Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 342 - agosto-ottobre 2010 [.pdf]
PAGINA 1 Il Capitale d’occidente ha conquistato l’Asia - Ovunque la rivoluzione abbatterà il Capitale: Dalla produzione alla finanza - L’esportazione del capitale - Decadenza planetaria del capitalismo - Conferma della grandiosa prospettiva - Un mondo intero da conquistare
Roma, manifestazione Fiom del 16 ottobre: Contro l’attacco orchestrato dei padroni, la classe operaia è debole perché non è organizzata per la lotta. Battiamoci per la rinascita del Sindacato di Classe!
PAGINA 2 Intensa riunione di lavoro - Parma 18-19 settembre [RG108]: Corso della crisi economica - La questione militare - Il movimento operaio negli Stati Uniti - Teoria economica marxista, Il III Libro del Capitale - Comunismo negazione storica della Democrazia - Attività sindacale
PAGINA 3 – Marx sui principi sociali del cristianesimo
PAGINA 4 Viva la lotta di classe !
Dalla Francia: Per il ritiro della ‘riforma’ delle pensioni: Sciopero generale !
Anche in Spagna “riforma del lavoro” significa peggiorare le condizioni della classe operaia
– I padroni disdicono il contratto dei metalmeccanici con l’accordo di FIM e UILM e la passiva complicità della FIOM

 
 
 
 

PAGINA 1



Il Capitale d’occidente ha conquistato l’Asia
Ovunque la rivoluzione abbatterà il Capitale

L’8 ottobre 1858 Marx scriveva ad Engels: «Non si può negare che la società borghese ha rivissuto per la seconda volta il suo secolo decimosesto, un secolo decimosesto che spero suonerà a morto per lei come il primo l’ha chiamata in vita. Il vero compito della società borghese è la costituzione di un mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggi sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’inclusione della Cina e del Giappone».

L’industria meccanica, rovinando il prodotto degli artigiani dei paesi colonizzati, li aveva trasformati con la forza in campi di produzione delle sue materie prime. Così le Indie Orientali venivano costrette a produrre cotone, lana, canapa, iuta, indaco, ecc. per la Gran Bretagna.

Il costante “mettere in soprannumero” gli operai nei paesi della grande industria promuove una emigrazione intensa e artificiale e la colonizzazione di paesi stranieri che si trasformano in fornitori di materie prime per la madrepatria, come per esempio l’Australia, trasformata in un produttore di lana. Si crea una nuova divisione internazionale del lavoro: da un lato le sedi principali del sistema delle macchine, campo di produzione prevalentemente industriale, dall’altro, una parte del globo terrestre in campo di produzione prevalentemente agricolo. Questo sistema acquista una improvvisa capacità di espansione a grandi balzi che trova limiti solo nella materia prima e nel mercato di smercio.

Questo rivivere nel diciannovesimo per la seconda volta il suo secolo decimosesto è un salto di qualità del capitale produttivo. Questo primo periodo, nel quale la macchina conquista la sua sfera d’azione, ha un’importanza decisiva a causa dei profitti straordinari che essa aiuta a produrre, e non solo in Europa. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti è anch’esso un prodotto dell’industria europea, e più particolarmente inglese.

Al 1858, nella rimanente grande area del mondo l’economia è ancora precapitalista, come in Cina, dove, con «la sua agricoltura minuta, ecc. ci vorrà un tempo enorme per metterla a terra». Marx ed Engels si chiedono allora: «Ecco la questione difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminente, e prenderà subito un carattere socialista. Non sarà necessariamente soffocata in questo piccolo angolo di mondo dato che il movimento della società borghese è ancora ascendente su un’area molto maggiore?».

Questo il grande problema al 1858. Una rivoluzione borghese nella più vasta area del mondo, che doveva inserirsi nella già potente economia delle macchine. La rivoluzione industriale aveva conquistato gli Stati Uniti e il Giappone, conquisterà poi i paesi coloniali, l’India e la Cina assieme oggi a quasi tutte le rimanenti aree del pianeta.
 

Dalla produzione alla finanza

Il capitalismo aveva prese le mosse dal capitale usuraio minuto, nato dalla piccola produzione mercantile al suo massimo sviluppo, quando anche la forza lavoro è diventata una merce.

La libera concorrenza è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale. La libera concorrenza creò la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancora più grandi, spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale che da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, i sindacati, i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo di una decina di banche che manovrano miliardi.

Così anche per le banche, la trasformazione di numerosi modesti intermediari in un gruppetto di monopolisti, costituisce uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista. La concentrazione del capitale e l’aumentato giro d’affari modifica radicalmente l’importanza delle banche. In luogo dei capitalisti separati sorge un unico capitalista collettivo. Il nuovissimo movimento di concentrazione non si arresterà.

Naturalmente gli stretti rapporti esistenti tra singole banche portano anche a un avvicinamento tra i consorzi industriali che si trovano sotto il loro padronato. Banche e industria camminano insieme. La borsa è dominata dalle grandi banche. Si verifica una simbiosi del capitale bancario col capitale industriale. Il capitale si avvia a esercitare una sorveglianza organizzata sulle singole imprese. Dato l’intimo nesso tra industria e finanza, ne resta compressa la libertà di movimento delle società industriali, costrette a ricorrere al capitale bancario, chiamato capitale finanziario, in quanto investito nell’industria.

L’inizio del secolo ventesimo rappresenta un’epoca che segna una svolta nei riguardi dell’incremento dei monopoli, cartelli, sindacati, trust, ma anche nell’incremento del capitale finanziario. Nel 1900 il capitalismo era già arrivato a separare il possesso del capitale dall’applicazione del medesimo alla produzione, e a separare il capitale denaro dal capitale industriale e produttivo, promuovendo la prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale.

Nel 1910 si calcolava la somma di 600 miliardi di valori cartacei in tutto il mondo, in Franchi. Quattro paesi: Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Germania, possedevano l’80% del capitale finanziario internazionale. Quasi tutto il resto del mondo, in una forma o in un’altra, fa la parte del debitore e del tributario di questi Stati, che fungono da banchieri internazionali.
 

L’esportazione del capitale

L’ascesa della libera concorrenza è terminata. Sotto il dominio dei monopoli è diventata caratteristica l’esportazione del capitale, dato che in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo.

La definizione di Lenin dell’imperialismo è nei suoi famosi cinque contrassegni:
1) concentrazione della produzione e del capitale così spinta da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) fusione del capitale bancario col capitale finanziario, quindi di un’oligarchia finanziaria;
3) grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti;
5) compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze imperialistiche.

Kautsky si schierò contro. Per lui non doveva intendersi per imperialismo uno stadio necessario dell’economia del moderno capitalismo, ma solo una politica preferita del capitale finanziario, la tendenza alle annessioni: a questo si riduce la parte politica della definizione. È caratteristica dell’imperialismo appunto la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari, ma di mettere mano anche sui paesi fortemente industriali, quando è in corso una nuova spartizione, da parte di tutti i contendenti, come nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale.

Lenin cita Hobson il quale, molto più giustamente di Kautsky, prende in considerazione due concrete peculiarità storiche con le parole: «Il nuovo imperialismo si distingue dall’antico in primo luogo per il fatto di avere sostituito alle tendenze di un solo impero in continua crescenza, la teoria e la prassi di imperi gareggianti, ciascuno dei quali è mosso dagli stessi avidi desideri di espansione politica e di vantaggi commerciali; in secondo luogo per il dominio degli interessi finanziari».

Kautsky preventivava anche, dal punto di vista strettamente economico, che il capitalismo potesse attraversare ancora una fase: quella cioè dello spostamento della politica dei cartelli nella politica estera. Si sarebbe avuta allora la fase del superimperialismo, dell’unione degli imperialismi di tutto il mondo e non della guerra tra essi, la fase della fine della guerra in regime capitalista, la fase dello sfruttamento collettivo del mondo ad opera del capitale finanziario internazionalmente coalizzato.

La fase della fine della guerra non si è avverata. Il mondo è ancora diviso in un piccolo gruppo di Stati usurai e una massa di Stati debitori. Piccolo gruppo che, oltre a terrorizzarsi fra loro, terrorizza la massa degli Stati debitori, con le portaerei e le bombe atomiche ecc., perché le alleanze interimperialistiche non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra. I rapporti di potenza nei partecipanti alla spartizione si modificano in maniera difforme giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. Le leggi antimonopolio, del libero commercio ecc., sono solo ipocrisia perché applicate ad una economia in continuo movimento, con pause e accelerazioni, che non permette all’imperialismo una stabilità.
 

Decadenza planetaria del capitalismo

Il rivivere il secolo decimosesto, cui si è aggiunta ed affermata ovunque la rivoluzione industriale, è oggi compiuto.

Dove collocare gli operai costantemente messi in soprannumero e i prodotti eccedenti ovunque, fenomeni questi imposti solo dal rapporto sociale mercantile e dal profitto? L’attuale crisi non ha nulla in comune con le precedenti. Non può trovare nuovi centri al capitalismo, ma solo la morte del sistema. Quale sarà il braccio armato che abbrevierà la sua agonia?

In una lettera di Engels a Danielson del febbraio 1893 è detto: «Uno dei fenomeni che accompagnano necessariamente lo sviluppo della grande industria è che questa distrugge il proprio mercato interno con lo stesso processo mediante il quale lo crea, perché distrugge il potere d’acquisto del contadino, ecc. Ovvero è senza via d’uscita un paese senza mercato estero. Ancora, prendete l’Inghilterra. L’ultimo mercato nuovo che possa alimentare una ripresa almeno temporanea della sua prosperità è la Cina: ecco perché il capitale inglese insiste per costruirvi ferrovie. Ma queste significano la distruzione delle fondamenta della piccola agricoltura e dell’industria domestica patriarcale, e in Cina, dove manca il controveleno di una grande industria indigena, centinaia di migliaia di individui sono minacciati di indigenza completa».

La produzione capitalistica prepara la sua stessa rovina. Dove esportare se tutti devono esportare?
 

Conferma della grandiosa prospettiva

Negli anni 1990 le statistiche informavano che il maggior traffico di merci si era spostato dall’Oceano Atlantico al Pacifico. Quella grandiosa prospettiva che Marx aveva anticipato si è avverata e si va sempre più consolidando.

La rivoluzione in Cina, scatenata dal colonialismo con l’arma della concorrenza colà imposta con la violenza dei cannoni britannici, ora getta enormi masse di merci e di capitali nella polveriera sovraccarica del sistema economico mondiale.

La Terza Internazionale considerò la rivoluzione sociale in Asia uno dei compiti più immediati e importanti. Il tradimento della rivoluzione d’Ottobre e del comunismo mondiale interruppe il lavoro imposto da Marx e proseguito da Lenin e dall’Internazionale. Ciononostante, in tempi più lunghi e più dolorosi, la rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia è oggi compiuta. La storia ha percorso il suo segnato cammino, anche se quella rivoluzione, dall’alto, si è avuta sul massacro di proletari insorti e sulla dispersione e profanazione della sua dottrina e del suo organo comunista, tanto che oggi è ancora da ritessere ogni coesione fra la classe operaia d’Oriente e d’Occidente.
 

Un mondo intero da conquistare

Come disse Engels, noi “speriamo” che la crisi diventi profonda e cronica, in modo che la classe proletaria internazionale possa ritrovare la sua unità. Il proletariato colpirebbe meglio, con migliore conoscenza di causa e maggior accordo, obbiettivi che potranno essere raggiunti solo con la formazione del Partito Comunista Internazionale.

