc. per il considerare la lotta di classe un insopprimibile fatto "naturale". Nella storia del movimento operaio sono state ugualmente "naturali" le fasi di avanzata e di ritirata, fasi cioè in cui la lotta delle classi è stata nel pieno della sua violenza, fino all’offensiva politica, e fasi in cui la lotta, per dati fattori storici, è languita.

    Fattori della perdurante debolezza del movimento sono stati la corruzione determinata dal grande boom economico del Secondo dopoguerra e dalle numerose "briciole" che il Capitale occidentale ha concesso ai suoi proletari; la controrivoluzione staliniana e l’opportunismo sempre più degenerante dei partiti operai, tanto staliniani quanto antistaliniani; la simbiosi definitiva fra gli interessi dello Stato e l’opera dei Sindacati, propria dell’attuale ciclo imperialistico-fascista del Capitale. Alla ripresa della lotta di classe oggi inoltre si oppone la frammentazione organizzativa ed ideale del proletariato nelle singole aziende e il suo essere sempre più ricattabile, a causa di contratti flessibili e precari e la riduzione dei salari per effetto della crisi economica. Sulla scena sociale hanno il loro peso morale l’ostentata "militarizzazione" della vita politica e la confusione provocata dal "brigatismo", cui si aggiunge il vero terrorismo mediatico che getta fumo negli occhi ad un confuso proletariato e lo rende – privo del suo partito – del tutto incapace di resistere all’opinione dominante e unitaria del Capitale.

    Ma fattore principale è la contiguità con una ancora forte piccola borghesia e, ancor peggio, aristocrazia operaia, che fanno da freno alla possibilità che il proletariato senza riserve possa muoversi con decisione. L’aristocrazia operaia è il tramite del Capitale per mantenere asservito il proletariato, sia per la sua forza nei sindacati sia per la sua influenza ideologica e psicologica.

    Vale qui ciò che Engels affermava per il proletariato inglese della seconda metà dell’Ottocento: «Per tutto il tempo che è durato il monopolio industriale dell’Inghilterra, la classe operaia inglese fino ad un certo punto ha partecipato ai vantaggi di questo monopolio. Certamente questi vantaggi si sono ripartiti in modo ineguale al suo interno: la minoranza privilegiata ne ha intascati la maggior parte, ma anche la grande massa ne ha ricevuto, almeno qua e là, una parte» ("Die Neue Zeit", giugno 1885). «Voi mi chiedete – scriveva ancora Engels – cosa pensano gli operai inglesi della questione coloniale. Ebbene esattamente la stessa cosa che pensano della politica in generale, cioè esattamente quel che ne pensano i borghesi: non esiste qui un partito operaio, ma unicamente dei conservatori e dei radicali borghesi» (Engels a Kautsky, 12 settembre 1882).

    Allora Engels condannava duramente i sindacati legati a questa aristocrazia del proletariato e che di questa aristocrazia riflettevano le speranze reazionarie di conservazione sociale. Riguardo a questi sindacati Engels scriveva a Bebel il 28 ottobre 1885: «Questi illusi invece di seguire lo sviluppo della società, vorrebbero che fosse la società ad adattarsi a loro. Si aggrappano alle loro superstizioni tradizionali, per loro stessi controproducenti, invece di sbarazzarsi di tutto questo guazzabuglio, raddoppiando contemporaneamente il loro numero e la loro potenza, tornando ad essere effettivamente ciò che cessano di essere ogni giorno di più, e cioè: delle associazioni che raggruppano tutti gli operai di un mestiere contro i capitalisti».

    Nel maggio del 1890 Engels salutò l’irruzione in scena, dopo quarant’anni, del proletariato senza riserve. Se cioè nei precedenti quarant’anni l’aristocrazia operaia aveva fatto da cuscinetto allo scontro fra proletariato e borghesia (anche nel periodo dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed è questo uno dei motivi per cui il proletariato inglese non abbraccerà mai fino in fondo gli obiettivi politici posti dal Consiglio Generale), ora con la manifestazione del 4 maggio il proletariato povero dell’East End di Londra scendeva in piazza a sfidare la borghesia, utilizzando dei nuovi propri sindacati, fondati nell’occasione. Commentava Engels: «Questi nuovi sindacati differiscono enormemente dagli antichi. Siccome questi ultimi comprendono solo gli operai "qualificati", praticano l’esclusivismo: non ammettono gli operai che non hanno fatto un regolare apprendistato, e creano in tal modo una situazione corporativa senza concorrenza. Sono ricchi, e più lo sono, più degenerano in semplici casse di malattia e di decesso. Sono conservatori e non vogliono aver niente a che fare con il socialismo, almeno per quanto e finché possono» ("Arbeiter Zeitung", 23 maggio 1890).

    Lenin nella fase imperialistica del capitalismo tornerà a denunciare la massiccia presenza dell’aristocrazia operaia: «Il capitalismo ha espresso un pugno (...) di Stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiano tutto il mondo mediante il semplice "taglio delle cedole" (...) Da questo gigantesco soprapprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del "proprio" paese – c’è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell’aristocrazia operaia. I capitalisti dei paesi "più progrediti" operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di "aristocrazia operaia", completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per la sua filosofia di vita, costituisce il puntello principale della II Internazionale; e ai nostri giorni costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio, veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia» (Lenin, Prefazione all’ed. francese e tedesca de "L’imperialismo").

    Notiamo che questa prefazione risale al 1920, anno in cui la percentuale di aristocrazia operaia sul resto del proletariato era sicuramente minore di quella attuale. Se al tempo di Lenin i partiti "occidentali" della II Internazionale degenerarono cedendo al programma delle aristocrazie, il Partito di Lenin all’opposto fu favorito dalla ridotta quantità numerica di queste nella Russia del tempo.

    Per lunghi anni il proletariato occidentale è stato un proletariato aristocratico, rispetto ai fratelli di classe dell’Europa dell’Est, dell’Asia, dell’America del sud. Ma oggi anche il proletariato occidentale sta subendo una dura offensiva con la perdita progressiva di tutele e garanzie, lentamente vede trasformarsi la vecchia aristocrazia operaia in proletariato senza riserve. Il processo si attua in forma graduale ma presto verrà radicalmente risolto dall’acutizzarsi della crisi. Si semplificherà allora lo scontro sociale.

    Nelle dinamiche storiche che portano la lotta di classe ad essere più o meno acuta non vi ha ruolo causale il volontarismo di qualsivoglia organizzazione o il sacrificio pur generoso di singoli proletari: sarà lo stesso Capitale a far riesplodere quello scontro sociale che tanto temono governo e padronato. La sua crisi storica dal 1975 non ha ancora smesso di scavare.

    I comunisti sanno che il proletariato che si muove nella sua direzione, quella della lotta di classe, tende necessariamente a sbarazzarsi dell’influenza dei ceti privilegiati e dei loro obiettivi ultrareazionari. I comunisti sanno che il proletariato, lottando per la sua difesa economica, crescerà quanto ad esperienza. È questa non una scuola di idee ma prima di tutto materiale e per questo per esplicarsi ha bisogno di proletari che materialmente si dedichino anima e corpo alla lotta di classe, pur se non coscienti del ruolo che questa lotta ha all’interno del flusso della storia.

    I comunisti si distinguono dalle altre "correnti di pensiero" perché non nascondono le proprie posizioni e previsioni, che sempre si impongono di svelare ai proletari, senza lasciare che si illudano. L’aristocrazia operaia va verso la sua rovina insieme alla piccola borghesia. Con essa andranno in rovina tutti i partiti che su di essa hanno impostato i propri programmi, politici o sindacali. La coscienza del partito che un domani guiderà il proletariato all’assalto del cielo dovrà essere all’altezza di quella del partito di Lenin, rigettando su tutti i piani le nefaste influenze dei ceti spuri ed impotenti.
     
