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"Il Partito Comunista"   n° 351 - gennaio-febbraio 2012 [.pdf]
PAGINA 1 La Siria fra scontro delle classi e brame imperialiste: Storia di una terra antica - Dati economici di base - Il petrolio - Le classi lavoratrici (Segue al prossimo numero).
Roma, 27 gennaio - Per la difesa intransigente della classe operaia - Un fronte unico dal basso di tutti i lavoratori - Per la rinascita del sindacato di classe - La vera salvezza è nella lotta contro il capitalismo.
Dalle piramidi ai NO-TAV.
PAGINA 2 Riunione generale di lavoro a Sarzana, 21-22 gennaio 2012 [RG112]: Corso della crisi - La questione militare: 2a guerra di indipendenza italiana - Siria: elementi per una valutazione - Il riarmo degli Stati - Il movimento operaio negli Stati Uniti - Attività sindacale - La questione della democrazia del movimento in Italia - Origine dei sindacati in Italia (Segue al prossimo numero).
PAGINA 3 – Ripartire da Livorno 1921 - Per un partito che non muore mai.
– Nazional-comunisti e nazional-socialisti contro i siderurgici in Grecia.
PAGINA 4 Vicenda Fiat sull’arco di un secolo: Il fallimento del sindacalismo di regime.

 
 
 
 
 

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La Siria fra scontro delle classi e brame imperialiste

A partire dal marzo dello scorso anno, in numerose città siriane tra cui Hama, Der’a, Homs, Baniyas, Jable, Deir el-Zor, Lattakia, Al-Rastan, Qatana, ed anche a Douma, un sobborgo della capitale Damasco, si sono svolte numerose manifestazioni di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Asad, dimostrazioni che in alcune città si sono trasformate in questi ultimi mesi in scontro armato.

Il regime ha da subito accusato “forze oscure” manovrate da cospiratori stranieri di voler destabilizzare il paese e non ha esitato fin dalle prime settimane a ricorrere all’esercito contro i dimostranti.

Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio delle manifestazioni ad oggi – febbraio 2012 – in più di 7 mila avrebbero perso la vita negli scontri, ma queste informazioni vanno prese con cautela perché la propaganda di guerra agisce incontrastata sui due fronti ed è difficile avere notizie certe.

Il complesso quadro siriano si articola fra cause interne e le determinazioni che hanno mosso il colonialismo e muovono l’imperialismo moderno.

STORIA DI UNA TERRA ANTICA

Nel 1918 le truppe inglesi occuparono la Siria, ponendo fine alla dominazione turca e sostennero la nomina al trono dell’emiro Feisal, loro alleato. Ma i francesi ben presto dispersero le deboli forze di Feisal e assunsero il controllo del paese, sancito nel 1922 sotto forma di mandato della Società delle Nazioni. Il mandato durò fino alla sua indipendenza, riconosciuta nel 1941 ma attuata solo nel 1946, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo la Francia fece leva proprio sulle differenze etniche e religiose, in particolare sulle minoranze dei cristiani, degli alawiti e dei drusi, per garantirsi un facile e ben gestibile controllo sulla maggioranza sunnita nel paese, affidando a queste minoranze i gradi inferiori dell’esercito come gli inglesi avevano fatto in India con i Sikh. L’antico precetto romano del “divide et impera” era ed è ancora valido e applicato.

Nel periodo post-bellico si sono susseguiti vari colpi di Stato. Nel 1963 si impadronì del potere il partito Baath, di fatto il clan della famiglia Assad, che lo detiene tuttora, e proclamò lo stato di emergenza che impose forti limiti alle libertà civili e politiche della popolazione e attribuiva ampi e discrezionali poteri a esercito e polizia.

Le divisioni fra i gruppi sociali non si sono mai ricomposte, anzi si sono esasperate e l’onda della crisi imperialista, col rapido decadere delle condizioni di vita delle classi inferiori, è stato l’innesco della miccia che ha incendiato anche la Siria.

La minoranza alawita – che oltretutto sull’onda di deboli privatizzazioni si è ultimamente impadronita di vitali pezzi dell’apparato produttivo siriano – ha ben chiaro che non è più possibile, se mai lo è stato, un incruento trapasso di poteri alla maggioranza, cioè, nel contesto siriano, ai sunniti. Gli alawiti, insieme ai cristiani, detengono il potere economico e quello militare, in cui sono inseriti in tutti i ranghi. Molti ritengono che per loro mantenere il potere statale sia ormai una lotta per la vita o la morte.

Nella lettura marxista della storia sappiamo che, di solito, dietro ogni paravento religioso si nascondono interessi economici di classe. Si tratta di accertare questo nel caso della Siria, se quelle divisioni rappresentino ancora reali opposizioni sociali e quali. Intanto è però certo che tutto il proletariato di Siria trova dei nemici nei rappresentanti di tutti i gruppi nazionali ed in questo, unici, ci distinguiamo fra la massa della democratica pseudo sinistra internazionale.

DATI ECONOMICI DI BASE

Attualmente gli abitanti in Siria sono circa 22 milioni, il 35% della popolazione ha meno di 14 anni. La popolazione urbana rappresenta il 56% del totale e cresce al 2,5% annuo. Le città principali sono Aleppo con circa tre milioni di abitanti, Damasco, la capitale, con due milioni e mezzo, Homs con un milione e trecentomila abitanti e Hama con 850.000.

I musulmani sunniti sono circa il 74%, gli altri musulmani (inclusi gli alawiti e i drusi) sono il 16%, i cristiani il 10%, ci sono poi comunità ebraiche a Damasco, Al Qamishli e Aleppo.

Il prodotto interno lordo, secondo stime del 2010, deriva dal settore agricolo per il 17%; dall’industria per il 27%; dai servizi per il 56%. I quasi sei milioni di occupati sono distribuiti per il 30% circa nell’agricoltura, il 17% nell’industria e il 53% nei servizi.

La parte del suolo ove è possibile l’agricoltura è quella prossima ai due principali fiumi: l’Oronte, che discende dai monti del Libano e corre verso Nord parallelo alla costa bagnando Homs e Hama, e l’Eufrate, che attraversa l’interno, per cui solo il 20% della terra può essere irrigato e la più parte è territorio montagnoso e desertico. Il settore primario impiega una rilevante quota della forza lavoro; contribuisce ad un 10% circa alle esportazioni, garantisce l’approvvigionamento delle materie necessarie per l’industria tessile, una delle più importanti del paese, e partecipa alla sussistenza alimentare della popolazione. Coltura strategica per il Paese è il cotone, con circa il 25% del totale delle esportazioni agricole, ma la cui produzione nel 2010 è diminuita di oltre il 25% ed è la metà rispetto a 2 anni fa. Questa produzione richiede grandi quantità di acqua e dunque aumenta il problema delle risorse idriche del paese.

Il petrolio, con una produzione di circa 400.000 barili al giorno costituisce il 68% del totale delle esportazioni. Il resto delle esportazioni è costituito da prodotti tessili 7%; frutta e verdura 6%; cotone grezzo.

Il tasso di disoccupazione ufficiale tra i giovani dai 15 ai 24 anni è del 20%, ma è ben più elevato quello reale, e tende all’aumento mentre l’economia non è in grado di creare nuovi posti di lavoro.

Nel corso del 2011 la crisi dell’economia siriana ha subito una forte accelerazione: molti indici dei settori industriali sono crollati, il settore turistico si è paralizzato, il commercio estero è calato del 40% e svariati capitali hanno abbandonato il paese, mentre gli investimenti esteri si sono congelati. La Lira siriana ha perso circa il 10% al cambio col Dollaro e le esportazioni del petrolio hanno raggiunto il minimo storico. Inoltre, il 15 novembre scorso, sono entrate in vigore le sanzioni economiche imposte dalla UE contro il petrolio siriano.

IL PETROLIO

La Siria dispone di scarse risorse petrolifere il cui sussidio alla economia nazionale ripropone lo stesso caso dell’Egitto che, come abbiamo già detto in un articolo ad esso dedicato, in pochi anni passa da esportatore ad importatore; il conseguente crollo della rendita petrolifera taglia di netto le risorse destinate ai prodotti alimentari calmierati. Leggiamo l’entità di questo peggioramento direttamente dalle pagine in lingua italiana dell’Istituto nazionale del Commercio estero siriano che, anche se non più aggiornato dal 2008, ci lascia misurare il deficit subito: «La crescita della domanda interna dei prodotti derivati limita le esportazioni siriane di petrolio, mentre la produzione si contrae per mancanza di tecnologia, con riduzione delle riserve. Secondo la Energy Information Administration (EIA) la produzione di greggio siriano, che aveva raggiunto i 582.000 barili al giorno nel 1996 è diminuita rapidamente negli ultimi anni. La produzione è infatti ammontata nel 2007 a 393.000 b/g nei 130 pozzi di estrazione. Si prevede che la produzione siriana continui a diminuire nei prossimi anni, di circa 20.000 b/g annui, mentre i consumi aumenteranno, portando ad una riduzione dell’esportazione di petrolio».