Il socialismo scientifico nel suo programma supera la nazione, non la organizza in forme nuove; prende atto che la stessa forma capitalista sviluppata è capace di superarla, ma a differenza di questa non vuole conquiste, oppressione, stermini e sfruttamento.

Quale l’attuale grado di superamento della nazione? Esso non sta solo nella continua interdipendenza degli Stati e delle economie, ma innanzi tutto nell’intreccio grandeggiante dell’organizzazione mondiale del lavoro che non può tollerare i confini nazionali.

Strade, gallerie e tunnel, gasdotti, oleodotti ed elettrodotti, l’uso di una lingua internazionale e l’annullamento delle distanze per le comunicazioni riproducono a scala gigante lo stesso medesimo intreccio del processo di produzione descritto da Marx, superando confini e mari, serrando in esso nazioni e continenti. Su questa base materiale, che condiziona tutta l’economia mondiale ad una unica disciplina, si impone la negazione dialettica delle nazioni. La barbarica dittatura del capitale non supererà mai la divisione nazionale, come non può superare il mercantilismo e la concorrenza fra aziende. Lo potrà solo la dittatura comunista mondiale.

Il centro del capitalismo è passato dall’Inghilterra all’America, la maggiore potenza economica e quindi anche militare. L’Inghilterra imperiale raggiunse il suo culmine alla vigilia della Prima Guerra mondiale; gli Stati Uniti al termine della Seconda. Oggi, a solo 60 anni da quella data, la Cina, con la sua forza demografica e il suo dirompente sviluppo economico, promette di diventare il nuovo centro economico, e quindi anche militare, del capitalismo.

Non per questo la storia si fermerà: più gigantesco e vitale il Capitale, più profonda la crisi che prepara a se stesso, più matura e concentrata la classe operaia, che trova oggi, ovunque, già pronti un mondo da conquistare ed una sua incorrotta dottrina.
 
 
 
 
 
 
 
 


Roma, manifestazione Fiom del 16 ottobre
Contro l’attacco orchestrato dei padroni
la classe operaia è debole perché non è organizzata per la lotta
Battiamoci per la rinascita del Sindacato di Classe!
 

La crisi economica capitalistica non è risolvibile. Le sue cause sono la sovrapproduzione di merci e la caduta del saggio del profitto: due malattie incurabili del capitalismo.

La borghesia per rimandare ancora la sua rovina ha a disposizione una sola leva: aumentare, in tutto il mondo, lo sfruttamento della classe operaia.

Questo è ciò che è avvenuto negli ultimi 35 anni, cioè dalla prima manifestazione della crisi nel 1973-’74. Da allora padroni, governi e sindacati di regime iniziarono a parlare di “austerità”, “moderazione salariale”, “sacrifici, temporanei ma necessari”, e a togliere passo dopo passo alla classe lavoratrice tutte le sue conquiste, ottenute nei precedenti anni di forte crescita economica. Il capitalismo ha così diluito e dilazionato la crisi nell’arco degli ultimi 35 anni. Ma non ha potuto fermarla: è esplosa tre anni fa e continuerà fino a portare al tracollo l’intero sistema economico capitalistico, ormai stretto in un indissolubile intreccio mondiale.

Nell’arco degli ultimi tre decenni la borghesia ha così potuto gestire con studiata gradualità l’offensiva alle conquiste dei lavoratori. Nel 1978 la CGIL inaugurò, con la “svolta dell’EUR”, la politica della “moderazione salariale”. Nel 1983 iniziò l’attacco alla scala mobile con il protocollo Scotti, completato nel 1992 con l’accordo Amato-Trentin. Nel luglio 1993 fu formalizzata la “concertazione” e varata la nuova “politica dei redditi” sul parametro della “inflazione programmata”. Nel 1995 il governo Dini riuscì dove aveva fallito il precedente governo Berlusconi, facendo approvare la controriforma del sistema pensionistico. Nel 1997 la legge Treu apriva le porte al precariato nei rapporti di lavoro, sanzionata e peggiorata dalla legge 30 del 2003.

Questi tagli sono stati giustificati dai padroni e dai sindacati concertativi sempre allo stesso modo: “stare peggio oggi per stare meglio domani”. È evidente invece che hanno sortito l’effetto opposto: ogni nuovo sacrificio non è stato mai l’ultimo, ma la tappa intermedia verso un arretramento ancora peggiore.

Oggi, mentre precipita la crisi, accelera l’attacco alla classe lavoratrice. A livello aziendale da un lato licenziamenti, cassa integrazione, salari diminuiti o non pagati da mesi, dall’altro aumento dei carichi di lavoro, della produttività, dei turni, degli straordinari obbligatori. A livello generale revoca del contratto nazionale, dello Statuto dei lavoratori, blocco dei salari dei dipendenti pubblici, licenziamento in massa di insegnanti e precari dello Stato, decurtazione del salario indiretto col blocco dei finanziamenti alla sanità, ai trasporti, all’assistenza sociale. La borghesia, incalzata dalla crisi, deve abbandonare la precedente cautela e i sacrifici richiesti divengono di giorno in giorno ormai più pesanti e insostenibili.

Le leggi del capitalismo implicano la rovina e la disperazione della classe operaia. Il solo modo per difendere la classe operaia è combattere il capitalismo. Al contrario i sindacati di regime, insieme ai falsi partiti “di sinistra”, non vedono niente che non sia all’interno del capitalismo e delle sue leggi economiche. Per essi la sorte dei proletari è quindi indissolubilmente legata a quella dell’economia capitalistica. Se questa crolla, i lavoratori dovrebbero affondare con essa, come gli schiavi incatenati alle galere. Ecco dunque che cosa è il preteso “bene comune” a lavoratori e padroni di cui parla il sindacalismo di regime: il Profitto del Capitale, e la lotta in difesa della condizione operaia dovrebbe essere subordinata a quel “bene”, al buon andamento dell’economia capitalistica.

Ecco perché dall’inizio della crisi alla metà degli anni ’70 ad oggi la CISL, la UIL e la CGIL non hanno mai organizzato la classe lavoratrice perché scioperasse in modo esteso, compatto e per la durata necessaria a respingere i reiterati attacchi. Hanno sempre impostato le lotte facendo scioperare poco e male perché il loro vero obiettivo era sedere al tavolo negoziale per gestire insieme ai governi ed ai padroni – a mo’ di consulenti – i peggioramenti, che essi per primi hanno sempre considerato inevitabili e necessari. La migliore credenziale per sedere al tavolo della trattativa è sempre stata quella che, senza di loro, il rischio per i padroni sarebbe stato l’esplosione incontrollata delle lotte.

I danni di decenni di questo sindacalismo anti-operaio sono stati non solo la sua incapacità a porre un freno al peggioramento delle condizioni operaie, ma soprattutto l’aver diseducato due intere generazioni di lavoratori a lottare, l’aver sradicato in essi l’abitudine, la memoria e la capacità di una indispensabile lotta di classe. Il risultato più grave è stato aver spezzato il filo della tradizione di lotta, di non averla trasmessa alle nuove generazioni di lavoratori, precari, ricattabili, licenziabili, disoccupati, in condizioni di sfruttamento sempre più spietato, disarmati e abbandonati all’individualismo.

Tutte le recenti vicende sindacali non escono da questi consolidati steccati e confermano la necessità ineludibile di una organizzazione sindacale di classe, fuori e contro tutti i sindacati di regime (CGIL-CISL-UIL-UGL), al di sopra delle loro false contrapposizioni:
– la CGIL non ha firmato gli accordi separati del gennaio e dell’aprile 2009, ma si è congratulata con le sue federazioni di categoria che hanno siglato insieme alle federazioni di CISL e UIL 55 rinnovi contrattuali che hanno accolto buona parte dei contenuti di quelle intese separate, dimostrando che il non apporre la propria firma in calce ad esse era solo un finzione;
– la CGIL al referendum di Pomigliano ha dato di fatto indicazione analoga a quella di CISL e UIL;
– di fronte a un attacco come quello al contratto nazionale, che riguarda tutti i lavoratori, la CGIL non solo ha negato ai metalmeccanici la solidarietà delle altre categorie, ma ha sabotato la loro lotta aprendo un nuovo grande tavolo di trattative con Confindustria, Governo, CISL e UIL proprio per la riforma del sistema contrattuale al solito fine di cogestire i peggioramenti;
– intanto una nuova intesa separata è stata firmata il 29 settembre da FIM, UILM e Federmeccanica, per “fare come a Pomigliano” in tutte le aziende metalmeccaniche. Al nuovo affondo degli industriali la CGIL ha risposto confermando il suo impegno con CISL, UIL, padroni e governo, isolando e indebolendo ulteriormente la resistenza dei metalmeccanici.

Se è vero che l’attacco al contratto nazionale dei metalmeccanici è contro tutti i lavoratori, allora tutti i lavoratori debbono essere chiamati allo sciopero generale e ad oltranza!

Una simile mobilitazione non si improvvisa: va preparata, organizzata e spiegata ai lavoratori. Per far questo serve una organizzazione sindacale che imposti tutta la sua azione, a partire dalle singole lotte di fabbrica e di reparto, orientandole alla preparazione di questo scontro con l’intera classe padronale. Serve una organizzazione che ricostruisca la fiducia dei lavoratori nel metodo basato sulla loro mobilitazione diretta, non nei professionisti della trattativa e nelle pratiche legali. Questa organizzazione, che oggi manca, è il Sindacato di Classe. E questo è oggi il problema fondamentale e ineludibile della classe operaia.

La strada per la costruzione del Sindacato di Classe ha oggi, fra i tanti, due ostacoli: da un lato l’ostinazione di tutte quelle correnti sindacali interne alla CGIL che da 30 anni illudono e si illudono di poter cambiare questo sindacato; dall’altro il frazionamento delle organizzazioni sindacali di base.

La sinistra CGIL, dalla “svolta dell’EUR” ad oggi, passando per il movimento degli “autoconvocati” a metà degli anni ’80 e per la “stagione dei bulloni” del 1992-’93, non solo non è riuscita nell’intento di “cambiare la CGIL”, ma nemmeno ne ha impedito il continuo spostarsi su posizioni di aperto corporativismo. Di fatto, non ha cambiato la CGIL ma l’ha puntellata, ha consumato sane energie operaie in questo compito fallimentare, ed ha così impedito e ritardato la formazione di una nuova organizzazione sindacale di classe.

I metalmeccanici FIOM troverebbero oggi solidarietà nei Sindacati di Base, ma la loro dirigenza pone una censura ed un silenzio totali verso questa prospettiva, e tiene prigionieri i suoi iscritti dentro la CGIL, che invece continua a isolarli e sabota di fatto le loro lotte. I capi della FIOM preferiscono “ricomporre” l’unità con FIM e UILM piuttosto che unirsi al sindacalismo di base, come dimostrano le tante vertenze aziendali condotte unitariamente (Ilva, Fincantieri, Indesit, Marcegaglia, Alcoa, Electrolux, ecc.). Gli operai che hanno osato simboliche contestazioni alle sedi della CISL sono stati severamente rimproverati dai loro dirigenti FIOM e minacciati d’espulsione dalla CGIL.