     
     



    Individuo e specie nella illusione della persona

    Un saggio esauriente della vacuità e inconsistenza dell’attuale decadente filosofia borghese lo troviamo nel numero 2/2000 della borghesissima rivista Micromega, sottotitolata “Almanacco di filosofia”.  In questo numero un plotoncino di pregevoli studiosi arriva alla conclusione che l’attuale società, assunta ovviamente ad eterno futuro della specie nei secoli di secoli, si risveglierebbe, fin dal chiudersi del Novecento, alle mistiche religiose in una (il linguaggio da stadio è di moda in tutti i campi) “rivincita di Dio”.

    Concordano su questa grande scoperta tutti i filosofi che hanno contribuito al sebbene disorganico lavoro, e benché esponenti delle più disparate correnti (se si può ancora parlare di correnti) che vanno dai mistici a sottospecie di anarco-marxisti, da democratici, rimasti alla classica separazione tra Stato e Chiesa, agli adepti cristiani.

    La religione non potrebbe più pretendere, oggi, di dire delle verità, ma dare un senso alla vita. Il declino del vecchio potere religioso sul pensiero non toglie, insomma, che l’avanzare della Scienza e della Tecnica non hanno in niente alleviato le angosce della presente condizione umana.

    La conclusione è alquanto vecchia: alla borghesia, denudata la società dalla religione, resta come unica visione del mondo quella darwiniana della selezione, della sopravvivenza del più forte (in realtà Darwin parlava di più adatto). E alla cosiddetta fede non rimane che rivestire il darwinismo sociale (che accetta!) di una glassa sdolcinata: promette all’individuo la protezione e l’affetto di un buon dio che, se fa il buon servitore, gli garantisce l’esistenza, da selezionato!... nell’oltretomba. Le religioni si riducono a culto della Morte.

    Ma in tutti gli sproloqui borghesi, filosofici e no, che differiscono tra loro solo in apparenza, domina la visione immediatista ed individualista del mondo. Immediatista perché il pensiero borghese non è capace di previsione. Non può né ha interesse a dare un senso delle cose oltre il breve ciclo in cui si completa il demente realizzo aziendale degli investimenti e a tutto viene a mancare il respiro delle dimensioni spazio e tempo.

    Il risveglio religioso è inevitabile reazione a questa angustia di pensiero e di sentimenti e conseguenza delle sofferenze dovute alla avvolgentesi crisi di sovrapproduzione in atto, che relega una massa crescente di individui nell’emarginazione sociale ed economica. Del resto, cosa che gli ideologi del Capitale, rimasugli sfiatati dell’illuminismo, non possono vedere, il misticismo non è mai cessato, nemmeno con i lumi né con l’avvento dell’industria. Anzi diviene ancora più babbeo proprio quando si mette ad idolatrare la stupida forma del tecnicismo, quando essa è, nelle mani del Capitale, causa di maggiore coglionizzazione dell’uomo, forma questa di cui neanche la casta filosofica è immune. Non vedono, i filosofi, che lo smisurato e caotico sviluppo delle forze produttive, non controllate da alcun piano cosciente di specie, è causa maggiore del senso di impotenza e di ripiegamento nelle mistiche reazionarie dell’uomo moderno.

    Ma il limite maggiore del pensiero borghese è il suo caratteristico e inguaribile individualismo, nel vedere quella vera astrazione che è l’individuo, nelle sue miserie e nella sua piccolezza, come il fine della vita umana, col che lo rendono veramente misero, fragile, inadatto. Tutto fondano sull’autonomia personale, sulla libertà, ecc, ecc, valori retaggio della archiviatissima rivoluzione borghese. Come in un buco nero tutto collassa sull’illusione del punto persona, ente raziocinante, possidente, soggetto di diritto, che tutto potrebbe, se vuole, e se si libera dalla superstizione!

    Non a caso tutte le religioni si sono conciliate con l’individualismo.

    Anche per noi il fine, il premio, della vita è la vita stessa, ma la vita della specie umana, secondo le capacità, fisiche, affettive e intellettuali della specie umana. Non abbisogniamo di un fine ultimo dell’umano collettivo esistere, se non quello continuo dello sviluppo di se stesso, tendente a tornare a compenetrarsi, ad un livello superiore, in quella natura dalla quale si separò nel suo necessario viaggio attraverso le civiltà storiche. Significato della vita individuale è dato solo in quanto iscritta nel contribuire all’umanità cui appartiene.

    Sappiamo che tale visione del mondo e dell’uomo non potrà sostituirsi al triste e misero pensiero imperante se non col realizzarsi materiale del comunismo, di quel sistema produttivo e riproduttivo basato su un piano coerente e al possibile cosciente delle risorse.

    Non ci illudiamo che sentimenti e pensiero comunista si affermino, nemmeno nel proletariato, con programmi di educazione. Non faremo quindi tentativi in tal senso. Manteniamo questo programma nel partito rivoluzionario, che conserva e difende la coscienza di classe del proletariato affinché, quando sarà il momento determinato dal maturare dei fatti, questo possa organizzarsi e battersi vincitore per quella rivoluzione che libererà infine l’uomo a se stesso.
     
     
     
     



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    ALGERIA, IERI E OGGI

    7. L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA DEL PROLETARIATO AGRICOLO E DEI FELLAH (1954-1962)
    (continua dal n. 290)

    3) Il tradimento: gli accordi di Evian

    (Continua al numero 293)

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     




    La terra, liberata dai rapporti proprietari, giardino per l’uomo

    Non è un caso che il movimento no-global, di matrice piccolo-borghese, non condanni, nonostante il suo dichiarato ecologismo, quella vera e propria sopravvivenza giuridica che è la proprietà della terra, che lo stesso capitalismo tende a negare.

    In tutti i modi di produzione che si sono susseguiti nel corso dei secoli, a partire dalle primissime e ancora organiche società primitive, ove ancora era sconosciuta la proprietà, sino alla moderna società borghese, la maniera con cui gli uomini si rapportano alla terra, il primo e per secoli il principale mezzo di produzione, ha sempre avuto una importanza decisiva nella dinamica dello sviluppo storico.

    I successivi mutamenti delle forme giuridiche della proprietà della terra, codificati nel Diritto, hanno rappresentato il riflesso delle trasformazioni materiali via via avvenute nella sfera della economia sotto l’incessante spinta propulsiva delle forze produttive.

    Nell’Antica Roma vigeva il concetto giuridico della terra libera. Ossia, la terra poteva essere liberamente alienata, oggetto di compravendita senza vincolo alcuno, dietro pagamento di un prezzo.

    Poteva però essere titolare di terra soltanto una esigua frazione della società, i cives, cittadini, essendo gli schiavi esclusi da ogni diritto, anzi considerati essi stessi cose di proprietà altrui e come tali oggetto di compravendita.

    Pertanto «il classico diritto scritto disciplinante la proprietà titolare della terra ed in genere degli immobili e la trasmissione per eredità, per compravendita, ecc., con tutti gli altri complessi rapporti prediali, deve leggersi con la riserva che il soggetto cui si riferisce (...) non è, neppure virtualmente, un qualunque membro del complesso sociale, ma deve appartenere alla limitata e privilegiata classe superiore dei cittadini liberi, dei non-schiavi» (Proprietà e Capitale).

    La trasformazione rivoluzionaria della complessa sfera economica e produttiva delle società schiaviste nella forma economica feudale portò con sé la suddivisione del terreno agrario in tante particelle, assegnate in possesso ai contadini, raggruppate sotto un signore nei singoli feudi. Il signore proteggeva le terre e i contadini dalle invasioni, pretendendo da essi servigi personali e un canone in natura. Per legge i contadini non potevano abbandonare la terra (di qui la dizione "servi della gleba") e la terra non poteva essere oggetto di compravendita, non era alienabile, ma solo trasmissibile per via ereditaria.