LE CLASSI LAVORATRICI

I sindacati siriani sono strettamente controllati dal Baath ed i lavoratori non sono riusciti a schierare una forza autonoma in grado di contrastare la loro politica. Attratto dal falso mito della democrazia, il proletariato siriano non è riuscito ad organizzarsi, rompendo e lottando contro i vecchi sindacati, totalmente corrotti.

Dopo sei anni di trattative, il 12 aprile 2010 la Siria ha approvato la sua nuova legislazione in materia di lavoro che permette licenziamenti senza giusta causa con sanzione contenuta per il datore di lavoro, garantendo ai lavoratori solo un sussidio pari a due mesi di salario per ogni anno di lavoro, somma che comunque non può eccedere di 150 volte il salario minimo, pari a 6 mila sterline siriane (130,5 dollari Usa).

A raccogliere il malcontento contro la nuova legge è stata costretta addirittura la Federazione generale dei sindacati (Gftu), unica sigla sindacale nazionale, fondata nel 1948 e affiliata al Partito Baath.

Oggi in Siria quasi il 30% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Dalla fine del 2010 una buona porzione della classe lavoratrice attiva è in difficoltà: il salario, eroso dall’inflazione, non riesce a soddisfare le esigenze primarie della famiglia.

Questa drammatica situazione sta colpendo specialmente le zone rurali, in seguito al totale fallimento del piano di liberalizzazione economica, come dimostrano le sommosse avvenute a Daraa, Dariya, al-Moadamiya, Doma, Harasta, al-Tell, Saqba, al-Rastan e Talbisa.

All’origine delle proteste è quindi il peggioramento delle condizioni di una buona parte della popolazione, in gran parte riconducibile all’impennata dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità avvenuta nel 2010, così come è successo in altri paesi arabi; il quadro peggiora se si aggiunge lo spettacolo di un regime sempre più avido, corrotto e chiuso alle esigenze della popolazione più povera.

Negli ultimi anni l’inevitabile entrata dell’economia siriana nel mercato globale ha contribuito a scardinare le “sicurezze” del sistema sociale baathista, gli accordi di libero scambio con Cina e Turchia hanno spazzato via molte piccole imprese, nel campo industriale ed agricolo, facendo aumentare disoccupazione e disuguaglianze.
 

(Segue al prossimo numero)

 
 
 
 


Roma, 27 gennaio - Per la difesa intransigente della classe operaia
Un fronte unico dal basso di tutti i lavoratori
Per la rinascita del sindacato di classe - La vera salvezza è nella lotta contro il capitalismo

Lungi dall’essere sulla strada per uscire dalla crisi – come propagandisticamente affermato in questi giorni sia da Monti sia da Obama – il capitalismo mondiale continua ad affondare, avvitandosi in una spirale di cause ed effetti, sempre più drammatici, che condurrà alla completa catastrofe questo modo di produzioe, anti-storico e inumano.

Le vere cause di questa crisi, infatti, risiedono nelle leggi stesse di funzionamento del capitalismo, nella produzione, là dove il lavoro operaio crea il plusvalore. La sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto sono i due processi inarrestabili dell’economia capitalistica che rendono sempre più difficile al Capitale riuscire a vendere l’enorme massa di inutili merci che produce. Il gonfiarsi a dismisura della sfera finanziaria è solo una conseguenza della crisi: il Capitale si abbandona nella giostra finanziaria come in una droga che allevii la sua malattia. Nessuna regolamentazione della finanza può incidere quindi nelle cause della crisi e salvare il capitalismo dalla catastrofe.

La crisi del capitalismo è quindi inevitabile e irrisolvibile e la borghesia può solo ritardare il suo precipitare. Questo è ciò che ha tentato per 35 anni – dalla prima manifestazione della crisi nel 1973-74, quando si esaurì il trentennio di forte crescita del dopoguerra – agendo su tre leve: l’allargamento del mercato mondiale, l’aumento del debito, l’aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice.

La crescita del debito pubblico, iniziato proprio nel 1973-74, e l’allargamento del mercato mondiale, maturato dalla metà degli anni ’80, hanno permesso alla borghesia di utilizzare con studiata gradualità la terza leva, l’attacco alla classe operaia. Nel 1978 la CGIL inaugurò, con la “svolta dell’EUR”, la politica della “moderazione salariale”; nel 1983 iniziò l’attacco alla scala mobile con il “protocollo Scotti”, completato nel 1992 con l’accordo Amato-Trentin; nel luglio 1993 fu formalizzata la “concertazione” e varata la nuova “politica dei redditi” sul parametro della “inflazione programmata”; nel 1995 il governo Dini riuscì dove aveva fallito il precedente governo Berlusconi, facendo approvare la controriforma del sistema pensionistico; nel 1997 la legge Treu apriva le porte al precariato nei rapporti di lavoro, sanzionata e peggiorata dalla legge 30 del 2003.

Questi tagli sono stati giustificati dai padroni e dai sindacati concertativi sempre allo stesso modo: “stare peggio oggi per stare meglio domani”. È evidente invece che hanno sortito l’effetto opposto: ogni nuovo sacrificio non è stato mai l’ultimo, ma la tappa intermedia verso un arretramento ancora peggiore.

Il capitalismo ha così diluito e dilazionato la crisi, ma non ha potuto fermarla: è esplosa quattro anni fa e continuerà fino al tracollo l’intero sistema economico capitalistico, ormai stretto in un indissolubile intreccio mondiale.

Oggi che l’allargamento del mercato mondiale è in buona parte compiuto e il debito pubblico e privato diviene ogni giorno più insostenibile, resta in mano alla borghesia solo la possibilità di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice. L’attacco alla classe lavoratrice diviene sempre più duro e frontale.

Si dimostra che il “benessere” a cui si dicevano giunti i lavoratori in un pugno di paesi dominanti, non era una meta a cui sarebbe gradualmente ma necessariamente approdata tutta la classe lavoratrice del mondo, ma una condizione apparente e transitoria. Da vent’anni si è chiaramente delineato il processo inverso che vede i lavoratori “occidentali” essere sospinti verso le condizioni dei lavoratori del resto del mondo. La crisi dimostra quanto sostenuto dal marxismo rivoluzionario fin dalle sue origini col Manifesto del Partito Comunista del 1848: le leggi del capitalismo implicano la miseria crescente per la classe lavoratrice.

Di fronte alla crisi che avanza inarrestabile la borghesia bombarda i lavoratori attraverso giornali e televisioni con il suo dogma: “O capitalismo o morte!”. I lavoratori devono essere incatenati all’idea che non esista alcuna alternativa e che la loro vita dipenda da quella del capitalismo.

L’obiettivo indicato da tutta la politica borghese, dalla “destra” come dalla “sinistra”, sia quella “moderata” sia quella “radicale”, costretta all’extra-parlamentarismo, è “salvare il paese”, “tornare alla crescita”.

Questi obiettivi non sono quelli della classe lavoratrice perché non sono raggiungibili se non a prezzo della totale sottomissione dei lavoratori, del loro completo sacrificio – oggi in pace domani in guerra – alle esigenze del Capitale e della classe che lo detiene e gestisce: la borghesia.

I lavoratori non devono “salvare il paese” – ossia il capitalismo mondiale in ogni singola nazione – ma difendere se stessi contro questo modo di produzione che per sopravvivere li schiaccia.

Questo significa, nell’immediato, difendere intransigentemente le proprie condizioni di vita non facendosi alcun carico delle sorti dell’economia nazionale. Ciò è possibile solo organizzando veri scioperi, i più estesi e duraturi possibile, che mettano in ginocchio “il paese”, cioè il Capitale, costringendo la borghesia a recedere dai suoi continui attacchi.

Questo obiettivo è perseguibile solo attraverso la ricostruzione di una vera organizzazione di lotta dei lavoratori: un vero Sindacato di classe. Ciò non può avvenire che fuori e contro tutti i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che legano le sorti della classe lavoratrice a quelle del paese, cioè del capitalismo, e in cui da decenni, anche dentro la CGIL, è impossibile ogni lotta per ricondurre queste organizzazioni su posizioni classiste.