I Sindacati di Base (USB, CUB, Slai Cobas, COBAS) lottano da anni e fra mille difficoltà contro padroni e sindacati di regime. L’apporto di nuove energie operaie consentirebbe di vincere il settarismo e la reticenza delle loro attuali dirigenze all’unificazione delle diverse organizzazioni sindacali di base in un organismo unico. Questo costituirebbe allora un’alternativa concreta ai Sindacati del regime, capace di attrarre le forze migliori dei lavoratori di tutte le categorie, e rappresenterebbe un passo in avanti decisivo per il sempre più necessario ritorno della classe operaia alle sue grandi tradizioni: la battaglia per la sua valida difesa oggi, per la sua piena emancipazione sociale domani.

– Fuori e contro i sindacati di regime (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) !
– Per l’unificazione del sindacalismo di base, contro il settarismo delle attuali dirigenze !
– Battiamoci per la rinascita del sindacato di classe !
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2



 
Intensa riunione di lavoro
A Busy Working Meeting
Parma 18-19 settembre 2010
[RG108]
Corso della crisi economica - [resoconto esteso]
La questione militare - La rivoluzione americana - [resoconto esteso]
Il movimento operaio negli Stati Uniti - [resoconto esteso]
Teoria economica marxista, Il III Libro del Capitale
Comunismo negazione storica della Democrazia - [resoconto esteso]
Attività sindacale

 
 
 

Secondo le istruzioni diramate dal centro del partito siamo tornati a Parma per la riunione generale di lavoro. Era stata prenotata una bella sala luminosa e tranquilla dove abbiamo potuto ascoltare con ogni comodità le numerose e impegnative relazioni, il contenuto delle quali, predisposte tutte secondo un piano previsto ed unitario, si compenetra a meglio rappresentare il nostro grande bagaglio di dottrina e di esperienza comunista di sinistra.

La mattina del sabato è stata dedicata al lavoro per stabilire l’ordine e lo svolgimento della riunione e per concordare le future linee di attività della nostra compatta compagine, piccola ma che può vantare, sull’arco dei decenni, piena continuità di professione programmatica e di atteggiamento nell’intervento esterno rivolto alla classe, unici per tutta l’organizzazione e condivisi da tutti i compagni.
 
 

Corso della crisi economica

Il 1974-1975 ha visto la fine di quelli che i vari propagandisti del capitalismo hanno chiamato “i trenta gloriosi”, cioè la fine di questo periodo fondato sulle distruzioni massicce e sui massacri della Seconda Guerra mondiale, che sola ha permesso al capitalismo di uscire dalla crisi del 1929 e d’infilare un nuovo lungo ciclo di accumulazione sostenuta. Nel frattempo si sono accresciuti i settori produttivi invasi dal capitale, che ha eliminato tutti quelli ancora rimasti alla fase piccolo borghese (nell’agricoltura, l’artigianato, nei piccoli commerci, ecc.). Così le contraddizioni proprie del capitalismo, la riduzione tendenziale del tasso di profitto e la sovrapproduzione di merci, hanno preparato nuove potenti crisi, simili a quella dell’interguerra ma ad una scala molto maggiore.

Uno spettro aleggia oggi sul mondo, quello di una crisi gigantesca di sovrapproduzione, che lo trascina in una spirale senza fine di deflazione dei prezzi e di deprezzamento massiccio del capitale. Il capitalismo ne ha già conosciute in passato, ad esempio nel 1848 e nel 1929, due date che ancora l’angosciano. Ed ogni volta ad una scala superiore rispetto alla precedente.

Per sfuggirvi, le borghesie dei diversi paesi industrializzati non hanno altro strumento che spremere sempre più il proletariato mondiale allo scopo di aumentare il tasso del plusvalore che controbilanci la caduta del tasso di profitto. Per dilazionare l’esplodere della smisurata sovrapproduzione di merci gli Stati ed i privati si spingono ad un indebitamenti colossali.

Le misure economiche e sociali adottate dai vari Stati (smantellamento del “welfares”, revoca della indicizzazione dei salari sull’inflazione, introduzione dei contratti di precariato e libertà di licenziare) e dal padronato (trasferimento della produzione dove il lavoro costa meno, riduzione del personale ed aumento vertiginoso della produttività con aumento del carico di lavoro) non potevano eliminare lo spettro della crisi ma solo di rinviarlo nel tempo.

Al contrario che nella prima grande crisi di sovrapproduzione alla scala mondiale, quella del 1929, in questo secondo dopoguerra non si è verificato un subitaneo precipizio di deflazione e caduta della produzione ma una successione di recessioni, 4 o 5 secondo i paesi. Oggi vari fattori sembrano indicare che questa volta la borghesia mondiale ha sparato le ultime cartucce e che si avvicina il momento in cui non sarà più possibile evitare la tanto temuta deflazione. Nella deflazione più ancora del proletariato a rovinare è la piccola e grande borghesia. Ed è allora che quest’ultima alla sua disgrazia preferisce la guerra.

Alla riunione abbiamo provato con i dati – qui riprodotti in una prossima relazione – che l’ampiezza della crisi che s’è aperta alla fine del 2008 è stata peggiore anche di quella del 1974-75 e che nessun paese ne è ancora potuto uscire.
 

La questione militare

Il rapporto ha concluso la serie di esposizioni sulla Rivoluzione americana, dal momento in cui, dopo la prima significativa vittoria a Saratoga, la Francia decise per un intervento a favore degli Stati Uniti. Significativa vittoria per gli americani perché fu la prima vera battaglia campale, di una formazione di oltre 16 mila soldati e condotta con una tattica adeguata e non più una scaramuccia basata sulla guerriglia.

La Francia da tempo era orientata in tal senso, nonostante la consistente opposizione interna che temeva un secondo e più oneroso insuccesso dopo quello recente della guerra dei Sette Anni. Lo scopo dell’invio di armi era il tentativo di espandersi nei territori ad Ovest e di affiancarsi, se non sostituirsi, all’Inghilterra nel commercio americano.

Dopo l’ingresso in guerra della Francia, nel febbraio 1778, l’Inghilterra propose agli americani un “Piano di riconciliazione”, ormai tardivo, per ridurre la tensione e comporre i contrasti: in cambio di una notevole autonomia e maggior libertà questi dovevano accettare il re inglese come il loro sovrano.

Sul piano militare Londra ordinò di abbandonare Filadelfia, appena conquistata, e concentrare le truppe su New York e su Newport, base di tutte le operazioni inglesi, e sbarcare delle truppe a Sud per tagliare in due quelle degli Stati Uniti, come già avevano tentato in precedenza con Burgoyne.

L’ingresso della Francia fu molto importante sia per il morale sia per l’arrivo di truppe e comandanti esperti, mentre quelli americani non lo erano e molti di essi si erano arruolati come tali senza averne i requisiti.

Anche la Spagna entrò poi nel conflitto per recuperare territori in America e nel Mediterraneo.

L’esercito americano, diretto dalla borghesia, era composto da una eterogenea miscela di classi e ceti sociali molto diversi tra loro: coloni vecchi, nuovi in cerca di terre da coltivare sulla base della piccola proprietà agricola, cui si aggiunsero i disertori assiani, artigiani con le loro aspirazioni imprenditoriali, schiavi negri liberati o fuggiti che temevano di essere riconsegnati, nativi indiani usati molto spesso gli uni contro gli altri e che tentavano di opporsi all’invasione delle antiche terre tribali. Un aggregato di interessi e di genti che potevano essere tenute insieme solo con continue vittorie. Che però stentavano ad arrivare. Oltre a ciò pesava la costante carenza di materiale bellico e una forte disorganizzazione nella catena di comando.

L’arrivo del consistente contingente francese, in navi, soldati e ufficiali, rafforzò e migliorò notevolmente lo schieramento americano. La situazione militare vedeva gli inglesi tenere New York, il suo porto e ben salde le acque circostanti con una flotta di una ventina di navi e più di 20 mila soldati. A Sud tenevano Yorktown, sulla foce del Delaware, con una flotta ridotta ma sufficiente e circa 10 mila soldati, più alcune piazzeforti come Charleston e Savannah. Gli americani dai loro quartieri invernali ben protetti cercavano di intercettare il movimento delle truppe inglesi e effettuavano attacchi a postazioni isolate con operazioni di grande ardimento però senza avere la possibilità di consolidare le posizioni acquisite che poi dovevano lasciare per mancanza di rifornimenti.

La guerriglia rimaneva la strategia preferita americana. Il grosso delle truppe era concentrato nell’assedio di New York, la cui conquista avrebbe deciso la guerra.

La flotta francese vinta una battaglia navale ebbe il controllo dei mari, per cui il trasferimento delle truppe inglesi non poté più avvenire. La guerra per mare si trasferì nei Caraibi.

Washington premeva per attaccare prima New York, che avrebbe determinato l’esito della guerra, mentre Rochambeau, il comandante francese, viste le disposizioni delle forze in campo, preferì attaccare prima Yorktown e poi spostare tutte le truppe su New York. L’attacco alla città da parte americana fu semplice sia per la superiorità numerica dell’artiglieria che devastò le semplici e incomplete fortificazioni inglesi, sia per l’insuccesso del contrattacco inglese. Alla fine Corwallis si arrese con ben 8 mila uomini. Con la caduta di Yorktown cessarono tutti gli scontri sul fronte terrestre e iniziarono colloqui di pace. La guerra continuava però sui mari. Ma quello che cadde fu il fronte interno inglese che valutava troppo oneroso continuare la guerra visto il crescente appoggio degli americani al proprio esercito, gli scarsi risultati dei lealisti, ma soprattutto temevano di perdere il controllo dei mari indispensabile veicolo delle loro merci.

Con la pace di Parigi del 1783, gli Stati Uniti ottennero la completa indipendenza. La Spagna riprese la Florida e Minorca nel Mediterraneo, ma dovette abbandonare per sempre Gibilterra. La Francia ottenne la possibilità di continuare la sua espansione nell’Ovest americano, ma con un tale impegno economico da acuire la sua crisi interna, spianando così, sei anni più tardi, la via alla rivoluzione borghese. Nei Caraibi ebbe Trinidad e Tobago, in Africa il Senegal, ed alcuni porti in India, importanti per la conquista dell’Indocina.

Nonostante la sconfitta l’Inghilterra rimaneva la prima potenza marinara dell’epoca con una ragguardevole flotta di 250 navi da guerra, in verità solo un terzo di buona qualità, ma con ottimi equipaggi e ufficiali, mentre la Francia con le sue 80 navi, ma tutte di ottima qualità, la incalzava nel controllo dei traffici. Gli americani, che non potevano avere naviglio militare per i vecchi contratti coloniali, dovettero ricorrere alla guerra di corsa per intercettare i convogli inglesi. Ben 600 furono le navi inglesi catturate dai corsari americani, che per buona parte le rivendettero agli inglesi stessi. Le flotte da guerra, disimpegnate dall’America, vennero spostate nei mari dell’India dove continuava la guerra per mare per il controllo di quelle vie commerciali, soprattutto dopo la chiusura di alcune basi olandesi.

Il rapporto terminava con l’esposizione di alcune prime conclusioni in merito a questo conflitto:

1° Come la nostra scuola insegna, furono cause economiche a spingere alla guerra, cui si dette una copertura ideologica: la borghese libertà di produrre e commerciare senza vincoli sommata all’illuminismo francese: un’ottima miscela.