    La rivoluzione borghese liberò il suolo dai vincoli feudali e ristabilì, con il codice napoleonico, la piena facoltà di acquistare e vendere proprietà immobiliari. Ma ciò non rappresenta un ritorno meccanico al sistema romano, poiché il moderno diritto borghese con la formula romana "chiunque" intende tutta la totalità della popolazione e non solo i membri di particolari caste ed ordini. Nella moderna società borghese "chiunque" può acquistare il diritto di titolarità sulla terra. A patto che possegga il denaro necessario.

    È postulato fondamentale del marxismo che le forme giuridiche proteggono rapporti di forza e di dipendenza tra gli uomini, meglio ancora, tra le classi. Dire che io ho la proprietà di questo terreno, non vuol dire altro che ho acquistato la facoltà di impedire a "chiunque" altro l’accesso al mio fondo, diritto tutelato dalla forza organizzata dello Stato. «Il nuovo regime di libertà borghese è un regime di proprietà riconsacrato nelle tavole del diritto, sia pure con proprietà non più preclusa a caste di schiavi, di servi o di borghigiani. Esso è quindi sempre un regime di rapporti di forza tra uomo e uomo, e socialmente parlando, tutti i "chiunque" del codice si dividono in due classi, quella dei possessori di suolo e quella dei non possessori di suolo, sforniti di titolo giuridico e sforniti di mezzi economici necessari a procurarselo». Il monopolio dei proprietari fondiari sulla terra è quindi parte integrante del sistema borghese di oppressione.

    La comparsa e lo sviluppo stesso della società capitalistica è caratterizzato, oltre che dalla complessa dinamica che conduce alla diffusione della manifattura e poi della grande industria, anche dalle molteplici trasformazioni intervenute nella economia agraria e nella proprietà del suolo. «Il regime borghese è dunque costituito dal dominio della classe degli intraprenditori di fabbrica, dei capitalisti del commercio e della banca, dei proprietari di immobili. Questi ultimi sono borghesi quanto gli altri, nulla hanno a che fare con l’aristocrazia feudale, già dispersa socialmente e politicamente; derivano da antichi possessori di denaro, mercanti, finanzieri, strozzini, che hanno finalmente potuto comprare la terra divenuta giuridicamente accessibile al capitale, e accentrare successivi acquisti di lotti di varia estensione».

    Il proletariato dovrà insorgere contro tutte queste classi, personificazione del Capitale che si nutre del sangue e del sudore dell’umanità lavoratrice, e dovrà annientare con la rivoluzione sociale il regime capitalistico e l’infamia del lavoro contro salario. Con la rossa e grande rivoluzione diretta dal Partito Comunista, il proletariato eliminerà ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro, sostituendola con l’usufrutto sociale della ricchezza, esercitato dalla specie, negli interessi delle generazioni future. Assisteremo allora ad un ridispiegarsi dell’insediamento umano sulla superficie del pianeta, superando l’opposizione città-campagna. Per terra, flora e fauna si riconcilierà il bello e l’utile, tornando, come in latino e nel dialetto siciliano, hortus e jardino ad essere sinonimi.
     
     
     
     



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    Il dominio dell’Imperialismo
    LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA
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    Parte II - b) L’attuale gigantismo
     
     

    Ritornando alla definizione di Lenin sulla preminenza dell’esportazione di capitali su quello delle merci come uno dei caratteri dell’imperialismo, "fase superiore del capitalismo", vediamo quale ampiezza essa ha assunto.

    Occorre precisare che, visto le attuali dimensioni delle cifre in questione e la forte "dinamicità" sui mercati, nonostante il tanto sbandierato avvento dell’era del computer, queste quasi sempre sono stime solo verosimili e che differenti istituzioni finanziarie, anche le più importanti, possono presentare valori dissimili fra loro secondo i metodi di calcolo adottati e l’opportunità o meno di presentarli più o meno ritoccati.

    Non entriamo nel merito delle falsificazioni dei bilanci, sempre più frequenti o dei cento trucchi contabili, legalmente possibili o meno, come il recentissimo caso della multinazionale americana dell’energia Enron che, oliando gli ingranaggi giusti della serissima e autorevolissima società di certificazione dei bilanci Andersen, è riuscita a ritardare, ma anche ad aggravare, e comunque non impedire, il suo fallimento. Si è appena saputo che, in questo caso, prima del fallimento ben 30 camion e 26 casse di documenti contabili sono finiti nel trita-carte per cercare di nascondere le loro acrobazie di finanza imperialista putrescente! Ora, dicono, la prestigiosa Andersen starebbe affondando poiché avrebbe perso i suoi migliori clienti, tra cui, guarda un po’, il governo degli Usa il quale si faceva certificare i bilanci da quella società privata! Dal capitalismo drogato al capitalismo taroccato.

    Un’indicazione molto approssimativa e parziale ci viene dai dati dell’aprile 1995 della Banca dei Regolamenti Internazionali che indicano il volume totale degli scambi finanziari cresciuto a 1.230 miliardi di dollari al giorno, dopo l’eliminazione di alcune contabilizzazioni multiple; un valore aumentato di circa il 50% rispetto all’aprile del 1992. Questa attività giornaliera sui mercati finanziari è di oltre 40 volte il valore del commercio mondiale giornaliero di merci ("Problèmes Ec.", 2541-42/1997).

    Riguardo questa enorme massa di denaro che quotidianamente cambia di abito, in gergo tecnico curiosamente si dice divisa, ricordiamo l’ipocrita proposta della Tobin Tax presentata negli Anni Settanta dal Nobel americano James Tobin. Il suo scopo era di colpire la speculazione finanziaria attraverso una piccola tassa, lo 0,1% di ogni transazione sul mercato dei cambi e degli investimenti a breve termine. Questa tassa, pur piccola, avrebbe fornito ai governi consistenti entrate fiscali (circa 250 miliardi di dollari il primo anno) da destinare ai paesi più poveri. Da loro stessi ridicolizzata con il nomignolo di Tobin Hood Tax, perché "ruba ai ricchi per dare ai poveri", non fu mai approvata negli Usa e fu anche bocciata il 20 gennaio 2000 dal Parlamento Europeo con uno scarto di appena 6 voti.

    Ne parliamo perché questo ci dà una misura della circolazione finanziaria, e non certo per denunciare cotanta filantropia negata. L’introduzione della Tobin Tax è infatti una rivendicazione di vari movimenti Anti-G8, No-global, della "globalizzazione etica" di matrice piccolo borghese, che per questa iniziativa hanno nell’Attac, "Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie per l’Aiuto ai Cittadini", il loro centro di riferimento. Oltre questo concetto di assolutoria elemosina tramite un prelievo forzato non vanno, e ciò non ci meraviglia.

    Ma Mr Tobin non immaginava che il volume di queste transazioni sarebbe cresciuto a livelli di 1.500, stime indicano anche 1.800, miliardi di dollari al giorno, che determinerebbero un gettito di questa tassa di oltre 750 miliardi. L’Associazione propone allora di dividere questo bottino in due parti: metà all’erario degli Stati che la applicheranno, l’altra metà ai paesi più poveri. Nonostante quest’allettante possibilità i governi non hanno approvato la legge perché i loro diretti superiori, i grandi finanzieri, ovviamente non hanno alcuna voglia di rinunciare a quel minimo permille né intendono registrare in alcun modo i loro traffici.