I sindacati di base potrebbero diventare degli embrioni organizzativi del futuro sindacato di classe ma le loro dirigenze continuano ad impedire una loro reale unificazione e perseverano nel dividere le azioni dei lavoratori indicendo scioperi separati gli uni dagli altri.

La rinascita del sindacato di classe deve partire dalla costruzione di un fronte unico dal basso di tutti i lavoratori, con l’obiettivo di organizzare lo sciopero generale a oltranza in risposta agli attacchi della borghesia.

I lavoratori più combattivi e i militanti di tutti i sindacati di base devono battersi per questo obiettivo, per imporre l’unità di azione di tutti i lavoratori, scioperando uniti non solo agli altri sindacati di base, ma anche insieme ai lavoratori mobilitati dai confederali, combattendo nella piazza il sindacalismo di regime.

L’unità della classe lavoratrice, la ricostruzione del sindacato di classe, vanno perseguiti anche con vere rivendicazioni classiste: la “questione del debito”, la permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea, la nazionalizzazione di banche e imprese, sono opzioni politiche ed economiche della borghesia, fuorvianti per i lavoratori. Che la borghesia paghi o non paghi il suo debito, che stia dentro o fuori l’Unione Europea, che metta o meno sotto il controllo del suo Stato banche e imprese, le condizioni dei lavoratori muteranno comunque in peggio se essi non saranno in grado di organizzare la lotta generale in difesa del loro interesse fondamentale: il salario.

La lotta in difesa del salario complessivo della classe lavoratrice è il fulcro della lotta di difesa economica. Il movimento generale dei lavoratori deve tornare ad impugnare le rivendicazioni storiche del movimento operaio:
- forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
- salario ai lavoratori licenziati adeguato al costo della vita;
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
- uguali condizioni di lavoro al di sopra di razza, nazionalità, sesso;
- diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati e alle loro famiglie.

Compagni, lavoratori!

Nessuna politica economica borghese può risolvere la crisi. La sola soluzione che il capitalismo ha a disposizione è la guerra: per distruggere le merci in eccesso, fra cui la merce forza-lavoro, sottomettere la classe operaia a un regime di massimo sfruttamento e iniziare così un nuovo folle ciclo di crescita, ossia di accumulazione del capitale su scala maggiore. La Grande Depressione del 1929 – da cui la crisi attuale si distinguerà per essere ancora più grave e devastante – non fu superata con la politica economica “keynesiana” d’intervento statale nell’economia, invocata oggi dalla sinistra borghese moderata e “radicale”, ma con la Seconda Guerra mondiale che sola rese possibile il “miracoloso” trentennio post-bellico di forte crescita. Un “progresso” costato milioni di morti in guerra e altrettante vite proletarie spezzate e bruciate nel ricostruire ciò che la guerra borghese aveva distrutto. Il “ritorno alla crescita”, obiettivo che tutti i partiti borghesi e i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) spacciano come interesse comune a lavoratori e padroni, sarà possibile solo al prezzo del totale sacrificio della classe lavoratrice in una nuova guerra imperialista mondiale.

La lotta sindacale è assolutamente necessaria per i lavoratori, ma è pur sempre una lotta contro gli effetti del capitalismo. Più la crisi avanza più diviene evidente che anche la difesa immediata, la stessa difesa del salario, è possibile solo a discapito del “bene del paese”, cioè contro il capitalismo. Ciò che è un bene per il Capitale è dannoso per i lavoratori. E viceversa.

La sola politica della classe lavoratrice è la rivoluzione, per conquistare il potere e imporre la dittatura sulla borghesia, unica via per liberare la società dal Capitale e dalla preistoria delle società divise in classi. A questo scopo occorre il partito di classe: il Partito Comunista Internazionale.
 
 
 
 
 
 


Dalle piramidi ai No-Tav

Di molte civiltà antiche e recenti si ricordano e anche ci restano costruzioni imponenti; alcune, utili, come le regimentazioni idrauliche negli imperi asiatici, che li hanno giustificati per millenni, o la rete delle vie consolari di Roma (Giulio Cesare riuscì a compiere via terra il periplo del Mediterraneo in un mese, impresa oggi non facile); di altre eccezionali, come delle piramidi egiziane, gli storici se ne domandano tuttora lo scopo vero.

Il nascente capitalismo non fu da meno, fino a poter fare della locomotiva, “lanciata per i continenti”, simbolo, salutato da tutte le classi, del progresso tecnico e civile ad un tempo, e della rivoluzione.

Il gigantismo, al contrario, è tipico delle civiltà morenti, una ipertrofia, perduto, col senso della misura, quello della realtà.

Mentre, oggi, nei paesi di giovane capitalismo si compiono ancora, in tempi brevi, costruzioni di grande impegno – come in Cina viadotti che collegano isole a decine di chilometri dal continente, ferrovie sul “tetto del mondo”, e, nella tradizione di quell’antico Stato, si smorzano le catastrofiche piene dello Yangtze con la diga gigante delle Tre Gole – in Occidente, nella fase di capitalismo ultra-marcio e sopravvissuto a se stesso, quanto la borghesia propone di “donare” ai suoi sudditi di mastodontico, sempre più frequentemente viene percepito come distruttivo, un inutile dispendio di ricchezza, solo un “affare per pochi”.

È vero che tali faraoniche imprese rispondono sempre meno ad una necessità sociale, anzi sono spesso dannose, sia localmente sia nel contesto più ampio, tanto all’immediato quanto su di un lungo arco di tempo; e questo – quando non per i loro obiettivi dichiarati – per le scelte di progettazione o per le modalità costruttive.

Ma si dimostra spesso che, analizzato il progetto, l’impresa è ingiustificata secondo la stessa contabilità mercantile-capitalistica, con costi di molto superiori ai prevedibili benefici. Tanto più che si tratta di opere che richiedono per essere ultimate tempi vicini al decennio, le maggiori alcuni decenni. Lo scopo vero del capitale, quindi, non può essere l’opera ultimata, e nemmeno la costruzione in sé, ma gli “stati di avanzamento” e gli “anticipi” sull’appalto.

Che infine il tunnel-Tav, per dire, serva o non serva non ha alcuna importanza. Quel che conta è il tasso del profitto immediato. In certe fasi del ciclo economico di accumulazione conviene costruire scuole ed ospedali, in altra fase produrre cannoni e missili per distruggerli. Il capitale è un automa inesorabile. Non ha nemmeno il controllo su se stesso, e i governanti, i tecnici, i politici sono solo i suoi fedeli sacerdoti e difensori, missione cui adempiere a qualunque costo.

Insomma, le cosiddette, giustamente, grandi opere inutili sono necessarie alla sopravvivenza del capitalismo, sono quindi inevitabili, come ben si sta vedendo. Sono prive di qualunque giustificazione perché ormai ingiustificabile è il capitalismo. Non sono decise, ed imposte, per un calcolo razionale, ma di razionalità capitalistica. E poiché nell’emergenza della crisi i margini di profitto tendono a zero e non c’è più spazio per le chiacchiere, ecco che tutti i partiti si debbono allineare a chi li paga e di chi sono i fedeli portavoce, le grandi concentrazioni industriali e finanziarie, le varie “Cooperative”, le banche, ecc.

L’economia di crisi assomiglia e prepara l’economia di guerra. Anche le guerre imperialiste paiono assurde, inspiegabili sul piano della ragione astratta e del comune sentire. Eppure le guerre si fanno, una dopo l’altra. I borghesi le fanno fare ai proletari, e col consenso di tutti i partiti.

In questi giorni in Italia è tornato alla ribalta il movimento denominato No-Tav il cui scopo è che il tunnel ferroviario di base fra Torino e Lione non si faccia in quanto colpevole sperpero di ricchezza e ulteriore deturpamento della Val di Susa. Nella sua composizione vuol essere interclassista, ed è naturalmente portato verso le ideologie della piccola borghesia, dal pacifismo all’estremismo parolaio, individuale o velleitario, all’anarchismo, alla democrazia, all’autonomismo locale, in valli antiche di eretici tenacemente ribelli alla gerarchia costituita.

A noi comunisti non fa dispiacere quando la marcia del capitale e del suo Stato trova qualcuno, anche non appartenente alla classe operaia e sia esso piccolo-borghese o pre-borghese, che, anche se armato di arco e frecce, si ribella veramente. Questo nella misura in cui quel movimento non entri in conflitto con le direttive di organizzazione e di azione del partito comunista.

Però, in quanto movimento non della classe operaia e solo di essa, i comunisti non ne faranno parte, nemmeno individualmente, ed inviteranno i proletari a tenere uguale atteggiamento.
 