2° Entrambi i fronti non spinsero mai fino in fondo le loro forze nello scontro, sia per non compromettere eventuali accordi di pace sia per motivi economici. Per l’Inghilterra, già impegnata su altri fronti nel suo immenso Impero, le 13 colonie non erano ancora uno Stato formato, erano alla loro prima esperienza militare e mancavano di tutto quanto serve per una guerra. Le indecisioni e le ambiguità dei governi generarono indicazioni contraddittorie ai comandanti. Ancora, secondo la consuetudine settecentesca, sarebbero state sufficienti alcune singole battaglie o un certo grado di logoramento per arrivare a sedere al tavolo delle trattative.

3° Siamo qui storicamente al momento cruciale del passaggio dal modo di produzione feudale a quello borghese capitalista, già avvenuto nel Regno Unito ma non ancora nell’Europa continentale e questo si riflette sui fatti d’arme. La guerra feudale, con le sue regole e schemi, mirava al massimo contenimento delle risorse e spese militari, spesso notevoli per piccole entità statali. La guerra moderna, basata sulla giovane produzione capitalista, getta nei conflitti una gran quantità prima impensabile di ogni tipo di strumento, secondo la logica capitalista di produrre e riprodurre a scala sempre più ampia ogni merce per maggiori profitti. Anche qui la guerra si conferma un fatto economico.

4° Sul piano militare si scontrano due forze asimmetriche: quella inglese, di gran potenza, formazione ed esperienza, prevalentemente mercenaria, organizzata secondo vecchi schemi, non adatta al nuovo tipo di conflitto; quella americana, volontaria, che dovette fare di necessità virtù adottando per i suoi grossi limiti materiali la tattica della guerriglia. A causa di questa asimmetria nessuno dei fronti poté giungere mai ad una vittoria decisiva.

5° Il conflitto giunge infatti ad una conclusione quando gli alleati franco-spagnoli equilibrarono i fronti e si poterono incontrare in campo aperto ad armi pari. Altre cause, fronte interno inglese indebolito in primis, concorsero alla fine del conflitto. La tattica della guerriglia ha iniziato il conflitto, ostacolato e logorato pesantemente l’avversario, ma non lo ha potuto concludere, come nella grande maggioranza di simili casi.

6° Il conflitto da locale si espande coinvolgendo più Stati in più fronti per il controllo di colonie e mercati lontani a sbocco delle merci europee. Per giovani e ambiziosi capitalismi, che devono espandere il raggio d’azione affinché il ciclo Denaro-Merce-Denaro si rinnovi ai quattro angoli del mondo, le guerre sono il passe-partout per tutte le porte difficili.
 

Il movimento operaio negli Stati Uniti

Il relatore, richiamando i punti essenziali del rapporto precedente, descrivente la parabola dei Cavalieri del Lavoro, ha tirato un bilancio su quella esperienza della classe operaia nordamericana.

L’Ordine dei Cavalieri del Lavoro fu grande, in un dato periodo della storia del movimento operaio americano, nonostante l’Ordine stesso, cioè la sua dirigenza e l’ideologia di emancipazione sociale che questa perseguiva. E la sua fine fu determinata dalla ostinata adesione a quella ideologia, e dal rifiuto quindi di adeguare la poderosa macchina da guerra che si era andata formando ai veri bisogni della classe operaia.

I Knights of Labor avevano approfittato di un momento di grande crescita della combattività della classe operaia, e il loro atteggiamento di accoglienza di tutti i lavoratori nell’organizzazione aveva coinciso con la naturale tendenza alla fratellanza tra sfruttati. Una delle ragioni, forse la principale, del successo dei KL nell’inquadrare tanti lavoratori e creare innumeri sezioni, rispetto ai sindacati che li avevano preceduti, fu che in precedenza era stato difficile mettere insieme localmente un numero sufficiente di proletari dello stesso mestiere, per le caratteristiche intrinseche della società nordamericana e del suo capitalismo. L’Ordine superò il problema creando sezioni intercategoriali, e accettando anche semi specializzati, non specializzati, giornalieri, donne e negri (questi ultimi nel 1886 sembra costituissero il 10% degli iscritti). La loro parola d’ordine, “Un danno a uno è il problema di tutti” infiammò grandi masse operaie in tutto il Paese.

Ma la dirigenza dei KL fu capace in pochissimo tempo di distruggere sia un’organizzazione che non aveva precedenti sia il morale e la speranza di una generazione di proletari, che cominciavano a intravvedere un futuro diverso da quello predicato da politicanti, tradeunionisti di mestiere, preti e intellettuali borghesi. Era questa una condizione che predisponeva la classe ad accettare il verbo socialista che in quegli anni, sull’esempio del movimento europeo, stava penetrando di nuovo in America.

Ma la preclusione “meglio morti che anarchici o socialisti”, la ricerca del consenso dei padroni, l’odio mai abbastanza celato verso i sindacati di mestiere, che pure erano ammessi nell’Ordine, portò alla fine del movimento. Andarono perduti, per tornare solo dopo diversi decenni, anche gli aspetti positivi del movimento, che non trovarono accoglienza nell’A.F.L., prima tra tutti l’apertura a tutti i proletari.

Il rapporto è quindi continuato con la descrizione del risorto movimento per le 8 ore, che nella prima metà degli anni ’80 infiammò e unì tutti i proletari degli Stati Uniti. Il movimento culminò con la fatidica data del 1° maggio 1886, quando uno sciopero generale di tutte le categorie in tutto il Paese avrebbe dovuto imporre al padronato una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro. Le lotte si erano sviluppate già nei mesi precedenti, e ottennero quasi ovunque un clamoroso successo in quanto i padroni non poterono rifiutare la concessione di fronte a un movimento tanto diffuso e determinato. Questo nonostante la resistenza passiva e il boicottaggio della dirigenza dei KL. Finalmente il proletariato, guidato dalle migliori organizzazioni sindacali e con il sostegno dei movimenti politici allora attivi, tra i quali si distinsero gli anarchici, rinunciava a ottenere risultati attraverso le pressioni sui politicanti (esperienza dimostratasi in passato fallimentare), e passava all’azione diretta.

Non mancarono episodi sanguinosi dovuti alla repressione delle forze borghesi tutte le volte che ritennero di poter impunemente colpire i proletari in lotta. Uno di questi fu un massacro durante una manifestazione a Chicago, il 3 maggio. Nel corso di un comizio tenutosi il giorno successivo in Haymarket Square fu lanciata una bomba che uccise dei poliziotti. La stampa eccitò l’isteria popolare contro gli agitatori operai, gli anarchici, i socialisti. La Polizia nel giro di due giorni fece irruzione in non meno di cinquanta pretesi ritrovi di radicali. Delle centinaia di operai arrestati ne furono scelti otto da processare, scelti per il ruolo fondamentale svolto nella lotta: vennero condannati a morte in un processo farsa, anche se non c’era alcuna prova che avessero a che fare con gli incidenti; quattro furono impiccati, un quinto morì in carcere, ufficialmente per suicidio.

Di fronte alla durissima reazione che seguì per un certo periodo il movimento dei lavoratori dovette arretrare, ma entro meno di dieci anni sarebbe risorto di nuovo. Già si stava sviluppando una nuova organizzazione, la American Federation of Labor, che aveva fatto tesoro delle lezioni dei fallimenti del KL e ne avrebbe preso il posto, non come fenomeno dalla breve vita, come era accaduto alle federazioni sindacali nazionali precedenti, ma come organizzazione destinata a restare, nel bene e nel male, nella storia del movimento operaio americano sino ai nostri giorni.
 

Teoria economica marxista - Il III Libro del Capitale

Nella riunione abbiamo voluto riprendere l’esposizione ragionata dei capitoli della V sezione del Terzo Libro, nella sistemazione datagli da Engels.

Prima di iniziare l’esposizione del cap. 28, che nell’edizione italiana reca un titolo poco chiaro, “Mezzi di circolazione e capitale – La concezione di Tooke e Fullarton”, si è ritenuto necessario un excursus storico per renderne comprensibile la struttura e lo scopo. In effetti questo capitolo si spiega, ed appare chiaro il suo scopo, quando si considera che insieme al cap. 26, “Accumulazione di capitale monetario”, sviluppa la critica della nostra scuola alle due scuole borghesi che si contesero la conduzione dell’economia politica nella fase cruciale della seconda metà del 19° secolo, caratterizzato da una profonda crisi di sovrapproduzione e scoppio della bolla – si direbbe oggi – finanziaria, e che di pari passo vide il cambiamento della Banca d’Inghilterra da banca privata a banca centrale, nel senso moderno del termine.

Per chiarire le implicazioni di questi eventi ed i provvedimenti presi nel tempo dalle autorità di governo della moneta, il relatore ha trattato per sommi capi gli elementi distintivi delle due scuole, quella metallista, che si rifaceva alla precedente dottrina bullionista, propugnata da lord Overstone, Joplin, Torrens, e quella bancaria, rappresentata all’epoca appunto da Tooke e da Fullarton. Era chiamato bullion la verga d’oro, nelle varie pezzature.

Per la teoria bullionista, nella sua prima forma rozza di stretta derivazione mercantilista, la ricchezza di una nazione era data dalla quantità di moneta e metalli preziosi da essa detenuta. Dal momento che la base monetaria dello Stato d’Inghilterra appariva scarsa, la soluzione proposta era il blocco delle importazioni e la crescita delle esportazioni.

Quello che ci importa trarre dalla storia monetaria è rendere evidente come dopo oltre un secolo di crisi, riprese e nuove crisi, grandi “novità” teoriche, sconvolgimenti e guerre, nascita e tramonto di potenze imperiali, alla fine le diverse scuole economiche che hanno guidato nella seconda metà del ventesimo secolo le politiche, economiche e finanziarie borghesi si riconducano all’antico dibattito sull’emissione di moneta e sul suo rapporto con il paradigma di riferimento, il valore aureo. Dopo un secolo e mezzo continua a vanificarsi ogni sforzo di eliminare il riferimento al demone incarnato nel giallo incorruttibile metallo, benché in sé il più duttile e malleabile, e il “nucleo teorico” del monetarismo borghese resta ancora incagliato su quello scoglio. Eppure è dato per scontato il fallimento del marxismo e della sua teoria del valore...

I turbamenti e le drammatiche crisi nella sfera della circolazione monetaria non sono certo una scoperta del ventesimo secolo: gli studi astratti e le indagini empiriche sulla natura ed i meccanismi della moneta, le innovazioni tecniche ed i provvedimenti di politica monetaria nascono essenzialmente dalla volontà di disciplinare il fenomeno, riottoso alle regole e, come tutto nel campo dell’umano operare, incomprensibile nelle sue radici.

Già alla fine del diciottesimo secolo in Inghilterra, per ovviare ad una grave crisi finanziaria era stata sospesa la convertibilità della sterlina con l’oro, in contrasto con la dottrina vigente. Nel 1810 fu costituito il Bullion Commitee perché indagasse sul deprezzamento della sterlina (nulla di nuovo sotto il sole). Le conseguenze dell’inconveribilità erano manifeste, dal punto di visto della politica economica: con questa decisione si potevano finanziarie senza limiti le spese dello Stato, aumentando a piacere l’accrescersi della domanda. Questioni di inizio ottocento, ma le politiche economiche del capitalismo vertono ancora su quegli argomenti.