    Questa frenesia sul mercato dei cambi deriva principalmente dal fatto che, nonostante il dollaro sia la moneta dominante su tutte, non è l’unica e si sono formate delle zone monetarie ancorate alle altre divise più forti. Oltre a quella del dollaro c’è l’area dell’euro, che è andato a sostituire il franco, il marco ecc., della sterlina, che resta fuori dall’euro, e quella dello yen. Il processo è ancora agli inizi dovuto alla necessaria centralizzazione dell’economia europea. Si nota che prima è partita la libera circolazione dei capitali e delle merci, poi quella dei cittadini comunitari (un discorso a parte meriterebbe la merce forza-lavoro).

    I tassi di cambio fra le monete sono regolarmente usati come armi commerciali nel vasto bazar mondiale dove circolano tutte le forme monetarie, dove speculare su una moneta indebolendola significa farle pagare più caro le merci che compra e quindi frenare anche la sua economia. Per contro, svalutare la propria moneta rispetto alle altre significa sì vendere meno caro all’estero, ma anche comperare sfavorevolmente ed indebolire le altrui riserve in quella moneta.

    Come già Lenin spiegava, sono i paesi a capitalismo più avanzato che hanno un’esportazione di capitali finanziari predominante rispetto alle merci, per cui dovremo arrivare ad uno studio paese per paese e formare una lista ragionata. In questo le statistiche mondiali ci aiutano a capire i complessi ingranaggi economici dell’apice del capitalismo, nel quale non potranno esservi che le economie più sviluppate.

    Nonostante questo turbine di compravendite dobbiamo sempre ricordare che non vi si genera affatto nuovo valore. È un gioco di potenza, nel quale si affrontano capitalisti e lobby di capitalisti, ciascuna al coperto del suo Stato, armato di forza umana-proletaria, materiale-produttiva, diplomatica e militare, prima che finanziaria. I surplus ottenuti da uno derivano esclusivamente dalle perdite di altri, si tratta qui solo di una diversa ripartizione della massa totale del plusvalore capitalizzato che circola sotto forma di merce denaro.

    I crolli che seguono le violente svalutazioni delle monete, come il recente caso argentino, sono invece perdite secche dovute a precedenti sopravalutazioni, ma principalmente al blocco del sistema economico.
     

    I Fondi comuni

    I soggetti più importanti nei movimenti finanziari sono le Banche locali, quelle Centrali nazionali, le Banche sovranazionali ed i Fondi di investimento. Questi ultimi prodotti finanziari sono diventati ora molto più importanti delle prime e comprendono Fondi a carattere assicurativo-pensionistico, molto sviluppati nell’area angloamericana, e quelli a carattere propriamente speculativo. Per intenderci sulla grandezza attualmente raggiunta da questi strumenti finanziari, che hanno avuto un enorme sviluppo a partire dal 1980 ed inesistenti, in questa forma, ai tempi in cui Lenin scriveva, vere potenze in economia e di riflesso anche in politica, ricordiamo che Fidelity, il primo Fondo d’investimento americano e del mondo, nel 1996 gestiva un patrimonio di 330 miliardi di dollari che è pari, per lo stesso anno, a tutto il Pil del vicino Messico, ad 1/3 di quello italiano ed 1/20 di quello americano. Questo tipo di raccolta di denaro è sottoposto al controllo della Securities and Exchange Commission, che dovrebbe limitare il loro investimento all’estero ad un massimo del 10% del loro portafoglio. Ma attraverso il gioco delle compartecipazioni incrociate alla bisogna questo limite si può aggirare. Di fatto, secondo uno studio della InterSec Research, le azioni possedute da queste strutture su scala mondiale nel 1998 arrivano a 11.000 miliardi di dollari e dovrebbero raggiungere i 15.000 miliardi nel 2003 ("Le Monde D.-Manifesto", settembre 1999).

    Tra il secondo tipo di Fondi, speculativi, il più importante è il Quantum Fund diretto da Georges Soros, che ha giocato un ruolo decisivo nell’attacco alla sterlina nel 1992.

    In breve tempo i Fondi di investimento sono diventati i principali detentori del debito pubblico dei paesi industrializzati tramite l’acquisto dei titoli di Stato emessi per far funzionare i loro apparati. Lo sviluppo e il rapporto di grandezza fra i due tipi di investimenti è il seguente: nel 1988 i Fondi pensioni amministravano 3.900 miliardi di dollari, mentre quelli gestiti dagli Opcvm (Organismi di piazzamento collettivo di valori mobiliari) era di 1.800 per un totale di 5.700. Dopo solo cinque anni nel 1993 le cifre praticamente raddoppiano e i primi passano, sempre in miliardi di dollari, a 6.900, i secondi a 3.000 e il totale va a 9.900, mantenendo inalterato il rapporto di 2 a 1 dei primi sui secondi ("Problèmes Ec.", 2495/96). Da queste cifre si vede come i Fondi pensione americani da soli dispongano di 3.600 miliardi di dollari, siano diventati i primi intermediari finanziari nel mondo e i protagonisti di primo piano delle fusioni-acquisizioni ovunque.

    La dimensione raggiunta da alcuni di questi strumenti finanziari, paragonabile al Pil prodotto in un anno da un intero paese, non è un’eccezione nel capitalismo. Aggiorniamo e ampliamo il significato della tabella apparsa al n°279/2000 di questo giornale sulle prime 200 imprese mondiali tramite un rapporto 1998-99 della Banca Mondiale per lo Sviluppo in cui viene indicato il giro d’affari annuo di alcune multinazionali (nel quale non si distingue la vendita di titoli dalla vendita delle merci prodotte) e il Pil di alcuni paesi. Leggiamo: la Wal Mart, con 119,3 miliardi di dollari, fa il pari con la Grecia con 119,1; la Volkswagen AG, 65,3, con la Nuova Zelanda, 65,0; la Royal Dutch-Shell con 171,6 è come Hong Kong a 171,4; l’IBM con 78,5 supera l’Egitto a quota 75,5; la Mitsubishi Corp. con 128,9 è di poco inferiore alla Repubblica Sudafricana a quota 129,1; la Sony con 55,0 supera la Repubblica Ceca con 54,9; la GEC con 90,8 è inferiore ad Israele che ha 92,0 ed infine l’Elf-Aquitaine con 43,6 è di poco sotto l’Ungheria con 44,8 ("Problèmes Ec.", 2611/99).

    La stessa rivista nel successivo numero 2618/99 forniva una tabella del fatturato relativo al 1997 sempre in miliardi di dollari delle prime 20 multinazionali del mondo in quest’ordine decrescente: 1° Exxon-Mobil con 186,2; 2° General Motors 178,2; 3° Royal Dutch-Shell 171,6; 4° Mitsui 145; 5° Chrysler-Daimler 132,7; 6° Mitsubishi 131; 7° Itochu 128,7; 8° Ford 122,9; 9° Wal-Mart 117,9; 10° Marubeni 112,9; 11° BP-Amoco 107,4; 12° Toyota 96,7; 13° Sumitomo 94,5; 14° General Electric 90,8 : 15° Nissho Iwai 83,2; 16° IBM 78,5; 17° NTT 78,2; 18° Philip Morris 72; 19° Daewoo 71,5 e 20° Hitachi con 69,6 miliardi di dollari.

    Ma gigantismo non significa forza, soprattutto per i fondi più "aggressivi". Pure qui ci sono stati salvataggi all’ultimo minuto per evitare "l’effetto domino", cioè il crollo a catena come avvenne nel settembre 1998, da parte della Federal Reserve di New York per il fondo speculativo americano Long Term Capital Management. In meno di 48 ore la Fed costituì un consorzio di 16 istituti finanziari che mise a disposizione 3,75 miliardi di dollari per l’emergenza. In totale contrasto con il tanto sbandierato principio del non intervento statale, quando fa comodo si socializzano le perdite, ma quando va bene quello che è mio guai chi lo tocca, principio base dell’interventismo statale capitalista, e crepino pure i vari Tobin Hood!