 
 
 
 
 

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Riunione generale di lavoro a Sarzana
21-22 gennaio 2012
[RG112]
Corso del capitalismo
La questione militare: 2a guerra di indipendenza italiana [resoconto esteso]
Siria: elementi per una valutazione [resoconto esteso]
Il riarmo degli Stati
Il movimento operaio negli Stati Uniti [resoconto esteso]
Attività sindacale
Democrazia e movimento operaio in Italia
Origine dei sindacati in Italia

 A distanza di due anni il partito è tornato a convocare a Sarzana la sua riunione generale, che nell’Indice dal 1975 sarebbe la numero 112. I lavori si sono potuti adeguatamente tenere in un comodo e spazioso locale preso in affitto da un circolo di quartiere.

Gli arrivi dei compagni, come preavvisato da ciascun gruppo, si sono scaglionati fra il venerdì pomeriggio ed il sabato mattina, quando abbiamo dato inizio alla seduta dedicata alla organizzazione dei lavori. I gruppi di studio hanno riferito in grandi linee del contenuto delle loro relazioni e delle conclusioni cui sono pervenuti. Benché i punti di approccio siano diversi e ripartiti fra i gruppi il partito si sforza di addivenire ad una sintesi di tutti i contributi sui vari argomenti, che in realtà sono interconnessi e separati solo a scopo di indagine e di esposizione. Non a caso capita che, dopo ascoltata e meditata una complessa relazione, le conclusioni siano tratte, in tutta coerenza, da un altro compagno, non “specialista”.

La natura non contraddittoria degli interessi della classe che rappresentiamo, della dottrina che professiamo e della rivoluzione a cui ci prepariamo fa sì che il partito possa tendere ad un massimo di efficienza centralizzata e di disciplinato operare senza, o riducendo ad un minimo essenziale, le forme esteriori della centralizzazione e della disciplina, necessarie ove, come nel mondo dei borghesi, la loro sostanza può essere risultato solo di una coercizione, di una codificata ingessatura in regole e regolette.

Qui segue una brevi sintesi delle relazioni, il testo completo delle quali sarà pubblicato o sulla rivista Comunismo, o su questo giornale.
 

CORSO DELLA CRISI

Sono stati esposti ed illustrati i quadri numerici ed i grafici aggiornati descriventi il progredire della crisi economica mondiale.

Riguardo la produzione industriale abbiamo potuto seguire il commento degli sviluppi in Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia, Cina, India, Corea del Sud, Brasile, Grecia, Portogallo e Spagna.

A distanza di tempo si verifica che una onda della stessa forma e sincrona descrive la crisi in corso di tutti i paesi presi in esame. Il ventre precedente si verifica nell’inverno-primavera del 2009. La recessione fu ovunque molto grave: si va dal -40% annuo del Giappone, al regressi da un quarto ad un terzo per Germania, Italia, Corea del Sud; -22% la Francia; circa -14% Usa, Gran Bretagna, Russia, Portogallo.

La ripresa si manifesta già nella primavera-estate del 2010, con aumenti però non eccezionali, essendo da commisurare al crollo dell’anno precedente.

Si ha poi un progressivo rallentamento della crescita espressa in tassi annui. Questo nei mesi più recenti è più marcato in Germania, in Italia ed in Spagna, ma è generale, con esclusione della Cina.

Nell’ultimo dato disponibile a Sarzana, per lo più novembre 2011, avevamo ancora in crescita Usa, Germania, Russia, Corea del Sud e Cina, tutti gli altri già in recessione rispetto all’anno precedente. Peggiori Giappone con -4%, Italia con -4,1%, Grecia con -7,8%, Spagna con -7,0%.

Ma se misuriamo la ripresa dal 2010 non rispetto all’anno immediatamente precedente ma al massimo già raggiunto dalla produzione del paese, come è logico fare, dobbiamo rilevare che il vuoto provocato dalla crisi del 2009 non è stato colmato da alcuno, Germania esclusa che solo negli ultimi mesi del 2011 raggiunge il precedente suo massimo del 2007, senza però superarlo. Gli Usa sono ancora sotto del -5,4% al loro 2007, la Francia dell’8,6%.

Il relatore passava poi ai dati del commercio internazionale del 2011. Come valori esportati la Cina dal 2009 supera la Germania e gli Usa, mentre questi due restano quasi alla pari, com’è da molti anni. Segue, un po’ discosto, il Giappone.

Come saldo commerciale abbiamo in forte attivo la Germania, la Cina e la Russia, che esporta materie prime. In un fortissimo passivo gli Stati Uniti, come anche, seppure minore, Francia, Gran Bretagna ed India.

Viste nel tempo, le esportazioni denotano da metà 2010 a metà 2011 una crescita velocità costante intorno al +17% annuo in media; successivamente, da agosto dell’anno scorso in poi, una netta tendenza a ridurre la crescita e fino a incrementi del +5% ad ottobre, ultimo mese registrato.

Per la prima volta era esposto un quadro numerico con la bilancia dei pagamenti, che comprende il saldo commerciale più il flusso degli investimenti. Qui si riconosce un gruppo di paesi, nell’ordine Cina, Germania, Giappone, con bilancia dei pagamenti in fortissimo attivo. In attivo anche Russia e Corea del Sud. In passivo i vecchi capitalismi di Portogallo, Francia, Grecia, Italia, Gran Gretagna, Spagna, Canada, e i nuovi di Brasile ed India. In enorme passivo gli Stati Uniti.

Misurando invece il passivo come percentuale del Pil si passa da un massimo del 5,7% della Germania, del 5,2% della Cina e del 4,8% della Russia, ai passivi massimi del 10,7% della Grecia, del 9,9% del Portogallo, del 4,6% della Spagna, al 3,2% di Usa, Gran Gretagna, Italia, India, Canada.

Infine altri due nuovi grafici illustravano l’andamento del debito, dei privati e dello Stato negli Usa, solo dello Stato in Francia, aggiornati per ora solo al 2009. In Usa è in forte crescita, con accelerazione dal 2007, quanto il debito pubblico ha una impennata, che compensa e supera la contrazione del debito privato. Per la Francia anche il debito dello Stato prende il volo nel 2008 e nel 2009, mentre il Pil regredisce.

Se ne concludeva che il capitalismo mondiale non riesce ancora ad uscire dalla crisi iniziata nel 2009. Il recente rallentamento del commercio mondiale indica inoltre che la ripresa non è da considerare imminente. L’aumento del debito è stato uno strumento degli Stati per cercare di rimandare la recessione.
 

LA QUESTIONE MILITARE
II guerra di indipendenza italiana

L’esposizione iniziava illustrando il contesto generale in cui si svilupperà la seconda guerra di indipendenza. Nel breve periodo 1850-1870 non vi sono più guerre per la sistemazione interna dei singoli Stati europei, alcuni ancora in via di precisazione territoriale, bensì brevi e limitati conflitti tra Stati già formati e per il controllo di aree esterne: la guerra di Crimea, la seconda e terza guerra d’indipendenza italiana, quella russo-austriaca per la Danimarca e la guerra franco-prussiana che, con la Comune di Parigi, segna la fine in Europa dell’alleanza tra borghesia e proletariato in funzione antifeudale e l’inizio dello scontro fra queste due classi per il controllo politico della società.

Il relatore ha accennato a Pisacane e alla sua spedizione a Sapri ed è stata data lettura del giudizio negativo di Marx sulla politica di Mazzini.

Nel 1858 l’attentato di Orsini a Napoleone III, rimasto illeso, sembrò vanificare gli sforzi di Cavour di coinvolgere la Francia e le ambizioni personali del suo imperatore alla causa italiana, almeno nel primo obiettivo di cacciare gli austriaci dalla pianura padana, il cui sistema economico si espandeva sempre di più in contrasto con i limiti imposti dall’occupazione straniera. È stata poi letta una buona parte della lettera di Marx a Lassalle sulle contraddizioni e incertezze che muovono o frenano Napoleone III sull’intervento in Italia.