Dal 1815 l’economia della Gran Bretagna entrò in una fase caratterizzata da recessioni e brevi periodi di espansione. Infine, anche per le pressioni della scuola bullionista, nel 1821 la convertibilità venne ristabilita. In breve l’emissione di banconote avrebbe dovuto essere regolata secondo la importazione e l’esportazione dei metalli preziosi, secondo cioè il corso dei cambi, vale a dire che la circolazione monetaria sarebbe stata regolata dalla quantità di oro detenuta. Questo sistema fu detto Currency principle.

Al pari dei tempi odierni, tutti gli sconvolgimenti dell’economia e le crisi dei mercati – ristretti allora, oggi alla scala mondiale – e soprattutto la loro prevenzione e i possibili rimedi, erano ricercati nella sfera della circolazione del denaro, cioè nella sfera esteriore ed astratta del processo della produzione capitalista.

Abbiamo già trattato, nel resoconto della riunione di gennaio, dell’influenza della scuola metallista, del Bank Charter Act, una legge promulgata nel 1844 dal Parlamento del Regno Unito, che attribuì il potere di emettere banconote in Inghilterra e in Galles alla sola Banca d’Inghilterra, che dovevano essere però garantite, in una determinata proporzione, da riserve di oro e d’argento per stabilizzare i flussi monetari; e della divisione poi in due dipartimenti, uno di emissione e l’altro con funzioni creditizie, per rendere separate le variazione delle riserve auree dai depositi, ed infine di come, sotto l’incalzare della crisi successiva, il Bank Act fosse celermente revocato: il vergognoso fallimento della scuola monetaria.

La scuola bancaria parte invece da un concetto diverso per il controllo dell’emissione di denaro, perché ipotizza che sia l’equilibrio tra lo sconto delle cambiali commerciali, misura dell’attività economica in atto, e l’emissione di banconote a regolare nel modo migliore la circolazione monetaria. Al rimborso del credito la moneta emessa sparisce dalla circolazione. Finché l’emissione delle banche si limita allo sconto delle cambiali commerciali, la sua azione induce stabilità nei mezzi di pagamento.

Il capitolo 28 è centrato sulla demolizione di questa teoria, il che sarà materia dei prossimi rapporti.
 

Comunismo negazione storica della Democrazia

Il rapporto presentato all’ultima riunione è stato la prosecuzione dei precedenti sul tema della democrazia ed allo stesso tempo è servito da introduzione ai prossimi, che tratteranno la nascita e lo sviluppo del movimento operaio in Italia fino alla costituzione del Partito Socialista nel 1892.

Facendo largo uso di citazioni tratte dai testi classici dei padri fondatori del marxismo si è ancora una volta messo in evidenza l’inconciliabilità tra comunismo e democrazia. La democrazia poggia sul presupposto della collaborazione, o quanto meno su una possibilità di coesistenza tra le varie classi sociali.

Il marxismo, come recita il Manifesto, afferma che «la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi». Questa affermazione, sebbene accettata dai borghesi, viene interpretata nel senso della necessità della ricerca di una armoniosa collaborazione fra le opposte classi sociali in vista della realizzazione di un preteso superiore bene comune. Non c’è politico che non parli del supremo “interesse dalla nazione”.

È quanto avevano sognato gli utopisti: il socialismo non era che l’espressione della verità, della ragione, della giustizia assolute; e poiché le verità assolute sono indipendenti dal tempo e dallo spazio, una volta scoperte, non importa da chi o dove, avrebbero per la loro stessa forza conquistato il mondo. Se la società umana non offriva che ingiustizie e disuguaglianze, la ragione poteva eliminarle attraverso la realizzazione di un nuovo e più perfetto sistema di ordinamento sociale, divulgato o attraverso l’opera di proselitismo, o addirittura, dove fosse stato possibile, con l’esempio di esperimenti modello.

Naturalmente si trattava di teorie infantili, le quali però non sono state mai irrise dal marxismo perché rappresentavano geniali embrioni di idee che affioravano ovunque; il manto fantastico che le avvolgeva era determinato esclusivamente da fattori materiali: all’immaturo sviluppo delle classi corrispondevano teorie immature. Le teorie del socialismo utopistico prima dell’affermarsi della dottrina marxista ebbero, indiscutibilmente, una portata rivoluzionaria, tramutandosi poi in reazionarie quanto continuarono ad affermare la possibilità di un passaggio al socialismo attraverso la progressiva evoluzione della società democratica borghese.

Nel corso del rapporto si è accennato anche alla scuola del cosiddetto “socialismo giuridico”, che pretendeva cambiare la società con delle “buone leggi”, come se gli ordinamenti giuridici non servissero che a sancire il dominio della classe al potere sulle altre, assoggettate e represse. Certo che anche le leggi possono avere carattere reazionario o “progressivo”, ma ciò dipende solo dallo sviluppo della lotta di classe di cui non sono che lo specchio.

Il marxismo, ripetiamo, non si limita al riconoscimento dell’esistenza della lotta di classe ma afferma che tale lotta sbocca inevitabilmente nella trasformazione rivoluzionaria della società, attraverso la presa violenta del potere ed il suo mantenimento con la dittatura del proletariato. Non parla di rivoluzione e di dittatura perché consideri “ingiusta” l’appropriazione da parte della borghesia del prodotto del lavoro degli operai, ma perché sono i rapporti di produzione stessi che conducono necessariamente a questo sbocco.

Condizione sociale indispensabile è che il proletariato prenda coscienza di essere classe con interessi storici propri. Prima il proletariato non esiste ancora propriamente come classe, se non in senso statistico; è classe in sé, non per sé. Il proletariato inizia ad affermarsi come classe per sé quando si organizza in coalizioni di lotta permanenti che superino i limiti della fabbrica e delle categorie, e se ne serve nella sua incessante lotta di difesa contro la classe padronale. Ma anche questo è insufficiente se non arriva a dotarsi del partito politico di classe

Scriveva Marx: «Se il primo scopo della resistenza non è stato che il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario (...) In questa lotta – vera guerra civile – si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia che si prospetta nell’immediato futuro. Una volta giunta a questo punto, l’associazione acquista un carattere politico». Ed Ancora: «Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta (...) questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica».

Il rapporto proseguiva poi riferendo come il movimento operaio cominciò in Italia a muovere i suoi primi passi e come progressivamente sia stato in grado di liberarsi di tutte le tare democratiche, ossia interclassiste, per giungere alla costituzione del partito.

La fase conclusiva della formazione del Partito Socialista italiano (1892) cade subito dopo la costituzione della Seconda Internazionale. A quella data il movimento operaio in Italia ed il suo partito socialista dal punto di vista della maturità politica non si trovano per niente in una posizione di arretratezza nei confronti dei confratelli europei. Ma la strada per la quale vi si giunse non era stata di certo né breve né, soprattutto, lineare avendo attraversato un lungo processo le cui origini ci riconducono più indietro dell’unità nazionale e fino agli anni precedenti il 1848.

È questo il periodo in cui si trovano le prime associazioni operaie che, sebbene con caratteristiche che sarebbe azzardato definire di classe, già superano o tentano di superare le antiche organizzazioni di tipo corporativo. Si assiste ad un proliferare di raggruppamenti, società operaie, associazioni di mutuo soccorso, embrioni del suo futuro organismo complesso ed unitario. Sarà attraverso una progressiva e vivace evoluzione che si assisterà al declino delle vecchie impostazioni di tipo filantropico ed al sorgere di nuove; il mutuo soccorso e il paternalismo borghese, agli inizi dominante, passa via via in secondo piano mentre prende campo la coscienza socialista e, necessariamente, la pratica della lotta di classe.

Questa evoluzione progressiva si configura dapprima nello scontro fra le correnti politiche borghesi per mantenere il loro predominio sulle classi lavoratrici: o escludendo dalla politica le associazioni operaie (liberali moderati) o tentando di farne la base di un partito democratico (mazziniani e poi radicali). In seguito si assiste alla battaglia per l’affermazione dell’autonomia politica del movimento operaio, che sente la necessità vitale di liberarsi dalla tutela dei partiti borghesi.

Le condizioni di arretratezza dell’Italia fecero sì che fosse l’anarchismo a rappresentare la prima forma di ribellione del movimento operaio contro la democrazia borghese ed il suo Stato. Ma l’anarchismo, negando il concetto stesso di partito di classe, doveva arrivare a negare la lotta di classe stessa, e, rifiutando perfino ogni forma di sue organizzazione, ricadere di fatto nell’interclassismo.

La svolta determinante nella storia del movimento operaio italiano è la costituzione del partito socialista. Con esso solo la lotta di classe, oltre che strumento di difesa, dichiara di voler volgersi alla emancipazione dal capitale.

I momenti essenziali di questo processo storico si rilevano in occasione dei congressi operai e vi ricevono sanzione. Possono essere indicati nelle quattro scissioni che coprono quattro decenni: 1861, scissione dei mazziniani dai moderati; 1871-72, scissione degli internazionalisti dai mazziniani; 1879-80, prima scissione dei socialisti dagli anarchici; 1891-92, seconda scissione dei socialisti dagli anarchici.

Queste quattro tappe dell’evoluzione del movimento operaio verso il socialismo dal nostro punto di vista non hanno tutte la medesima importanza: lo sviluppo determinante avviene, infatti, fra l’80 e il 90, nel momento in cui si afferma il concetto della lotta di classe. Sono le necessità della lotta di classe che modificano profondamente il tipo di organizzazione operaia determinando la sua trasformazione da mutuo soccorso a società di resistenza e di lotta per l’emancipazione. Quando il movimento operaio italiano raggiunse questo traguardo, esso in altri paesi d’Europa si era già da decenni affermato.
 

Attività sindacale

Infine abbiamo ascoltato il resoconto predisposto da un compagno sulle circostanze della lotta operaia e sulle attuali difficoltà di una sua pronta difesa dagli effetti della crisi in risposta ai continui peggioramenti imposti dal capitale.

Nelle altre pagine del giornale si documenta il notevole impegno del partito nello sforzo di comprensione del multiforme schieramento opportunista che dall’interno del movimento sindacale opera al blocco o alla dispersione della reazione proletaria e ad impedire il suo efficace riorganizzarsi. Si documentano anche i termini del nostro indirizzo che mai abbiamo mancato di rivolgere alla classe in ogni pur modesta manifestazione di mobilitazione cui lo schieramento sindacale del regime acconsente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3


Marx sui principi sociali del cristianesimo

Da parte della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e quindi di politici e sindacalisti borghesi che ad esse si richiamano, si parla, si è parlato e si parlerà ancora in futuro dei principi sociali del cristianesimo, soprattutto ora che la borghesia è convinta di aver celebrato i funerali del comunismo. Dato che la questione non è certo nuova leggiamo, senza commentare, un articolo apparso sulla Deutsche Brusseler Zeitung nel 1847, scritto da Marx ed Engels

    «I principi sociali del cristianesimo hanno giustificato la schiavitù antica, magnificato la servitù della gleba medievale, e in caso di necessità sanno anche difendere l’oppressione del proletariato, sia pure con una smorfia di compassione.
    «I principi sociali del cristianesimo predicano la necessità di una classe dominante e di una classe oppressa, e per quest’ultima non hanno altro che il pio desiderio che l’altra sia benefica.
    «I principi sociali del cristianesimo pongono in cielo il concistoriale compenso per tutte le infamie, e giustificano così la prosecuzione di queste infamie sulla terra.
    «I principi sociali del cristianesimo spiegano tutte le indegnità perpetrate dagli oppressori contro gli oppressi, o come la giusta punizione per il peccato originale e per i peccati di ciascuno, o come prove a cui il Signore, secondo la sua sapienza, condanna gli eletti.
    «I principi sociali del cristianesimo predicano la vigliaccheria, il disprezzo di se stessi, l’avvilimento, la sottomissione, l’umiltà, insomma tutte le caratteristiche della canaglia, mentre il proletariato, che non vuole lasciarsi trattare da canaglia, ha bisogno del suo coraggio, del suo orgoglio, della sua consapevolezza e della sua indipendenza, ancor più che del suo pane.
    «I principi sociali del cristianesimo sono ipocriti, e il proletariato è rivoluzionario».