    Approfondendo questo caso viene fuori un bel quadretto che ci porta ai piani alti di tanta bassa finanza. Ltcm appartiene al gruppo degli Hedge Funds che letteralmente significano Fondi di copertura o di arbitraggio ma sono meglio noti come Fondi speculativi, ad alto rischio, generalmente rivolti a privati particolarmente ricchi o investitori istituzionali. Queste società di investimento, che limitano a meno di 99 i soci di ciascun Fondo, non facendo appello ai "piccoli risparmiatori", non sono sottomesse ad alcuna regolamentazione prudenziale e di controllo da parte della Sec e ciò permette loro una totale facoltà di manovra, ma soprattutto possono mettere in gioco somme che non hanno alcun rapporto con i fondi propri. Di questo tipo di costruzioni finanziarie non si conosce neppure il numero; secondo l’Hennessee Hedge Fund Advisory nel 1998 forse sono 4.000 e forse gestiscono 200 miliardi di dollari, contro 4 miliardi di cinque anni prima.

    Il meccanismo del loro funzionamento è molto semplice: più ci si indebita più si guadagna; con un mio contributo di 10, un prestito di 90 e l’ipotesi di guadagno del 10%, in una singola operazione ben studiata posso raddoppiare il mio capitale. Con questa logica Ltcm disponeva di fondi propri per 4,8 miliardi di dollari ma un portafoglio titoli per 200 e prodotti derivati (che vedremo) per un valore teorico di 1.250. Per partecipare alle loro scorribande finanziarie bisognava mettersi in coda e disporre di un investimento minimo di 10 milioni di dollari bloccati per tre anni; da qui il Fondo preleva il 2% per le spese di gestione e il 25% dei profitti. Nel 1995 ha fruttato ai suoi azionisti, tra cui anche la Banca d’Italia, il 42,8%, nel 1996 il 40,8% ma solo il 17,1% nel 1997 a causa della crisi asiatica. A seguito di alcune errate valutazioni sull’evoluzione dei tassi d’interesse ed altre disastrose operazioni il Fondo sarebbe stato costretto al fallimento trascinando con sé tutte le grandi istituzioni finanziarie che avevano concesso loro fiducia e denaro senza poter e voler ficcare troppo il naso nelle loro speculazioni, e che poi hanno dovuto partecipare al salvataggio ("Le Monde D.-Manifesto", novembre 1998).

    Come tutte le bolle capitaliste anche questa si è rivelata di sapone e queste perdite, come tutte le altre, alla fine sono pagate dal proletariato attraverso un continuo peggioramento delle sue condizioni di vita; per lui il regime di austerity finirà solo quando, scendendo sul terreno della lotta di classe, imporrà la sua dittatura azzeratrice di tutti i crediti.
     

    Le banche locali

    Le banche hanno sempre svolto il ruolo di raccolta e di mediazione tra chi aveva capitali in esubero e chi ne era alla ricerca, sia alla scala nazionale sia internazionale.

    Le varie crisi produttive e fallimenti vari, che si trasformavano in capitali prestati e mai più recuperati, sia a carattere nazionale sia per quanto riguarda il finanziamento dei paesi in via di sviluppo, speculazioni azzardate e disastrose come quelle immobiliari del 1990, il crac del mercato obbligazionario del 1994 e la completa liberalizzazione del sistema bancario internazionale, hanno dato un duro colpo a queste strutture obbligandole a continue fusioni, accorpamenti e profonde ristrutturazioni che continuano ancor oggi a ritmo sostenuto.

    A livello europeo le fusioni-acquisizioni delle banche, oltre le compartecipazioni e la formazione di gruppi misti fra assicurazioni e banche, particolarmente sollecitate dalla nascita dell’area dell’euro, hanno avuto il seguente andamento: nel 1993 ci sono state 40 operazioni per un totale di 100 miliardi di franchi francesi; nel 1994, 60 operazioni per 109 miliardi; nel 1995 le operazioni salgono ad 80 per 270 miliardi; nel 1996 scendono a 75 per un totale di 205 miliardi; nel 1997 c’è il picco a 99 operazioni per 811 miliardi e nel 1998 le fusioni, ciascuna d’un valore superiore a 500 milioni di franchi, sono state 98 per un totale di 710 miliardi di franchi. Al vertice di questa graduatoria, sempre provvisoria, c’è la Unione delle Banche Svizzere con la Società di Banche Svizzere per un totale di 148 miliardi di franchi francesi; segue l’operazione tra il Credito Italiano e Unicredito per 64,5 miliardi; poi San Paolo e IMI con 55 miliardi; Kredietbank e Cera Bank con 32 miliardi e Santander con il 52% della Banesto con 25 miliardi di franchi francesi. La successiva grande fusione lanciata tra BNP, le banche della Société Général e Parisbas dovrebbe concludersi su un totale di 230 miliardi di franchi ponendola al vertice dei gruppi bancari europei. Contestualmente avvengono anche accordi con banche extraeuropee ("Problèmes Ec." 2618/99).

    Anche per loro la centralizzazione è un fatto di sopravvivenza, come l’eliminazione della concorrenza, al fine di evitare quei recenti spettacolari affondamenti capitati alla banca Barings, Daiwa, Crédit Lyonnais, solo per citarne alcuni più famosi, ma la lista è troppo lunga e comprende banche di tutti i paesi per non parlare di quelle dei paesi latino-americano e asiatici.

    Una tabellina dei fallimenti bancari tra il 1984-1995 in soli 10 paesi mostra che, durante 11 anni, in Giappone 8 banche sono sottoposte a "ristrutturazione" e altre 7 in "liquidazione"; in Francia, con la nota che sono escluse le Società di sviluppo e i fallimenti minori, 4 sono in ristrutturazione e 10 in liquidazione; nel Regno Unito 1 e 2; in Spagna solo 1 in ristrutturazione come pure 2 in Italia. La Norvegia ha 27 banche in ristrutturazione e 1 in liquidazione; la Finlandia 34 sono accorpate come 3 in Svezia. In Danimarca 6 in ristrutturazione e 1 in liquidazione. Il grosso, viene dagli Stati Uniti: banche commerciali con 1.234 ristrutturazioni e 252 liquidazioni e Casse di risparmio, come già accennato nella parte precedente, con 372 ristrutturazioni e 62 liquidazioni; inoltre ben 706 istituti sono stati posti sotto la tutela della Resolution Trust Corporation ("Problèmes Ec.", 2541-97).

    Come nota illustrativa della situazione giapponese riferiamo che a seguito del fallimento della Yamaichi Securities, una delle prime quattro società di intermediazione nipponiche nel novembre 1997, lo Nihon Keizai Shimbun sostiene che il credito non esigibile o difficilmente esigibile del sistema bancario giapponese ammontava in quel momento a 612 miliardi di dollari, cifra che è stata fortemente contestata dal ministero delle Finanze che la calcolava a solo 168 miliardi. Il sistema finanziario giapponese si sente relativamente protetto per il fatto di detenere un forte credito estero fra cui circa 320 miliardi di dollari in obbligazioni dello Stato federale americano (l’8,5% del totale) sufficienti a sostenere con la loro vendita periodi di crisi molto forti con però forti ripercussioni su tutti i mercati mondiali nel caso di vendite massicce ed improvvise ("Le Monde D.-Manifesto", gennaio 1998).

    Ma anche quello americano è un caso emblematico di apparente solidità, dove, considerando un arco temporale maggiore rispetto la tabella precedente, 18 anni, meglio si esprime l’ampiezza della crisi del sistema bancario: «Tra il 1980 e il 1998, questo settore ha subito uno dei maggiori cambiamenti strutturali di tutta la storia economica degli Stati uniti: 8.000 fusioni ed acquisizioni, nel corso delle quali sono passati di mano attivi per oltre 2.000 miliardi di dollari» ("Le Monde D.- Manifesto", maggio 2001).