Degli accordi tra Cavour e Napoleone III nel loro incontro segreto a Plombières, nel luglio 1858, esiste solo la lettera di Cavour a Vittorio Emanuele sulla necessità di un casus belli per costringere l’Austria a dichiarare la guerra, l’entità degli eserciti da schierare e il disegno finale dei quattro Stati italiani che ne deriverebbe: un regno dell’Alta Italia fino all’Isonzo, quindi Trieste esclusa, sotto i Savoia; uno centrale con i vari ducati tosco-emiliani, ora tenuto da dinastie austroungariche, più tutto lo Stato pontificio, da affidare a Luisa di Borbone; uno con i territori immediatamente vicini a Roma, che sarebbe rimasto al Papa; un regno delle due Sicilie, eventualmente affidato a Luciano Murat figlio di Gioacchino. Questi quattro Stati avrebbero formato una confederazione, tipo quella germanica, sotto la presidenza del Papa. In cambio, la cessione alla Francia delle due zone strategiche di tutta la Savoia e della provincia di Nizza. L’accordo fu poi firmato alla fine di gennaio 1859. Il timore di una confederazione sotto la tutela del papato spinse molti a sostenere l’unità italiana sotto la monarchia sabauda indipendentemente dalle simpatie o meno per quella, anche qui vista come male minore.

Dal punto di vista tecnico l’introduzione del sistema Bessemer per la conversione della ghisa in acciaio in modo più rapido e economico dei precedenti permise la produzione in massa di armi e materiale rotabile, sottraendo la preminenza in Europa della Svezia. In questo campo la Francia deteneva un incontestato primato adottando una produzione in serie dei primi cannoni a canna rigata, dotati di maggior gittata e precisione; anche nel campo del munizionamento di fucili, ancora per poco ad avancarica, ci fu un notevole sviluppo e impulso. È del 1848 la realizzazione in officine svedesi del primo cannone a retrocarica dell’ingegnere militare G. Cavalli; ma per la sua produzione in serie ed uso in combattimento si dovrà ancora attendere.

L’esercito francese da inviare in Italia era composto di 110 mila tra ufficiali e truppa con 324 cannoni, era ben armato e aveva ottimi ufficiali di grande esperienza. Quello piemontese, formato anche con volontari di altri Stati italiani, disponeva di 60 mila effettivi con 120 cannoni ma non adeguatamente armato, diretto da Vittorio Emanuele che non era un buon stratega. A questi si aggiungevano i 5 mila Cacciatori delle Alpi, utilizzati solo in parte, volontari, per lo più repubblicani, guidati da Garibaldi, cui fu affidato il compito di creare un secondo fronte sotto le Alpi allo scopo di distogliere parte dell’esercito austriaco; questo si sarebbe impegnato alla sua ricerca e neutralizzazione, come avvenne durante la difesa della Repubblica romana quando le truppe napoletane ebbero questo incarico. Il comando unico di queste truppe fu preteso per sé da Napoleone III.

L’esercito austriaco, in seguito diretto dall’imperatore Francesco Giuseppe, era forte di 120 mila effettivi con 884 pezzi di artiglieria cui si aggiungevano le truppe dei presidi di altri 31 mila uomini. Aveva due grandi punti deboli: era per buona parte, secondo la tradizione feudale, formato da milizie dei vari principi i quali in molti casi si rivelarono incapaci dei loro compiti, in più il 39% della fanteria era composta da italiani del Lombardo-Veneto che già nella guerra del 1848 avevano disertato in 11 mila per passare con l’esercito sabaudo. Si decise quindi di separarli in unità minori, alla scopo di ridurre il rischio di diserzione, o di consegnarli nei depositi.

Una clausola dei trattati militari imposti all’esercito sabaudo impediva la formazione di corpi franchi composti di volontari o di disertori degli altri eserciti presenti in Italia. Per arruolare una parte dei quali, che raggiunsero la ragguardevole cifra di 40 mila, Cavour ideò il fragile espediente di ampliare con questi uomini la Guardia Nazionale, dedicata al controllo del territorio in tempo di pace, dotata di sole armi leggere e ridotti gruppi a cavallo: dipendendo la Guardia dal ministero degli Interni e non da quello della Guerra, formalmente non si violavano i trattati. Ma con ciò non si evitarono vigorose proteste austriache.

Nel frattempo Inghilterra e Russia tentavano di evitare un conflitto, che avrebbe potuto estendersi ma soprattutto trasformare una guerra per l’indipendenza in una guerra civile del proletariato. Proposero quindi al Piemonte di disarmare l’esercito, sciogliere i Cacciatori per in seguito partecipare a un Congresso ove si sarebbe discussa la causa dell’indipendenza italiana. A questa proposta si associò pure Napoleone III, che avvertiva l’ostilità dell’opinione pubblica francese per una simile guerra al punto che un apposito prestito di guerra fu ritirato prima di essere lanciato mentre l’analogo italiano raccolse 80 milioni al posto dei 50 previsti. Cavour e il Savoia dovettero sottostare alle pressioni francesi e delle altre potenze europee sì che il 19 aprile spedirono un telegramma a Parigi affermando di sottostare alle richieste di disarmo, mentre Cavour faceva approvare dal parlamento leggi speciali per i tempi di guerra.

Caso volle che, sempre il 19, Vienna preparasse un ultimatum per il Piemonte, da consegnare a Torino il 23, in cui si intimava perentoriamente di disarmare i corpi franchi e rimettere sul piede di pace l’intero esercito; se dopo tre giorni non fosse giunta risposta di assenso l’imperatore Francesco Giuseppe, suo malgrado, sarebbe ricorso alle armi. Cavour avvisò Parigi chiedendo l’immediato arrivo di un contingente francese di 50 mila uomini e rispose, equivocando volutamente sulla non conoscenza a Vienna del precedente telegramma sul disarmo richiesto dalle maggiori potenze europee, che non aveva nulla da aggiungere a già quanto pubblicamente espresso. L’apparente risolutezza francese e austriaca nascondeva però grandi paure e confusione e di ciò è da tenere conto per capire l’improvviso armistizio dopo alcune sanguinose battaglie senza che si raggiungessero tutti i risultati previsti.
 

SIRIA: ELEMENTI PER UNA VALUTAZIONE

Seguiva una dettagliata disamina di quell’importante e antico paese, nella sua storia passata e recente e per i suoi rapporti con i vicini nella tormentata regione.

Un giudizio più puntuale sulla natura delle classi e delle forze in armi attualmente presenti sul terreno portà essere più completa quando disporremo di informazioni meno incerte e lacunose.

Il testo del rapporto è pubblicato in questo stesso numero del giornale.
 

IL RIARMO DEGLI STATI

Il Capitale è sempre militarista e imperialista. La relazione esordiva con questa afermazione e riportando la domanda di molti, di fronte alle conseguenze sociali della crisi economica e al peggiorare delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione, sul perché si continuino a produrre costosissimi aerei, navi, missili e non beni di consumo, perché i governi spendano in armamenti e non per combattere la fame e l’ignoranza, perché gli Stati investano decine di milioni di euro per comprare sistemi di armi sempre più moderni e poi taglino la spesa sociale, riducano stipendi, pensioni, ammortizzatori sociali.

Esempio recente è il caso dello Stato ellenico che, proprio mentre attua una politica che porta alla miseria larghi strati di popolazione, acquista armi dalla Germania e dalla Francia per diversi milioni di euro. Die Zeit ha riassunto qualche dato sulle forniture militari ad Atene: «60 aerei da guerra per 3,9 milioni di euro, navi francesi per 4 milioni, navi da pattuglia per 400 milioni di euro, il tutto per modernizzare la flotta greca. Bisogna poi aggiungere le munizioni per i carri armati Leopard, e c’è bisogno di rimpiazzare un paio di Apache americani. Oh, e non possono mancare due sottomarini tedeschi dal costo di due milioni di euro». Nonostante i problemi finanziari infatti, le spese militari sono cresciute durante la crisi globale: la Grecia ha speso 7,1 miliardi di euro nel 2010 contro i 6,24 nel 2007.

Come e dove il capitale, e privato e pubblico, investe non è una questione morale ma deriva dal puro interesse, da un freddo calcolo del profitto. In generale per un capitalista, o per un anonimo capitale, produrre bombe a grappolo che seminano morte indiscriminata tra la popolazione o medicine per curarne la malaria è perfettamente indifferente; la scelta dipende dalla valutazione del profitto che si prevede di ottenere da un dato investimento di capitale in quella produzione, al netto dei probabili rischi.

Ebbene, accade che nei periodi di instabilità economica, politica e sociale come quello attuale, che le industrie legate alla produzione di armamenti siano tra quelle che danno le maggiori garanzie di profitto agli investitori.

A conferma di questa asserzione il compagno ha riportato alcuni dati sulla spesa mondiale per la produzione di armamenti ricavati dalle tabelle che l’Istituto internazionale di ricerca per la pace di Stoccolma aggiorna con cadenza annuale e fornisce, a partire dal 1988, calcoli per tutti i maggiori paesi del mondo, espressi in dollari a valore costante. Si è rilevata la ripartizione della produzione per aree geografiche, i paesi che risultano essere i maggiori produttori di armi e quelli che vi spendono di più.