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 4


VIVA LA LOTTA DI CLASSE !

    Qui di seguito riportiamo il testo del volantino che i nostri compagni hanno distribuito a Genova venerdì 24 settembre alla manifestazione per lo sciopero di quattro ore indetto dalla Fiom provinciale.
    La manifestazione è stata molto istruttiva circa il modo di agire dell’ala sinistra del sindacalismo di regime, la cui colonna portante è appunto la Fiom. Poco più di un migliaio i presenti, dei quali buona parte rappresentati da funzionari e delegati di quel sindacato. Era evidente la discrepanza fra l’atteggiamento che si fingeva euforico e combattivo di questi, e il disgusto dei pochi lavoratori presenti.
    La Fiom indice scioperi divisi per provincia e di 4 ore, del tutto inadeguati ad esprimere l’attuale necessità di mobilitazione della classe: questa, di fronte ad un brutale attacco del padronato sul piano più generale e con modalità in parte nuove, potrebbe esprimersi solo in un diverso tipo di azione sindacale rispetto alla ritualità imposta dai confederali negli scorsi decenni, e con un indirizzo di politica rivendicativa diametralmente opposto.
    Questo in parte spiega la scarsa adesione dei lavoratori sia allo sciopero sia, soprattutto, alla manifestazione, il che era proprio quanto la Fiom, in particolare a Genova, desiderava, per non urtare i dirigenti di Confindustria a convegno, evitare scontri con la forza pubblica dopo le notizie sulla crisi della Fincantieri, e, prevalentemente, per suffragare tra i lavoratori la convinzione che di più non si possa fare.
    La manifestazione è stata predisposta come un perfetto teatrino per i media. Il concentramento è stato convocato all’insolito orario delle 13,00 e tutto si è svolto all’interno dell’area “Expo”, per la ragione che lì si svolgeva un convegno di Confindustria. Una volta raggruppatisi i manifestanti, nel numero ritenuto sufficiente e non superabile, il corteo, con in testa il cordone organizzativo Fiom, si è mosso percorrendo non più di 500 metri, fino ad un corridoio di transenne, appositamente steso per far avvicinare solo una parte dei presenti agli industriali, e non andare oltre. La maggior parte di questi, e i pezzi grossi, nonostante le parti, Fiom, Confindustria e polizia, fossero evidentemente d’accordo, erano fatti passare da un altro ingresso poche decine di metri più avanti.
    Ben appostate, le telecamere filmavano quello che i vari telegiornali erano stati istruiti a definire in coro “momenti di tensione”, quando, al passaggio di qualche politico o industriale volavano fischi e insulti. I numeri esigui sulla piazza hanno consentito alla Fiom di recitare la parte secondo il copione.
    Non che sarebbe servito a nulla, ovviamente, se qualche operaio fosse riuscito ad arrivare a qualcuno dei ributtanti figuri che si vedeva passare davanti, ma ciò avrebbe rovinato lo show della Fiom, che si vuol dare la nomea di sindacato combattivo ma, sempre e soprattutto, responsabile.
    Sotto questo tipo di volgari e inconsistenti messe in scena preme però la reale, materiale e primordiale lotta di classe e non sarà con queste manfrine che se ne potrà contenere a lungo l’esplosione.
 

Lavoratori!

Il capitalismo vive sul lavoro dei suoi schiavi salariati perché solo esso è la fonte del plusvalore, che è il fine e la ragione della produzione capitalistica.

La pace sociale è il miglior ambiente per la realizzazione dei profitti. Ma a minacciare i profitti oggi, più che le lotte dei lavoratori, sono le due malattie fondamentali dell’economia capitalistica: il calo del saggio del profitto e la sovrapproduzione. Sono questi due fenomeni economici, e null’altro, le uniche e vere cause della crisi economica.

Per rallentare l’avanzamento di queste malattie, degenerative e incurabili, del capitalismo, la borghesia ha un solo rimedio: ottenere più plusvalore dallo sfruttamento della classe operaia. Per i lavoratori questo significa licenziamenti da un lato, aumento del tempo di lavoro e dell’intensità del lavoro, riduzione del salario dall’altro.

Nel capitalismo quindi la lotta di classe è ineliminabile. La borghesia, i suoi governi di destra e di sinistra, e il suo Stato, ne hanno piena consapevolezza. Fermo restando il mantenimento in efficienza di tutto un apparato repressivo, sempre pronto a entrare in funzione dove e quando necessario, la borghesia si adopera per rimediare a questo suo problema nell’unico senso possibile: cercando di contenere la lotta dei lavoratori entro limiti per essa accettabili.

A tal scopo i padroni si appoggiano ai sindacati di regime la cui opera fondamentale è nascondere l’inevitabilità della lotta, e quindi la necessità di prepararsi ad essa.

Nei passati decenni la borghesia ha potuto concedere delle migliorie economiche e normative al proletariato, sempre ottenute con la forza della lotta dalla classe operaia. Sulla base di questi miglioramenti i falsi partiti operai e i sindacati di regime lungo l’arco di due generazioni hanno diseducato la classe alla lotta. Hanno illuso che queste conquiste operaie – che chiamano diritti – fossero difendibili non con la stessa forza che li aveva conquistati ma facendo appello ad un quadro di collaborazione sociale, espresso in regole, leggi e relazioni sindacali compiacenti. Invece la borghesia, o cambia le regole in suo favore, altrimenti prima agisce e dopo adegua il quadro normativo. A punirla non sarà certo il suo Stato.

Esauritosi l’effetto rigeneratore delle distruzioni della guerra e maturate le contraddizioni di questo modo di produzione, la crisi storica del capitalismo inevitabile si è ripresentata, più estesa e più profonda.

L’attacco al contratto nazionale

La borghesia, per tenere in piedi la sua economia, da anni ha iniziato a revocare, una ad una, tutte le conquiste delle lotte passate. Ora è il turno del contratto nazionale. Gli industriali puntano, attraverso deroghe e contratti di settore, ad avere solo contratti aziendali. L’obiettivo è dividere ulteriormente i lavoratori delle poche aziende in cui hanno la forza per difendersi, dagli altri.

Questo attacco sta avvenendo col dichiarato appoggio di CISL e UIL, e con la passiva complicità della CGIL, che ha negato ai metalmeccanici la solidarietà delle altre categorie, ed anzi, al referendum di Pomigliano, ha dato di fatto indicazione analoga a quella di CISL e UIL! Se è vero che sono tutti i lavoratori ad essere colpiti da questo attacco, allora tutti i lavoratori devono essere chiamati allo sciopero!

Ogni volta che gli operai disertano le galere aziendali, si uniscono nelle strade e nelle piazze, questa è già in sé una vittoria. Ma tutti i lavoratori sanno – e disfattismo non è affermarlo ma tacerlo – che 4 ore di sciopero non hanno mai fermato l’attacco degli industriali, e a maggior ragione non lo fermeranno nemmeno questa volta,.

La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici anticipa quello delle altre categorie. Di fronte alla gravità di questa battaglia la lotta necessaria è lo sciopero generale e ad oltranza di tutte le categorie.

Il sindacalismo di regime – anche quello non dichiaratamente complice dei padroni – sostiene che la classe operaia oggi è troppo debole per condurre una simile battaglia. Questo, purtroppo, oggi è vero. Ma il sindacalismo di regime, che è il risultato, il prodotto consolidato di questa non recente debolezza, oggi è diventato il principale fattore che questa debolezza ribadisce e mantiene. Presentando una manciata di ore di sciopero come una mobilitazione adeguata alla gravità del momento i bonzi sindacali non lavorano per superare questo stato di sfiducia ma lo consolidano! La sfiducia nella classe operaia che è oggi innanzitutto il risultato di decenni di sindacalismo concertativo.

La necessità del sindacato di classe

Scioperi ad oltranza, estesi il più possibile al di sopra delle aziende e delle categorie, quali sarebbero oggi necessari, non si improvvisano: vanno preparati, organizzati, propagandati e spiegati ai lavoratori. Per fare questo serve una organizzazione sindacale che imposti la sua azione, a partire dalle singole lotte sul posto di lavoro, orientandola alla preparazione di questo scontro generale; un’organizzazione che ricostruisca la fiducia dei lavoratori nel metodo della lotta, non nei professionisti della trattativa e nelle pratiche legali. Questa organizzazione, che oggi manca, è il sindacato di classe.

Senza la loro organizzazione i lavoratori sono disarmati di fronte agli attacchi dei padroni. Peggio: sono prigionieri di organizzazioni che immobilizzano le energie a disposizione, tenendole chiuse in confini sempre più ristretti, della categoria, dell’azienda, della fabbrica, del reparto, della vertenza individuale.

Il sindacato di classe – confederazione unica per tutti i lavoratori – persegue l’obiettivo di far esprimere le energie di tutta la classe in una lotta generale. In senso opposto si muove il sindacalismo di regime: la combattività dei lavoratori – dove c’è – è esaurita in lotte condotte quasi esclusivamente entro l’azienda, se non entro uno dei suoi stabilimenti. Ad ogni gruppo di lavoratori i sindacalisti di regime non indicano di ricercare l’unione con gli altri lavoratori in lotta, ma di appellarsi agli Enti Locali, consolidandone l’isolamento, spegnendo la volontà di lotta nei corridoi dei palazzi.

Per le grandi aziende, i sindacati di regime chiamano a lottare gli operai per l’incontro ministeriale, nel quale invocare il finanziamento statale a sostegno di quella determinata industria (auto, cantieristica navale, elettrodomestici, ecc.). I lavoratori sono chiamati allo sciopero a sostegno del proprio padrone – che ben si augura la loro vittoria e l’apertura del portafoglio ministeriale – e di fatto sono messi in competizione coi lavoratori degli altri settori, in una lotta per chi riesce ad accaparrare più aiuti statali. Il tutto, naturalmente, ottenendo il disgusto e l’allontanamento dalla lotta sindacale di quei lavoratori – la maggioranza – le cui aziende mai riceveranno alcun aiuto dallo Stato. Il tutto accettando la competizione fra i lavoratori italiani e quelli degli altri paesi, in nome della "difesa dell’industria nazionale", o ancora più meschinamente "cittadina". Tutto questo sindacalismo ha diviso la classe mondiale dei lavoratori invece di unirla ed ha avvilito la fiera e vitale fiducia nella sua forza e nella sua autonoma prospettiva sociale, che va al di sopra e oltre le sorti della propria azienda e del proprio paese e della stessa economia capitalistica, in quanto ovunque la classe che lavora non ha bisogno dei borghesi e dei padroni !