    Al vertice del sistema bancario troviamo le banche d’affari, quelle che nel nostro schema meglio esprimono il processo D-D’, più denaro nel minor tempo possibile, e come tali sono una delle punte di diamante dell’imperialismo. "Il Financial Times" ha pubblicato il 28 gennaio 1998 una graduatoria sui "Guadagni dalla speculazione sulle valute delle prime venti banche d’affari", con cifre in milioni di dollari riferite ai primi sei mesi del 1997 rispetto lo stesso arco di tempo del 1996 e con l’incremento in percentuale. Da questa tabella si vede come il repentino ed attento compra e vendita della merce denaro, ovvero il mercato dei cambi, ha determinato questi surplus: Citybank 552 pari a +26; SBC Warburg Dillon Read 405 e +22; HSBC 404 e +33; Crédit Suisse First Boston 393 e +42; Chase Manattan Bank 344 e +48; Bank of Tokio Mitsubishi 339 e +29; Union Bank of Switzerland 277 e +18; Deutsche Bank 253 e +23; National Westminster Bank 231 e +28; Abn Amro 207 e -4 ( unico segno negativo della lista); Bank of America 199 e +6; JP Morgan 192 e +9; Standard Chartered Bank 180 e +41; Royal Bank of Canada 135,2 e +2; Bardays Bank 115 e +77; Industrial Bank of Japon 99,1 e +77; State Street 96 e +51; Bank of Montreal 95,1 e +29; Dresdner Bank 93 e +116 ed infine la Canadian Imperial Bank of Commerce con 92,3 e +11. Il totale della tabella è di 4.708 milioni di dollari ed il surplus è di +34,3% rispetto i primi sei mesi dell’anno precedente.

    Queste cifre riguardano i guadagni di solo un settore di attività di questi centri dell’imperialismo. Anche se parziali bene esprimono il carattere dominante del mercato dei capitali su quello delle merci.

    Anche le banche d’affari, una parte delle quali ha comunque un settore commerciale annesso ben sviluppato, sono esposte, dopo l’ultima recente crisi di inizio millennio, per la riduzione del volume dei movimenti finanziari e per i fallimenti delle società di cui nessuno ha precisato, per la maggior parte di esse, la montagna di debiti lasciati.

    Ma la vera bomba ad orologeria è stata innescata proprio da questi grandi finanzieri che, per invogliare e garantire gli investimenti e battere la concorrenza, offrivano a chi concedeva prestiti delle polizze di assicurazione sul buon fine delle attività proposte: se il debito non fosse restituito, per qualunque intoppo, la banca rimborserebbe l’investitore, con un ben immaginabile crollo qualora i debiti insolvibili diventassero consistenti. Nessuno sa a quanto ammontino queste polizze che, appena accese, vengono a loro volta subito immesse nel mercato finanziario come derivati da crediti.

    Un esempio fresco fresco sullo stato di salute di una fra le più grandi banche d’affari pure: «Goldman Sachs nei primi tre mesi dell’esercizio ha visto scendere per la quinta volta consecutiva i propri profitti del 32% e ha annunciato tagli al personale per oltre 500 unità. Cause di questo andamento non proprio positivo le consulenze fornite ai clienti, in declino, e poi il netto calo dei ricavi dalle movimentazioni di titoli, scesi del 91% a 105 milioni di dollari rispetto a 1,2 miliardi dello scorso esercizio» ("Affari&Finanza", 25 marzo).

    Nel frattempo la quota delle banche nel finanziamento dell’economia mondiale è scesa dal 64,5% del 1985 al 22,6% del 1993 e sicuramente attualmente la loro presenza è ulteriormente diminuita poiché le linee generali della loro finanza non si sono invertite.

    (Continua)
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    PAGINA 6
    Agevolazioni contributive... a dividere la classe operaia

    Lo Stato secondo una classica definizione della dottrina marxista è "il comitato d’affari della borghesia". Una pratica dell’opportunismo è quella di mistificarne la natura predicando la sua neutralità nel rapporto tra le classi sociali o una sua propensione a favorire gli strati più deboli con un intervento economico, nascondendone la funzione di repressione nei confronti del proletariato e di strumento delle frazioni borghesi, in lotta sul mercato ma tutte solidali per tenere sottomessa la classe operaia.

    Anche le recenti agevolazioni sui contributi sociali concesse dallo Stato al padronato rientrano in questo quadro: limitando la sottrazione di plusvalore sotto forma di imposta si avvantaggia la quota di profitto industriale delle aziende. Si vengono inoltre a ulteriormente dividere i lavoratori, favorendo la concorrenza tra di loro, col logico corollario della diminuzione del salario, opponendo i lavoratori "agevolati" a quelli "non agevolati", novelli paria dell’infernale sistema. Nell’Occidente a questi, privi dei filosofemi indiani a consolazione, non resterebbe che l’oppiaceo religioso nostrano, magari nelle sembianze iconiche benigne di Padre Pio, l’ultimo spara-miracoli prodotto dall’industria mediatica della fede.

    Agli imprenditori basta penetrare nel labirinto delle leggi e leggine a loro favore per sostituire senza tanti scrupoli personale addestrato ma "costoso" con altro più giovane, di "lunga disoccupazione", e più malleabile e che incide meno sui costi.

    Ecco un elenco di queste leggi, parziale ma sufficiente a dare l’idea di come siano a solo vantaggio della borghesia, benché l’opportunismo le spacci come buona cosa sia per i padroni sia per gli operai. Contrariamente a quanto si pensa comunemente queste agevolazioni non riguardano soltanto il Sud, ma anche floride zone del Nord e del Centro riconosciute "aree svantaggiate", limitate anche a singole zone industriali (miracoli delle lobby)!
        1) Contratto di Formazione Lavoro per giovani fino ai 32 anni: sgravio totale sui contributi per 3 anni.
        2) Legge 407/90: sgravio totale sui contributi per 3 anni per lavoratori con anzianità di iscrizione al collocamento maggiore di 2 anni.
        3) Legge 498/98: per aziende della Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Venezia e Chioggia che assumano nel 1999, 2000, 2001 (ma si discute di protrarli per altri tre anni) lavoratori in aumento sul numero medio di quelli in forza nell’ultimo anno.
        4) Credito d’imposta: sconto di 620 euro mensili per tre anni sulle imposte conto/ditta per chi assume nelle zone svantaggiate, elencate dalla legge (tutto il Mezzogiorno e svariati distretti industriali del Centro-Nord), a tempo indeterminato, un lavoratore che non abbia avuto un’assunzione a tempo indeterminato negli ultimi due anni.
        5) Contratto di Emersione: attualmente nella sola zona-pilota della provincia di Lecce (ma presto applicato ovunque) per quelle aziende che si auto-denuncino all’INPS come evasori di contributi e a cui si riconosce un condono per il passato e una riduzione quinquennale sui contributi.
        6) Contratto di Riallineamento: simile a quello di emersione, ma applicato solo in agricoltura e in alcune province da aziende che vogliano aderirvi.

    Traducendo in lirette, facciamo l’esempio di un lavoratore del commercio al V livello senza scatti di anzianità e con l’unica detrazione fiscale per il lavoro dipendente: se il padrone trova sulla piazza un lavoratore che possa fargli usufruire tanto di sgravi contributivi totali quanto di credito d’imposta, cosa molto facile, considerata una paga lorda di 1.057 euro, questi sopporta un costo del lavoro inferiore di 620 euro e del 30% circa di contributi calcolati sul minimale Inps, che in questo caso coincide col lordo, cioè di circa 930, andando a spendere solo 437!