I dati sulla spesa militare nel 2010, anno di crisi generale, confermano che essa è tuttavia cresciuta dell’1,3%, in termini reali, rispetto al 2009, raggiungendo l’enorme cifra di 1.630 miliardi di dollari USA.

Questa spesa aveva raggiunto un massimo nel 1988. Negli anni seguenti, con la caduta del blocco russo, si era ridotta fino a trovare il suo punto più basso nel 1998, con una riduzione di circa il 40% rispetto a dieci anni prima. Il riacutizzarsi della crisi economica e la guerra in Iraq e poi in Afghanistan, hanno spinto verso un rapido aumento della spesa militare mondiale e soprattutto di quella degli USA. Nel 2008, proprio nell’anno in cui si è verificato il fallimento della Lehman Brothers, essa ha raggiunto il livello di venti anni prima; e non ha poi cessato di accrescersi. La crescita del 2010 è però più lenta di prima dato che in media, tra il 2001 e il 2009, essa era aumentata di ben il 5,1% all’anno portando enormi profitti alle imprese coinvolte.

Questi semplici dati confermano che la crisi economica spinge verso l’aumento della spesa militare mondiale, il che va in parallelo con la preparazione di quella guerra generale che per il Capitale costituirebbe l’unica vera via d’uscita dalla crisi di sovrapproduzione.

Un resoconto più ampio degli elementi quantitativi presentati nel rapporto sarà prossimamente pubblicato su questo giornale.
 

IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI

Lo studio è giunto a riferire della grave crisi che, negli Stati Uniti, iniziava nel 1893 per trascinarsi fino al 1897, una crisi di dimensione mai vista in precedenza nel Paese e che significò altissimi tassi di disoccupazione, spostamenti di popolazione in cerca di lavoro, attacco generalizzato del padronato alla classe operaia.

Il governo federale si rifiutò di dare aiuti ai disoccupati, che ebbero qualche provvigione solo localmente, spesso dai sindacati ancora in piedi. Questo nonostante una famosa marcia su Washington da parte di migliaia di disoccupati, la cosiddetta “Coxey’s Army” (L’esercito di Coxey).

Nonostante la disoccupazione, le condizioni disperate in cui i proletari versavano li spingevano a lottare per difendersi: non vi erano margini di trattativa, altro che “privilegi” da difendere, e la lotta era per la sopravvivenza. Scioperi importanti vi furono tra i minatori dell’Ovest e dell’Est, contro le compagnie minerarie e tutto l’apparato dell’autorità pubblica schierato, con risultati alterni, ma sempre intrisi di violenza.

Era chiaro che serviva una svolta nel sindacalismo americano, ma le forze in campo, a partire dall’AFL, non intendevano cambiare stile. Eppure, mentre si discettava sull’importanza dell’unità, i suoi vantaggi erano sotto gli occhi di tutti. Infatti un nuovo sindacato dei ferrovieri, la American Railway Union, era nato sulla base del principio di unità tra tutti i lavoratori di un dato settore, realizzando il sindacato d’industria, che in breve tempo era riuscito a inanellare vittorie che fino a quel momento i ferrovieri non avevano osato sperare. Era ormai evidente che il modello per un movimento operaio americano unito era il sindacato d’industria, che unisse gli operai specializzati, semispecializzati e non specializzati.

Dopo alcune vittorie altisonanti, l’ARU si schierò a sostegno della lotta dei dipendenti della compagnia Pullman, che costruiva vetture ferroviarie. La compagnia aveva ridotto in pochi mesi i salari del 25, 30, 50% e oltre ai dipendenti, ma non aveva mancato di concedere ricchi dividendi agli azionisti; nel frattempo si era guardata bene dal ridurre in proporzione gli affitti delle case di sua proprietà concesse ai dipendenti. Così 4.000 operai cessarono di lavorare l’11 maggio 1894, e le poche centinaia rimaste al lavoro furono mandate via dalla proprietà, che chiuse gli impianti senza scadenza.

Per un mese gli operai tirarono avanti grazie al sostegno della classe operaia di Chicago. Il 12 giugno, in occasione della prima convenzione nazionale dell’ARU, i rappresentanti degli scioperanti chiesero sostegno ai delegati tramite un boicottaggio della compagnia Pullman se questa non avesse accettato di sottomettersi a un arbitrato. Quando Pullman rispose “non c’è niente da arbitrare” il boicottaggio fu fissato per il 25 giugno; ebbe inizio puntualmente, praticamente ovunque le vetture Pullman furono staccate dai convogli e spinte sui binari morti. La risposta della categoria sorprese perfino il sindacato: quasi un quarto di milione di lavoratori delle ferrovie, soprattutto quelli dei ranghi più bassi e peggio pagati, si dimostrarono pronti a mostrare solidarietà contro un padrone che ben rappresentava lo sfruttamento insopportabile che tutti stavano subendo in quegli anni.

Ma i padroni delle ferrovie non si erano fatti trovare impreparati: poco tempo prima avevano creato la General Managers’ Association per realizzare un programma di graduale riduzione dei salari su tutte le tratte, “equalizzandoli” al basso. Ben 58 compagnie si erano incontrate a Chicago nell’agosto 1893, proprio mentre l’ARU stava cominciando ad operare, per concertare il loro attacco contro i lavoratori. I suoi componenti si resero ben presto conto che il nuovo sindacato rappresentava un poderoso ostacolo ai loro progetti, e cominciarono a pianificare un attacco per distruggerlo.

L’occasione si presentò con lo sciopero Pullman, ma ben presto la GMA dovette ammettere, con le ferrovie del tutto bloccate, che le compagnie da sole non avrebbero potuto battere gli operai in lotta e ne conclusero che «è oramai compito del governo gestire il problema». Due giorni dopo un comunicato dichiarava: «Per quanto riguarda l’atteggiamento delle compagnie ferroviarie circa questa lotta, esse ne sono fuori. Lo scontro è adesso tra il Governo degli Stati Uniti e l’American Railway Union, e che se la vedano loro». Il governo federale, passando sopra alle leggi costituzionali, intervenne direttamente con numerose truppe e con ingiunzioni che in pratica impedivano l’esercizio del diritto di sciopero. Vi furono scontri con decine di morti, e i dirigenti dell’ARU furono incarcerati.

Si profilava inevitabile una sconfitta. L’unica speranza sarebbe stato uno sciopero generale, che solo gli altri sindacati, e in particolare l’AFL, avrebbero potuto indire; ma questo non avvenne, all’insegna di quello che fu definito “prudential unionism”, ma che oggi possiamo tranquillamente chiamare sindacalismo di collaborazione con il capitale.
 

(Il resoconto della riunione segue al prossimo numero)

 
 
 
 
 

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Ripartire da Livorno 1921
Per un partito che non muore mai

Sono passati 91 anni, quasi un secolo, da quando, la mattina del 21 gennaio 1921, la Frazione Comunista, con decisione unilaterale ed antidemocratica, provocava la scissione del Partito Socialista Italiano per dar vita al minoritario “Partito Comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale Comunista)”.

Eppure la maggioranza dei delegati socialisti aveva inneggiato alla rivoluzione russa, al sistema sovietico, alla dittatura del proletariato; aveva affermato di aderire alla III Internazionale, si era dichiarata comunista e pronta, quando ce ne fossero state le condizioni, a fare la rivoluzione. Tutte solenni affermazioni non per affrontare la revisione del partito in senso rivoluzionario, ma solo per sventolare la gloriosa bandiera della rivoluzione russa e dell’Internazionale e dell’opposizione alla guerra mondiale, per meschini scopi elettorali.

Anche se il P.S.I. si era dimostrato il miglior partito, o il meno peggiore, della II Internazionale, questo fatto non lo abilitava all’Internazionale Comunista che, con le 21 condizioni poste dal suo Secondo Congresso, non ammetteva adesione con riserva, bensì totale ed incondizionata. Noi aggiungemmo: “Non basta accettare i 21 punti, occorre qualche cosa di più: tradurli in atto”. Ai rivoluzionari presenti nel partito, anche a costo di rimanere minoranza, si imponeva quindi di operare una drastica rottura per liberarsi da ogni forma di opportunismo, sia di destra, sia di quello, molto più pericoloso, di sinistra.