La strada per la ricostruzione del Sindacato di Classe passa per la riorganizzazione fuori e contro tutto questo sindacalismo anti-operaio, che accomuna CISL-UIL-UGL, ed anche la CGIL, come trent’anni di sconfitte operaie dimostrano, e la sua condotta nella vicenda Pomigliano-FIAT ha confermato in modo evidente.

Gli operai metalmeccanici sono stati e saranno uno dei reparti più combattivi della classe operaia. Ma fino a quando resteranno dentro la CGIL la loro combattività verrà isolata, dissipata, capovolta.

La strada per la ricostruzione dell’organizzazione di lotta dei lavoratori può invece passare per il rafforzamento del Sindacalismo di Base (USB, CUB, Slai Cobas) che da anni lotta, fra mille difficoltà, contro i padroni e tutti i Sindacati di Regime. L’apporto di nuove energie operaie consentirebbe di vincere le reticenze delle attuali dirigenze all’unificazione delle diverse organizzazioni sindacali di base in un organismo unico. Questo sarebbe finalmente un’alternativa concreta ai Sindacati di Regime, capace di attrarre le forze migliori dei lavoratori anche delle altre categorie, e rappresenterebbe un passo in avanti decisivo per il sempre più necessario ritorno della classe operaia alle sue grandi tradizioni di impegno e di battaglia per la sua valida difesa oggi, per la sua piena emancipazione sociale domani.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dalla Francia
Per il ritiro della ‘riforma’ delle pensioni: Sciopero generale !

Lavoratori,

Vi ricordate, gli scioperi di novembre e dicembre 1995 costrinsero il governo Juppé a ritirare la sua legge di riforma delle pensioni nel settore pubblico. Le manifestazioni e gli scioperi del febbraio-marzo 2006 hanno costretto il governo Villepin a annullare la revisione della legge sul Contratto di Primo impiego, che era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

Voi potete oggi costringere la borghesia e il suo governo a ritirare la proposta di riforma delle pensioni, ma per farlo occorre mettere in campo mezzi adeguati, chiamare cioè tutti i lavoratori allo Sciopero generale a tempo indeterminato!

Questa sedicente riforma non sta in piedi. Nel 1993 il governo Balladour ha fatto innalzare gli anni di anzianità necessari da 37,5 a 40. Oggi la borghesia, con la complicità dei partiti di “sinistra” e dei sindacati collaborazionisti, vuole portare l’età della pensione a 62 anni, anche con 40 anni di anzianità; domani chiederà di salire a 65 anni e dopodomani, se nessuno la fermerà, chiederà un ulteriore aumento a 67 anni, come hanno fatto in Italia, in Grecia...

Il capitalismo è un sistema economico moribondo e parassitario. È potuto sopravvivere fino ad oggi grazie alle tragiche distruzioni di merci e di uomini causate da due guerre mondiali e da decine di guerre locali. Il ciclo di sviluppo dell’economia iniziato dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1946, si è concluso nel 1974: da allora le crisi di sovrapproduzione si succedono ogni 5-6 anni. La borghesia, per sopravvivere e allontanare lo spettro di una nuova crisi tipo quella del 1929, non ha altre soluzioni che quella di spremervi al massimo: riduzione dello Stato sociale, aumento della precarietà del lavoro, soppressione del minimo salariale, mantenimento di un tasso elevato di disoccupazione, ricorso al lavoro nero, ecc.

Il capitalismo riposa sullo sfruttamento del lavoro salariato; per far questo è costretto ad organizzare il lavoro sociale su una scala sempre più grande facendo ricorso ad una tecnica sempre più sofisticata per aumentare sempre di più la produttività del lavoro. Così facendo esso si scava la fossa: questa organizzazione collettiva del lavoro, base economica della società comunista, entra in contraddizione con i rapporti di produzione mercantile del capitalismo: il salariato e il capitale. Questo si traduce nella caduta tendenziale del saggio di profitto. Dal 1974 al 2007 la crescita annua media della produzione industriale è stata in Francia del 1,3% contro il 6,2% del periodo che va dal 1952 al 1974.

Per compensare questa caduta del tasso di profitto ed evitare l’inabissarsi del suo sistema economico la borghesia è condotta a far pressione su di voi con tutti i mezzi. È sulla vostra pelle che cerca di salvare il suo sistema economico nella tempesta. E per questo non arretrerà davanti a niente. E tanto di più se non incontrerà alcuna resistenza.

Bisogna spiegare ai vostri compagni di lavoro che non sono ancora pronti a muoversi, perché hanno paura di aggravare la situazione o perché credono alle menzogne del governo, che è al contrario restando fermi che la situazione andrà ad aggravarsi.

Il deficit delle Casse Pensioni-CNAV, a seguito dei fallimenti e licenziamenti della crisi, nel 2009 era di 8,1 miliardi di euro. Una cifra molto inferiore ai profitti. Sempre nel 2009, nel pieno della recessione, le sole 40 maggiori imprese quotate in borsa hanno “denunciato” 47 miliardi di profitti; di questi, 35,5 miliardi sono stati intascati da quello strato di parassiti che sono gli azionisti. 17 miliardi costano ogni anno i nuovi alleggerimenti fiscali concessi alla grande borghesia, senza parlare delle altre regalie.

Vi dovete preparare moralmente e materialmente ad affrontare la borghesia: è ineludibile. Ma per farlo non potete andare alla battaglia con dei sindacati che vi tradiscono ad ogni occasione. Questi sindacati corporativi, pronti alla collaborazione di classe, vi stanno al fianco solo per impedire che vi organizziate, al fine di evitare ogni centralizzazione delle lotte ed ogni radicalizzazione del movimento. Dovete impegnarvi per la creazione di un vero sindacato di classe, che cercherà al contrario di estendere il più possibile il movimento ed unificare le lotte.

La soluzione è nelle vostre mani. Siete voi che producete tutte le ricchezze di questa società e che rappresentate l’avvenire.

L’organizzazione sindacale non basta, perché prima o poi sarete costretti a rovesciare con la forza la borghesia ed espropriarla al fine di permettere il libero sviluppo della società comunista. Per questo occorre che la classe operaia torni ad inquadrarsi nel suo partito, che si tiene fortemente ancorato ai principi del comunismo rivoluzionario: il Partito Comunista Internazionale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Anche in Spagna “riforma del lavoro” significa peggiorare le condizioni della classe operaia
 

Con il pretesto che ciò porterà “nuovi posti di lavoro” il governo a guida PSOE si sta preparando uno dei peggiori attacchi ai lavoratori da quando è tornata la democrazia in Spagna. Questo dimostra ancora una volta che qualunque sia il governo capitalista di turno esso non è altro che il comitato a difesa degli interessi comuni di tutta la classe borghese, garantendo con il terrore e la repressione il funzionamento di questa decrepita società.

Questa ultima “riforma del lavoro” ha concesso quasi tutto quanto chiedeva il padronato, dimostrando che è con i governi del Psoe che si applicano con più rigore le misure antioperaie.

Si rende ancora più facile la possibilità di licenziare, essendo sufficiente che le imprese ne dimostrino una minima “ragionevolezza”. Solo avanzando qualche difficoltà economica o per un pretesto organizzativo il licenziamento si realizzerà senza alcun problema e con piena copertura legale.

Il licenziamento dei lavoratori fissi prevede da oggi una liquidazione calcolata col salario di 20 giorni ogni anno di anzianità, mentre precedentemente era di 45 giorni. Inoltre, a partire dal 2015 le imprese dovranno pagare solo 12 giorni dei 20 previsti per legge, e versare i restanti 8 ad un Fondo di Garanzia Salariale, finanziato con il concorso dei salariati.

Come misura di compensazione acquisteranno la condizione di “fissi” quei lavoratori che in un periodo di 30 mesi siano stati occupati in una impresa per un periodo superiore a 24 mesi, per una o più mansioni, con due o più contratti temporanei, e sia direttamente sia tramite Agenzie per il Lavoro Temporaneo (altro regalo fatto al padronato dal governo di Felipe González). In pratica questo non si otterrà quasi mai, perché è mantenuta inalterata la modalità del “licenziamento espresso”, cioè la facoltà del capitalista di estinguere il contratto in forma immediata e unilaterale.

Rispetto alla mobilità territoriale collettiva la nuova norma del lavoro riduce il periodo di “consultazione” con i rappresentanti dei lavoratori ad un arco di 15 giorni non superabili. Tenuto conto del coraggio con il quale detti “rappresentanti” lottano per i loro iscritti, tutto si pone a favore delle imprese anche sotto questo aspetto.

Lo stesso può dirsi delle modifiche “sostanziali” sulle condizione di lavoro e sull’orario: in entrambi i casi si ammette la possibilità di ricorrere ad un arbitrato o ad una mediazione che, anche visti i precedenti, solo possono farsi a beneficio della classe imprenditoriale.

La riforma consente inoltre al padronato di sottrarsi all’applicazione di quanto già concordato e non corrispondere gli aumenti salariali stabiliti nei contratti collettivi in essere. Questo si chiama ora “accordo di non applicazione salariale”.

Sono anche all’ordine del giorno i cosiddetti Expedientes de Regulación de Empleo (Ere), sul tipo dell’italico istituto della mobilità: sarà l’insieme degli occupati che pagherà i salari che hanno cessato di percepire i lavoratori iscritti all’Ere. Per contro le imprese beneficeranno di una riduzione dell’80% per contributi ordinari da versare alla Sicurezza Sociale se manterranno ancora per un anno il lavoratore; poi potranno licenziarlo senza problemi.

Le Imprese di Lavoro Temporaneo con questa riforma del lavoro potranno accedere a settori di attività che prima erano loro preclusi, per ragioni di sicurezza e di igiene del lavoro, col che la precarietà sarà generalizzata in tutti i settori produttivi. Potranno impiegarsi anche all’interno delle Amministrazioni Pubbliche: alla grande varietà di contratti a termine, precariato con ogni forma di contratto possibile, si verranno ad aggiungere anche i dipendenti delle Imprese a carattere temporaneo. Davvero una bella sfida per “l’impiego di qualità”, per utilizzare la definizione imbecille tanto di moda negli ambienti sindacali e progressisti.

Contro tutto questo, e quello che si sta preparando (pensioni, età di congedo, tagli alla sanità, all’insegnamento...), i sindacati del regime (UGT-CCOO) hanno convocato per il 29 settembre un finto sciopero generale, in realtà non al fine di seppellire la riforma del lavoro, ma solo per prendere il polso all’insieme della classe operaia di fronte all’approfondirsi delle misure antiproletarie che si profilano. Lo svolgersi convenzionale dello sciopero, con il suo preavviso e i suoi servizi minimi contrattati in quasi tutti i settori, ha ancora una volta provocato fra i lavoratori l’impressione che con lo sciopero non si ottiene niente. Gli scontri dei picchetti con la polizia sono stati solo occasionali e non si sono generalizzati.

Lo scontento è però evidente. E il totale discredito di CCOO-UGT fra i lavoratori, che per questo motivo in maggioranza non hanno aderito allo sciopero. Sono questi sindacati di regime che quotidianamente si confermano volontarie cinghie di trasmissione degli interessi padronali in seno alla classe operaia. Ne sia un ultimo esempio l’accordo firmato con il padronato lo scorso febbraio che garantisce la pace sociale ed accetta salari miserabili nei contratti collettivi per i prossimi tre anni.