    Se poi è tanto forte ed indisturbato da non corrispondere al lavoratore la paga sindacale, allora finisce che ci guadagna pure! Ben sappiamo che in molte parti del Sud la paga di piazza è di 400 euro. Ad esempio è così nei paesi del "Cristo si è fermato ad Eboli" – giusto per visitare un topos ormai classico del meridionalismo – i lucani Grassano ed Aliano, ma del 2001. Ma anche nelle città musica (e paghe) non cambiamo, almeno nelle piccole aziende artigiane e commerciali. Ebbene, in questo caso il padrone sosterrà la spesa della paga di fatto, i contributi conto/lavoratore, l’Irpef conto/lavoratore, con abbono dei contributi conto/ditta, cioè: 400 + 91 + 79, cioè 570 euro, ricevendo dallo Stato 620: questo significa 50 euro di guadagno! Inutile cercare di assommare le aliquote di 13a, 14a e TFR perché il padrone tanto non le paga, e naturalmente nemmeno le ferie.

    Qui, si badi, non abbiamo parlato del profitto ovvio e normale derivante dello sfruttamento della forza lavoro. Se, come spesso accade, si assume con livelli ancora inferiori, i guadagni sulla spesa aumentano!

    Visto che paese dei balocchi? Perché mai il "cittadino imprenditore" dovrebbe spendere 1.047 euro di lordo + 310 di contributi + 88 per 2 di aliquote 13a e 4a + 137 di TFR = 1.682 euro a favore di un "cittadino disoccupato" qualsiasi e non i soli 436 per un "cittadino disoccupato agevolato"? E infatti il "cittadino disoccupato non-agevolato" non lo assumerà, ma per effetto della concorrenza lo potrà costringere a lavorare in nero, all’apertura della partita IVA, trattandolo come un improbabile libero professionista o al massimo come "collaboratore parasubordinato", incastrandolo in una "collaborazione coordinata e continuativa" in cui la paga è regolata dalla libera contrattazione tra le parti (cioè la decide il padrone) e il carico contributivo per il 2001 è del solo 13%, per 1/3 a carico del collaboratore, assicurandogli una vita lavorativa ed una vecchiaia di stenti e con la pensione sociale. Vallo a trasformare il suo rapporto di lavoro in quello formale di dipendente dimostrando la subordinazione e la non "libertà" di una collaborazione se non con una causa in tribunale che, comunque vada, significherà la cacciata dal posto di lavoro. Eppure la vulgata opportunista dichiara quegli sgravi una misura dello Stato a favore dei disoccupati!

    Lo Stato borghese si accanisce contro i disoccupati negando loro perfino il diritto all’assistenza medico-specialistica gratuita: qui il lessico si fa bizantino e si distingue fra l’inoccupato (colui che è senza esperienza e in cerca di prima occupazione) e il disoccupato (che il lavoro lo ha perso): ai primi non è data l’esenzione dal ticket se il reddito familiare supera i 10.486 euro! Per contro il welfare è regalato dallo Stato ad abbienti lavoratori autonomi che evadono le tasse e possono dimostrare un reddito da poveracci. L’inoccupato paga così i servizi concessi gratis al piccolo borghese.

    Questo è il Capitalismo. Il Comunismo sarà altro: a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue possibilità, dopo che tutti, borghesi e piccolo-borghesi saranno stati dalla dittatura del proletariato messi a lavorare. La mancanza di lavoro sarà allora giustamente salutata ed apprezzata potendo tutti in proporzione lavorare di meno!
     
     
     



    Come è andata a finire alla Swissair

    Sui giornali dello scorso settembre si leggeva la notizia di una imminente fusione tra la compagnia aerea Swissair e la Crossair, una compagnia regionale controllata per il 70,35% dalla stessa Swissair. Il piano di fusione era finalizzato alla risoluzione della profonda crisi di liquidità in cui versava la compagnia elvetica già da molto tempo, tanto che all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle aveva già totalizzato un debito di ben 17 miliardi di Franchi Svizzeri, ai quali non si sono aggiunti, dopo l’11 settembre, che ulteriori 65 milioni. Anche in questo caso si evince chiaramente che la crisi non è stata una "conseguenza" dell’attentato.

    Verso la fine di settembre le due maggiori banche svizzere UBS e Credit Suisse si accordavano per il versamento di 1,4 miliardi di Franchi, somma che avrebbe dovuto finanziare il piano di salvataggio della compagnia aerea, che nel frattempo avrebbe goduto, concessa da un giudice, di una parziale protezione dai suoi creditori. Ma tale piano di salvataggio non fu mai attuato ed il 3° giorno d’ottobre su tutti i giornali apparve la notizia della cancellazione da parte della compagnia Swissair di tutti i suoi voli in quanto la completa mancanza di liquidità non permetteva di pagare neppure il carburante. La notizia destò e sconvolse il tranquillo cittadino elvetico, convinto fino al giorno prima che lo spettro della crisi mondiale si sarebbe fermato al di là dei confini del suo paese, né poteva credere che una compagnia come la Swissair, orgoglio della nazione per la sua efficienza e qualità di servizio, potesse giungere sull’orlo del fallimento.

    La stampa, come sempre, non punta l’attenzione sulla crisi economica ma cerca il colpevole di turno, invoca giochi sporchi e grida allo scandalo accusando le banche UBS e Credit Suisse di aver lasciato volutamente fallire la compagnia per poter sciacallare impunemente sulle sue attività. Tale sospetto nasceva in quanto le due banche suddette degli 1,4 miliardi che avrebbero dovuto versare hanno effettivamente sborsato solo 260 milioncini con i quali si sono preoccupate di acquistare il 70,35% di Crossair in portafoglio alla stessa Swissair.

    Ne segue tutto un intricarsi della vicenda con stampa e Unione Sindacale Svizzera che accusano le banche di complotto, le banche che replicano e denunciano l’incapacità dell’amministrazione Swissair. Non potevano mancare i Socialdemocratici che accusano dal canto loro il Consiglio Federale di aver scarso peso politico.

    Insomma il solito teatrino dei pupi dove ognuno recita la sua parte e propone la sua ricetta risolutoria. L’unico a non recitare la sua parte è il lavoratore che resta imbambolato a guardare e ad ascoltare ora quel pupo ora quell’altro ed è patetica la sua reazione quando cerca consolazione rivolgendosi al più fesso dei pupi: l’indignata "opinione pubblica".

    Con il peggioramento della crisi si è reso necessario un nuovo piano che permettesse di attuare una forte ristrutturazione esorcizzando il più possibile un’eventuale risposta dei lavoratori colpiti. E i fatti dimostrano che il padronato, con la complicità dei sindacati, è riuscito in tale intento.

    Il nuovo piano prevedeva una "trasfusione" di una parte dei voli e della flotta dalla compagnia moribonda alla compagnia Crossair, in maggiore salute finanziaria, in vista della nascita di una nuova compagnia. Nel frattempo le tasche del solito Pantalone, cioè dello Stato, avrebbero garantito il funzionamento dei voli ritenuti più importanti. La nuova compagnia, nata ufficialmente il 1° aprile scorso col nome di Swiss Air Line, ingloberà la Crossair più il lascito della Swissair di 52 tratte. Il suo capitale è stato suddiviso nel modo seguente: 20% alla Confederazione, 18% ai Cantoni, 62% ai privati (di cui 10% Credit Suisse), 10% UBS e i restanti 42% ad altri privati.

    Insomma, tutti felici e contenti! Stato, sindacati, padroni, banche e anche i Socialdemocratici i quali proponevano un maggior controllo della compagnia da parte dello Stato. Meno contenti saranno i 5.500 dipendenti dell’ex-Swissair che hanno trovato impiego nella nuova compagnia con un aumento delle ore di lavoro e a salario ridotto (meno 25% per i piloti, meno 9,4% per tutte le altre categorie) e ancora meno contenti saranno i 9.000 lavoratori licenziati in tutto il mondo di cui 4.100 erano impiegati nella sola Svizzera.