La frazione comunista, che nel corso degli anni si era affermata all’interno del partito socialista italiano, dopo il disastroso fallimento e tradimento nel 1914 della II Internazionale, immediatamente aveva visto nella rivoluzione di Ottobre e nel sorgere della III Internazionale la completa riacquisizione ed attuazione del programma rivoluzionario marxista ed il risorgere del partito di classe. Della nuova Internazionale, che si presentava centralista ed antidemocratica, l’estrema sinistra italiana, oltre ad aver accolto senza alcuna riserva le 21 condizioni, aveva contribuito alla loro formulazione imprimendo ad esse un carattere ancor più restrittivo.

Per quasi mezzo secolo la storiografia ufficiale demo-stalinista ha presentato in maniera del tutto deformata le ragioni ed il significato rivoluzionario della scissione di Livorno, falsandone anche i minimi particolari, essendo la nostra voce quasi non percepita dal proletariato, abbagliato della tronfia propaganda e condizionamento del PCI. Sebbene oggi quel partitone non esista più, autoliquidato, e quelli che un dì ne fecero parte si guardino bene dal rievocare Livorno, non per questo la verità storica è stata ristabilita. Per il semplice motivo che è una “verità” di classe. Può interessare la storiografia borghese, non certo la storia rivoluzionaria di classe, ristabilire la “verità” su Livorno affermando che il “grande regista” della scissione del PSI fu A.B. anziché A.G. o addirittura P.T.

Noi non diciamo che il significato della scissione di Livorno è stato stravolto perché al posto di un Tizio ci è stato messo un Caio (o due). I nomi non interessano né al partito, né alla rivoluzione; non sono gli uomini illustri a fare la storia, ma le classi sociali spinte da determinazioni economiche e guidate dai propri partiti, anche questi mossi da determinazioni impersonali.

Noi oggi rievochiamo la nascita del Partito Comunista d’Italia non per celebrare un esperimento generoso, ma purtroppo fallito, inesorabilmente caduto sotto i colpi dello stalinismo, una sorta di orazione funebre sulla pietra tombale di un partito eroicamente “estinto”. Si tratta di affermare la nostra continuità con l’intero arco storico del movimento marxista rivoluzionario fin dal suo sorgere, del quale il partito del ’21 rappresenta un segmento che formidabile scaturisce dai precedenti ed apre ai futuri. Non a caso al congresso di Livorno rivendicammo la continuità con quella sinistra marxista che nel partito socialista italiano aveva combattuto il riformismo e solennemente affermammo che uscendo dal PSI ne avremmo portato via tutto il passato onore.

La proletaria classe rivoluzionaria non è nata, in Europa, nel 1917 o nel 1921, ma già dal 1848 lo sviluppo industriale l’aveva portata a piena maturità, già era stata capace delle sue prime insurrezioni armate e si era inquadrata nel proprio partito di classe, depositario di una sua completa e perfetta dottrina. Perché senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario.

La teoria non si genera spontanea dal movimento in atto, è il cristallizzarsi delle secolari esperienze del proletariato e delle precedenti rivoluzioni storiche. La dottrina, comprendente teoria, principi, finalità, costituisce quello che noi con Marx definiamo il partito storico. Il partito contingente, vivente, esiste, si sviluppa e procede nel percorso che conduce alla vittoria rivoluzionaria solo in quanto è capace di rimanere aderente ai capisaldi del partito storico.

Indubbiamente la storia dei partiti formali è contrassegnata da alti e bassi, da gloriose vittorie e da gravi sconfitte. In entrambe le fasi i marxisti rivoluzionari, nell’Ottocento Marx ed Engels, nel Novecento Lenin e la Sinistra, si sono adoprati a mantenere il partito vivente sulla traiettoria ascendente del partito storico. Varie e necessariamente travagliate sono state, nello spazio e nel tempo, le formazioni organizzate di combattenti rivoluzionari, ma in quanto organismi espressione dell’unica classe mondiale dei lavoratori, informati alla stessa dottrina, impegnati allo stesso fine, concordi su quali armi impugnare, di fatto, storicamente, non costituiscono che un unico partito.

Quindi il Partito Comunista d’Italia, fin dal 21 gennaio 1921, aveva tutte le carte in regola per proporsi come l’organo rivoluzionario di classe del proletariato. Lunga era la tradizione di lotta che la sinistra aveva intrapreso all’interno del partito socialista contro le degenerazioni che si erano manifestate nel movimento in Italia, in una ininterrotta battaglia per liberare il partito a destra dal nazionalismo, la massoneria, il bloccardismo democratico ed elettorale, ma anche dalle false sinistre nelle tante forme dell’estremismo piccolo-borghese, come l’anarco-sindacalismo ed il rivoluzionarismo massimalista.

E non è un caso se tra tutti i partiti aderenti alla Internazionale fu proprio il Partito Comunista d’Italia quello che, sulla base di una piena chiarezza teorica, ruppe con maggior determinazione i legami con la socialdemocrazia, anche se, nell’immediato, ciò gli comportò una diminuzione di influenza sul proletariato. Al contrario gli altri partiti comunisti di Occidente rimasero pieni di riformisti e social-patrioti, non perché questi avessero saputo abilmente mimetizzarsi da rivoluzionari ma perché i limiti di demarcazione di quei partiti verso l’esterno erano rimasti sempre troppo sfumati, sia nelle regole di organizzazione sia nel campo della tattica.

Forse solo il PCd’I comprese come la questione della tattica fosse fondamentale. La tattica non è un’arma che si possa adoperare con disinvoltura senza che, a sua volta, il partito stesso non ne rimanga condizionato. I piani tattici che il partito adotta a seconda delle mutate situazioni devono essere compresi entro i limiti dell’impianto teoretico, perché l’integrità della impostazione programmatica del partito viene minacciata non appena si adattino le parole d’ordine per renderle accettabili dai movimenti politici opportunistici. In modo simile ogni incertezza e tolleranza ideologica ha il suo riflesso nella tattica.

Fu il Partito Comunista d’Italia che per primo percepì come la tattica troppo elastica dell’Internazionale, anche se adottata, all’inizio, con finalità genuinamente rivoluzionarie, avrebbe portato, in una situazione di riflusso dell’onda ascendente del proletariato, alla completa degenerazione del movimento internazionale. Più tardi, quando l’Internazionale dalle sbandate tattiche passò a veri e propri ribaltamenti delle posizioni di classe, ancora una volta fu quella Sinistra che del Partito Comunista d’Italia era stata l’artefice a preoccuparsi innanzi tutto di conservare intatto il bagaglio di dottrina del marxismo rivoluzionario, in altre parole di mantenersi aderente al partito storico. Ciò nella lucida consapevolezza che di fronte alla controrivoluzione giganteggiante l’unica possibilità di salvezza era quella di mantenere ben saldi i principi, evitando l’illusione di poter capovolgere dati di fatto materiali attraverso varie forme di escamotages o sistemi di ingegneria organizzativa. Fu questo il sangue freddo, questo saper attendere, che purtroppo mancò a tutte le altre formazioni di sinistra che tentarono di opporsi alla controrivoluzione staliniana, compreso quella legata al grande rivoluzionario Trotsky.

Ci si potrebbe chiedere quale fù la ragione per cui solo all’interno del partito fondato a Livorno albergasse una tendenza rimasta immune dalla degenerazione staliniana e, nello stesso tempo, a differenza delle altre opposizioni di sinistra, perché essa non sia caduta nell’errore di segno apparentemente opposto, ma altrettanto deleterio, quello della teorizzazione della necessità di democrazia all’interno del partito.

Se una tale formazione, per quanto numericamente ridotta, fu capace di non deflettere dalla corretta linea del marxismo rivoluzionario non è forse da attribuirne il merito alla guida di un “grande uomo”, di un ben individuato “leader”? La risposta che noi, materialisti dialettici, diamo è quella diametralmente opposta, certi che il culto delle personalità rappresenta, oltre che un capovolgimento dei fatti, uno degli aspetti più pericolosi di ogni degenerazione.

Noi non neghiamo né l’esistenza né l’utilità in determinate situazioni storiche di capi autorevoli, uomini dalle capacità di lavoro eccezionali che sono riusciti a condensare grande parte della nostra scienza di classe. Ma questi uomini sono il prodotto di dati partiti, come questi partiti sono il prodotto di date situazioni storiche. Fu il proletariato comunista delle periferie industriali di Pietroburgo e di Mosca ad intuire che quello bolscevico era il loro partito e che Lenin meglio di tutti parlava per esso, e Lenin difese e protesse anche fisicamente. Fu la parte migliore della classe operaia di Italia, di Torino non meno che di Napoli, che in quel momento entusiasta scelse il PCd’I e la Sinistra, benché, si racconta, degli “ingegneri” non avessero alcun motivo di fidarsi! E continuarono a difendere la Sinistra, contro i nuovi “leader”, fino alla fine di Lione e dopo.