Ma, nonostante l’apatia e la rassegnazione dominanti, si succedono delle esplosioni che anticipano lotte future e future forme di organizzazione sindacale indipendente dal padronato e dallo Stato capitalista.

Lo sciopero spontaneo dei metallurgici indetto a Vigo, in Galizia, la settimana scorsa a seguito di un incidente mortale in un arsenale di nuovo ha lasciato da parte CCOO-UGT. Più di 2.000 lavoratori hanno abbandonato il posto di lavoro e manifestato per le strade di Vigo per denunciare il terrorismo padronale. CCOO e UGT avevano proposto uno sciopero parziale (sicuramente all’ora della mensa, come sono soliti) ma le loro proposte non sono state seguite. Nel ricordo recente dei lavoratori erano gli sforzi di CCOO-UGT per disarticolare la scorso sciopero dei metallurgici nella provincia di Pontevedra, sciopero che ha posto i metallurgici di questa regione alla testa del proletariato più combattivo.

Ugualmente è risultato esemplare ciò che è successo ai minatori del Leon, quando i bonzi delle CCOO-UGT sono stati espulsi dalla loro manifestazione al grido di traditori. La generalizzazione, il coordinamento e l’organizzazione di questi ed altri episodi similari darà il via al futuro vero sindacalismo di classe, strumento della lotta della classe operaia senza il quale si presenta disarmata al quotidiano combattimento per la sopravvivenza di fronte al capitale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


I padroni disdicono il contratto dei metalmeccanici con l’accordo di FIM e UILM e la passiva complicità della FIOM

La disdetta da parte di Federmeccanica del contratto nazionale metalmeccanici del 2008 è un duro attacco a tutta la classe lavoratrice. Gli industriali mirano a distruggere il contratto nazionale di categoria, attraverso deroghe e contratti di settore, fino ad avere solo contratti aziendali. L’obiettivo è dividere ulteriormente i lavoratori delle poche aziende in cui hanno la forza per difendersi, dagli altri, costretti ad accettare condizioni peggiori.

La devastante competizione al ribasso, già in atto da anni fra i lavoratori di paesi diversi, e di cui la vicenda FIAT – in cui gli operai di Pomigliano e Mirafiori sono stati messi in concorrenza con quelli polacchi e serbi – è stato solo l’ultimo episodio, verrà in questo modo a dividere ed immiserire i lavoratori nello stesso paese.

Il referendum di Pomigliano era il primo atto di questo attacco generale a tutta la classe lavoratrice: con la vicenda FIAT il padronato italiano ha tastato il terreno. Verificata la debolezza della reazione operaia, in realtà non organizzata da alcun sindacato, adesso i padroni affondano il colpo.

Non è sufficiente dire che l’attacco stia riuscendo grazie ai sindacati apertamente complici FIM e UILM. Queste organizzazioni non sono mai state alleate degli operai, ma dei nemici da combattere. La FIOM ha sempre cercato l’unità con questi sindacati e, nonostante quanto sta accadendo, ancora si muove unitariamente con essi a livello aziendale, ad esempio in Fincantieri, Ilva, Indesit, Marcegaglia, ecc. La rottura di questa unità, dove e quando è avvenuta, è sempre stata una scelta di FIM e UILM, subìta dalla FIOM e descritta ai suoi iscritti e agli operai come un fatto negativo e dannoso. Se ciò che dicono e fanno FIM e UILM conta ancora qualcosa fra gli operai, ciò va quindi imputato innanzitutto alla FIOM che ha dato sempre un margine di credito a queste organizzazioni. In realtà FIM e UILM fra i metalmeccanici hanno poca influenza e una vera lotta non potrebbe non travolgerle e spazzarle via.

Se la FIOM non ha mai dato ai lavoratori indicazione di combattere fino in fondo questi sindacati è perché essi, lungi dall’essere dannosi, sono per essa di cruciale utilità. È la spudorata alleanza fra padroni e FIM-UILM, infatti, ad avvalorare la FIOM a molti lavoratori, e non la sua azione sindacale: se non potesse addossare il suo fallimento a questi due suoi compari si mostrerebbe chiaramente in tutta la sua inconsistenza.

Se FIM e UILM hanno apertamente appoggiato l’attacco del padronato, che cosa ha fatto la FIOM per opporvisi, dal referendum di Pomigliano ad oggi?

La FIOM ha denunciato il referendum di Pomigliano come un attacco a tutti i lavoratori. Ma la conseguente azione avrebbe dovuto essere la mobilitazione di tutta la classe lavoratrice. La FIOM invece non ha né fatto appello alla CGIL per la proclamazione dello sciopero generale di tutte le categorie, né proclamato lo sciopero generale dei metalmeccanici, nemmeno infine ha mobilitato unitariamente gli operai di tutto il gruppo FIAT (se non per 4 ore di sciopero per il premio di produttività). Ha invece fatto ricorso a uno stillicidio di scioperi stabilimento per stabilimento, come a Melfi dove, dopo 40 ore di sciopero a luglio, il risultato è stato il logoramento dei lavoratori che infine hanno disertato in massa l’ultimo sciopero in difesa dei tre licenziati.

La FIOM così ha agito nel senso esattamente opposto a quello necessario: non ha unito le lotte in uno sciopero il più esteso possibile, per un comune obiettivo quanto mai palese, ma le ha mantenute divise azienda per azienda, depotenziando le energie di cui disponeva la categoria, esaurendole, lì dove erano presenti, nel vicolo cieco della lotta dentro la galera aziendale.

Peggio: la FIOM nemmeno ha spiegato e propagandato fra i lavoratori la necessità di ricorrere allo sciopero generale. Di fronte alla FIAT che marciava a tappe forzate seguendo il suo piano di attacco ai lavoratori, seguita dal resto degli industriali, la dirigenza FIOM si è limitata a proclamare una manifestazione (nemmeno uno sciopero!) per due mesi e mezzo dopo!

Nemmeno ora che il previsto attacco generale a tutta la classe operaia si è concretizzato con la disdetta del contratto metalmeccanico, la FIOM cambia linea: si rifiuta di organizzare un vero sciopero generale, non si appella alla CGIL per estenderlo alle altre categorie, e annuncia 4 ore di fermata "articolate territorialmente". Nel frattempo continua con gli scioperi per stabilimento, come alla Sevel di Atessa e alla Piaggio.

Naturalmente i bonzi sindacali giustificheranno sempre la loro reticenza a organizzare veri scioperi col timore del loro fallimento. Che questo timore sia fondato o meno, a seconda delle situazioni, ciò che conta e che dimostra le intenzioni dei dirigenti FIOM è il fatto che essi non facciano ricorso ad alcuna simile giustificazione per spiegare perché non organizzano una vera mobilitazione, per il semplice fatto che di questa mobilitazione nemmeno ne parlano!

Si fa invece l’esatto contrario: i padroni accusano la FIOM di essere un sindacato conflittuale; la FIOM respinge l’accusa al mittente dicendo essere Marchionne a volere la "lotta di classe" – non certo loro! – mentre essa è per il ritorno al precedente registro di relazioni sindacali fatto di trattative e qualche sciopero di poche ore lì dove serve, come se con esso la classe operaia non abbia subìto da trent’anni ad oggi altro che sconfitte!

Accusando Marchionne e Federmeccanica di "volere lo scontro", di scendere sul "piano della forza", la FIOM non mette in difficoltà i padroni – che sanno bene quel che fanno – ma quei lavoratori disposti a portarsi finalmente sul piano dello scontro aperto, avvilendo la loro combattività affogata nella melma dei sermoni sul rispetto delle "regole democratiche".

Si capisce quindi che se gli industriali accusano la FIOM di "conflittualità" non è certo perché sono così sciocchi da credere di liberarsi in questo modo del sindacato con più iscritti fra i metalmeccanici. Invece in questo modo avvalorano la FIOM fra gli operai, e lo fanno perché ben conoscono e apprezzano il suo lavoro insostituibile nell’impedire che i lavoratori si organizzino per condurre delle vere lotte, incanalando le lotte in scioperi finti e perdenti, fatti di 4 ore, divisi per regioni, aziende e stabilimenti, e di innocue manifestazioni con malcelati fini elettorali.

La persecuzione contro alcuni iscritti FIOM, con denunce e licenziamenti (Fincantieri, FIAT), non contraddice affatto questo giudizio. Qualche atteggiamento più conflittuale "in fabbrica" è funzionale a evitare che i lavoratori più combattivi sentano la necessità di organizzarsi al di sopra della fabbrica e dell’azienda. La massa dei lavoratori vede solo la FIOM in fabbrica, e in essa non trovano un organismo che unisca le loro lotte con quelle dei lavoratori delle altre aziende, ma che le mantiene il più possibile divise e compartimentate.

Ugualmente la FIOM terrà sempre i suoi iscritti rinchiusi dentro la CGIL, nonostante questa li isoli dagli altri lavoratori e si muova contro di essi, come a Pomigliano dove di fatto ha dato indicazione analoga a quella di CISL e UIL.

Compagni, operai, lavoratori!

La demolizione del contratto nazionale di categoria, unitamente a quello dello "Statuto dei lavoratori", non sono un fatto inatteso ma in atto da anni, e con l’avallo della stessa FIOM, che di fatto ha accettato lo sviluppo della contrattazione integrativa aziendale, i contratti d’area, i premi produttività, il ricorso agli appalti, la flessibilità del lavoro. La disdetta del contratto dei metalmeccanici e il "Collegato lavoro" di prossima approvazione parlamentare segnano un passo ulteriore in questa direzione, e molto probabilmente un passo decisivo.

La FIOM si appresta a seguire quanto ha fatto in tutte le precedenti tappe che hanno portato a questo punto, mettendo in piedi una finta opposizione per poi finire per accettare come dato di fatto la nuova sconfitta. Che la dirigenza FIOM pretenda di dare a bere che 4 ore di sciopero e una manifestazione possano servire a respingere un simile attacco è grottesco!

La FIOM non è alternativa a FIM e UILM ma complementare ad esse. Non è un sindacato di classe e conflittuale, ma l’ala sinistra dei sindacati concertativi e di regime. I suoi dirigenti non sono organizzatori della lotta operaia ma professionisti del tavolo delle trattative al quale pietiscono d’essere riammessi, presentando quali credenziali il curriculum di migliori calmieratori della combattività operaia, e paventando ai padroni il rischio dell’esplosione della vera lotta operaia in assenza di questo loro lavoro. I padroni non hanno certo bisogno che la FIOM spieghi loro questo. Lo sanno molto bene e se la tengono fuori dal tavolo delle trattative è perché sanno che anche così essa mai organizzerà vere lotte e che quindi, di fronte a un attacco della durezza di quello attuale e di quelli futuri ancora più pesanti, la FIOM svolge meglio la sua funzione fuori, non dentro, la trattativa.

Di fronte all’attuale attacco la sola mobilitazione della durezza necessaria sarebbe lo sciopero generale e ad oltranza. Ma un simile scontro non si improvvisa: va preparato, organizzato, propagandato e spiegato ai lavoratori. È frutto di una recuperata fiducia nelle proprie forze e nel mezzo della lotta. E soprattutto è possibile solo con un’organizzazione di lavoratori nata e cresciuta per la lotta: con un sindacato di classe.

Questo è il problema fondamentale non eludibile della lotta operaia e finché non sarà affrontato e risolto non vi potranno essere nemmeno potenziali vittorie per i lavoratori, ma solo sconfitte certe.