    Banche, Stato ed amministratori delegati hanno gestito e risolto tra loro quest’affare, in modo pulito o sporco, come dicono, nei riguardi dei creditori di cui non è chiara nemmeno l’identità. Poco ci interessa investigare in questo campo. Ma è chiaro invece come abbiano risolto la faccenda nei riguardi dei lavoratori che, incatenati al giogo dell’interesse aziendale dai sindacati di regime, hanno risposto prima elemosinando dallo Stato e dalle banche l’intervento di salvataggio della "loro" azienda, poi sono stati deviati verso il moralismo dalle accuse della stampa scandalistica, ed infine, quando tutto oramai si era risolto nella nascita della nuova compagnia, sono stati ulteriormente ingabbiati dagli stessi sindacati con la pretesa che anche un solo sciopero o qualunque agitazione avrebbe "compromesso" il futuro della nascitura azienda.

    Nascoste dietro le apparenze e l’immagine del perfetto "modellino" capitalistico elvetico, che nella sua espressione democratica vantava agli occhi dei ciechi la fama di paradiso dell’interclassismo con la sancita Pace del Lavoro, si celano le solite contraddizioni insite al Capitale in tutto il mondo il quale, morso dalla crisi, è pronto a schiacciare anche quei lavoratori che in tempi migliori coccolava e viziava garantendo così la suddetta pace. Ora più che mai anche in Svizzera è necessario che il proletariato riorganizzi i propri sindacati di difesa e che, guidato dal partito comunista mondiale, opponga allo spettro della crisi lo spettro del Comunismo, parola che oggi, anche in Svizzera, è innominata e innominabile!
     
     
     



    Conservatori o Laburisti nulla cambia per il popolo degli abissi

    Nelle ultime settimane nel Regno Unito sono stati pubblicati una serie di rapporti del Foreign Policy Center, un organo governativo che paradossalmente mette sotto accusa l’operato dell’attuale inquilino di Downing Street e dei suoi collaboratori e membri governativi del "New Labour".

    Sembra essere tornati a cavallo tra il XIX e il XX secolo: infatti le condizioni dei giovani proletari oltremanica sono assai simili a quelle del "Popolo degli abissi" narrate da Jack London.

    Circa 750.000 bambini nella sola Inghilterra vivono in situazioni igieniche disastrose. Circa 100.000 giovani diventano ogni anno homeless (senza casa) a causa dei numerosi sfratti che colpiscono le loro famiglie. Se si salta un solo mese d’affitto o di rata del mutuo, padroni immobiliari e banche ricorrono subito all’autorità giudiziaria e lo sfratto diventa immediatamente esecutivo; in molti casi le abitazioni sono sovraffollate e mancano della minima pulizia. Le aree particolarmente colpite sono quelle di Glasgow, Liverpool, Manchester, delle Midlands post-industriali e alcuni quartieri orientali e meridionali di Londra come Halnet, Peckam, Bethnal Green, Bow, Camberwell.

    Nella fredda Scozia 750.000 famiglie vivono senza riscaldamento per il semplice fatto che non sono in grado di pagarlo. Evidentemente il petrolio scozzese estratto nel Mare del Nord e i profitti ad esso relativi prendono subito altre strade.

    Oggi il Regno Unito è la quarta potenza economica mondiale e conta 13 milioni di poveri su una popolazione di 59. I bambini che vivono al di sotto della soglia di sussistenza sono 4 milioni (erano 1,4 nel ’79). Miseria e povertà non fanno distinzioni, colpiscono tutte le etnie: bianchi, negri, asiatici, inglesi, scozzesi, irlandesi, africani e caraibici...

    Cambiano i governi, al posto dei tory ora c’è il "New Labour", ma la musica non cambierà se i proletari britannici di tutte le razze continueranno a farsi incantare dall’opportunismo gruppettaro ed opportunista: solo la formazione di un vero Partito Rivoluzionario potrà contrastare i mali prodotti dal capitalismo più senile del globo!
     
     
     



    Bagliori di classe

    Nella Cina del "miracolo economico"

    È un rappresentante dell’Accademia delle Scienze Sociali di Cina che chiaramente denunzia le condizioni della classe lavoratrice: «Vi sono in Cina i nuovi poveri che risultano dai licenziamenti di massa negli anni recenti. I poveri urbanizzati sono sorti quando le imprese statali hanno iniziato a procedere con le ristrutturazioni: più di 40 milioni di lavoratori sono stati licenziati dal 1997. Si stima oggi che circa 25 milioni di urbanizzati vivono con entrate al di sotto del livello di sussistenza». Sempre un rappresentante della stessa istituzione prevede che la protesta dei lavoratori sarà: «La sfida N°1 che la nuova generazione di governanti dovranno fronteggiare. In nessun altro paese si sono avuti mai tagli così rilevanti ai posti di lavoro». È stimato che entro il prossimo anno altri 10 milioni dai lavoratori industriali risulteranno esuberanti.

    Nell’ambito industriale normalmente le aziende stesse dovrebbero farsi carico, così come del pagamento delle pensioni, anche dei sussidi per i lavoratori licenziati, impegno che nella maggior parte dei casi viene solo in parte assolto se non completamente disatteso.

    Recentemente nella Capitale ci sono state manifestazioni contro il mancato pagamento delle pensioni, ma soprattutto nelle regioni industriali del nord la protesta operaia si è fatta sentire.

    A Donguann si segnalano rivolte fra i lavoratori di una fabbrica di giocattoli di 100 operai dove emigrati rurali lavorano 19 ore per 7 giorni a settimana ad un salario di 20 centesimi di dollaro all’ora. A Lanzhou, nel nord ovest, sono in lotta centinaia di lavoratori licenziati da uno stabilimento chimico contro le basse liquidazioni concesse: $120 per anno lavorato.

    A Liaoyan, sede di industrie siderurgiche, una azienda di 5.000 operai da molti mesi non pagava gli stipendi. Alla conclusiva chiusura dello stabilimento veniva promesso un sussidio di $22 al mese, una vera miseria se si considera che per il sostentamento di una sola persona ne sono necessari 50-60 al mese. E, come neanche ad altri lavoratori rimasti disoccupati nella città, neanche tale sussidio veniva poi pagato. In marzo la rabbia esplodeva in manifestazioni di lotta fronteggiate duramente dalla polizia che procedeva a numerosi arresti. Tutt’ora quattro dirigenti operai sono imprigionati.

    Contro il tagli su salari e pensioni da due mesi è in atto la lotta dei lavoratori degli impianti petroliferi di Daquing, che ha ispirato quella in altre regioni della Cina, come nelle province di Gansu e Hebei. Negli scontri con la polizia vi sono stati decine di feriti e di arresti. La conseguenza più rilevante di tale movimento è che i lavoratori hanno iniziato a costruire un’organizzazione indipendente, essendo il sindacato governativo dimostratosi refrattario a schierarsi a difesa delle rivendicazioni operaie e a sostegno della lotta. Contro tale organizzazione si sono diretti gli strali del regime, ma è con essa che la direzione aziendale ha dovuto scendere a trattativa.

    Un Calcio agli scioperi

    In questi giorni in Corea 70.000 lavoratori della sanità e operai di impianti metallurgici hanno scioperato per l’aumento del salario la diminuzione dell’orario di lavoro e contro le privatizzazioni. I sindacati intendono sfruttare la visibilità internazionale fornita dagli imminenti mondiali di calcio per indire nuovi scioperi e manifestazioni. Sono scesi in campo così il presidente sudcoreano Kim-Dae-jung e il primo ministro Lee Han-Dong, i quali minacciano azioni durissime contro le proteste e gli scioperi che a detta loro danneggerebbero l’immagine del paese.