Dirigenti quelli certo allora molto amati ma che solo la controrivoluzione e degenerazione successiva volle disumanizzare trasformandoli in figure mitiche quasi sovrannaturali, nel bene o nel male.

Dopo ogni nostra sconfitta il cammino della ripresa rivoluzionaria si presenta lungo e difficile ma il partito rivoluzionario, anche se ridotto ad una ristretta retro-retroguardia, a coloro che resistono al generale arretramento, pure non apparendo alla superficie degli eventi politici non rinuncia a se stesso. I partiti, se non si possono “fondare” dal nulla per forza di volontà, nemmeno si possono ugualmente far morire. Hanno vita propria, indipendente dalle vicende dei loro capi. I partiti, come le rivoluzioni, sono, non si fanno né si disfanno; solo è dato difenderli, o tradirli. Ai comunisti della seconda metà del XX secolo ed ormai ben dentro il XXI il piccolo partito è stato consegnato vivo; essi l’hanno poi dovuto difendere da vili attacchi di fianco, più che frontali, e non acconsentiranno oggi che fior di intellettuali vengano a soffocarlo nella culla, per i quali non può, o non deve esistere, o, probabilmente, non vogliono che esista.

Nella storia del suo movimento il proletariato ha conosciuto periodi di depressione: dalla seconda rivoluzione parigina, 1848, alla soglia della guerra franco-prussiana, 1867, in cui il movimento rivoluzionario si è incarnato quasi esclusivamente in Marx, Engels ed una ristretta cerchia di compagni. Dalla sconfitta della Comune parigina, 1872, all’inizio delle guerre coloniali e al riaprirsi della crisi capitalistica che condurrà alla guerra russo-giapponese e poi alla Prima Guerra mondiale, periodo durante il quale crolla la II Internazionale, Lenin in Russia con pochi compagni di altri paesi portano avanti il movimento. Con il 1926 è iniziato un altro periodo sfavorevole per la rivoluzione, durante il quale è liquidata la vittoria dell’Ottobre e l’Internazionale; in questo periodo soltanto la Sinistra italiana ha mantenuto integra la teoria del marxismo rivoluzionario ed è rivendicando integralmente quella teoria che rinasce il partito nel secondo dopoguerra, organizzazione che, formatasi già nel corso della Seconda Guerra mondiale, assunse la denominazione di Partito Comunista Internazionalista.

La qualità più necessaria di un rivoluzionario è il non aver fretta; infatti uno dei compiti specifici del partito è mantenere lo stato maggiore della rivoluzione quando la rivoluzione manca. Per contro stupiscono i pruriti di chi afferma che, sebbene il partito non esista, tuttavia occorre “muoversi, essere pratici, dire alle masse ciò che debbono fare oggi”. In sostanza siamo sempre alla famosa formula di Bernstein “Il fine è nulla, il movimento è tutto”. Può sembrare paradossale, ma la caratteristica psicologica dell’opportunismo è data dall’incapacità di aspettare, dalla fregola di fare qualcosa. Dopo aver constatato l’attuale assenza di una dispiegata lotta rivoluzionaria di classe del proletariato, anziché difendere quella dottrina che domani consentirà che l’immancabile ripresa dell’ondata offensiva proletaria, messa in moto dalle condizioni oggettive, possa orientarsi correttamente in senso rivoluzionario, gli attuali Bernstein in sedicesimo pretendono di “attualizzare” il marxismo rincorrendo ogni spurio accenno di “sovversione”. Il revisionismo consiste proprio in questa mania volontarista che, constatato come al presente non ci sono le condizioni oggettive per l’attacco rivoluzionario al potere, si illude di poter forzare la storia.

Da parte nostra, restiamo ancorati a questi semplici postulati, cioè che la emancipazione della classe lavoratrice dallo sfruttamento del capitalismo avverrà a seguito di un attacco rivoluzionario da parte delle masse proletarie dirette dall’organo politico di classe, il partito comunista; ma che per accelerare la ripresa della lotta di classe non esistono ricette bell’e pronte, manovre od espedienti. Questo ci ha insegnato Livorno 1921.
 
 
 
 
 
 


Nazional-comunisti e nazional-socialisti contro i siderurgici in Grecia

Mentre scriviamo, agli inizi di gennaio 2012, i lavoratori della fabbrica siderurgica Hellenic Halyvourgia, che si trova nella zona industriale di Aspropyrgos, vicino ad Atene, sono in sciopero da più di 60 giorni. Pur essendo limitato ad una sola fabbrica questo sciopero è uno dei più importati episodi di lotta di classe degli ultimi anni in Grecia. L’esito di questa battaglia infatti, se risultasse vittorioso, potrebbe mettere un argine al grave deterioramento delle condizioni di lavoro che il capitale e lo Stato borghese vogliono imporre alla classe operaia nel suo complesso, spinto dalla grave crisi economica che ha colpito l’economia a livello internazionale.

Il datore di lavoro dell’impresa, un Marchionne ellenico, ha annunciato da un giorno all’altro ai lavoratori l’abolizione della giornata di lavoro di otto ore su cinque giorni e l’introduzione del lavoro a rotazione, con cinque ore di lavoro ogni giorno, cioè 25 ore settimanali invece di 40, naturalmente riducendo il salario del 40%. Il 31 ottobre 34 lavoratori sono stati licenziati e altri 180 (su circa 400) sono stati minacciati di licenziamento. L’assemblea dei lavoratori ha immediatamente deciso di proclamare uno sciopero a tempo indeterminato fino al ritiro dei licenziamenti, del taglio dei salari e della nuova organizzazione del lavoro.

I lavoratori dell’acciaieria hanno giustamente cercato la solidarietà degli altri operai e il 13 dicembre si è tenuta una giornata di sciopero generale in Thriasio Pedio (una grande zona industriale del Pireo), in solidarietà con la loro lotta. Durante lo sciopero si è tenuta una grande manifestazione fuori della fabbrica a cui hanno partecipato lavoratori di altre fabbriche e categorie. Gli scioperanti hanno anche incontrato i lavoratori del canale televisivo Alter di Atene, che erano già in sciopero. Centinaia di lavoratori della zona portano ogni giorno cibo, medicinali e denaro per gli scioperanti. Sanno che questo sciopero deve vincere perché in caso contrario sarà una sconfitta per tutti. Un lavoratore siderurgico ha giustamente osservato: «Se il mio stipendio verrà ridotto da 800 a 500 euro, quale dipendente di un negozio o di un supermercato potrà richiedere un salario decente? Il suo padrone gli dirà che i lavoratori siderurgici, che lavorano in condizioni ben peggiori, guadagnano 500 euro e così quel dipendente dovrà essere contento se ne guadagna 400!»

La Hellenic Halyvourgia è una delle industrie siderurgiche più grandi della Grecia. La società ha altre due fabbriche a Volos. La produzione della fabbrica va bene, solo negli ultimi 2 anni è aumentata da 196.000 a 266.000 tonnellate di acciaio e l’estate scorsa i lavoratori hanno avuto difficoltà a prendere le ferie per il troppo lavoro. Il padrone però, appellandosi alla situazione di crisi economica, pretende di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori e ridurre i salari. Questo comportamento padronale non è isolato ma sta diffondendosi in molti luoghi di lavoro dove licenziamenti, tagli al salario e aumento dell’orario sono imposti col ricatto della chiusura dell’azienda. Inoltre la nuova legislazione varata dal governo Papandreu ha ridotto il campo di applicazione del contratto collettivo nazionale ed aperto la strada agli accordi locali, per settore. Di conseguenza, spesso i padroni hanno trovato un “sindacato” di comodo per firmare un nuovo accordo di lavoro al ribasso.

Questo sciopero potrebbe essere una buona occasione per una mobilitazione generale dei lavoratori in quella zona dove sorgono importanti complessi siderurgici (Halyvourgiki Steelwork Industry) e impianti di raffinazione del petrolio (Ellinika Petrelea), ma la maggior parte dei dirigenti sindacali di queste industrie non vuole mobilitare i lavoratori. Questo episodio dimostra ancora una volta quanto sia importante che ci si orienti, in Grecia come negli altri paesi industrializzati, alla ricostituzione di organizzazioni sindacali di classe, che sono lo strumento indispensabile per allargare e sostenere le singole lotte, per poterle trasformare in mobilitazioni sempre più generali. I siderurgici della Hellenic Halyvourgia, forti del sostegno dei loro compagni di classe, non vogliono cedere e nonostante il licenziamento di altri 16 di loro e la ferma volontà del padrone di non tornare sulle sue decisioni, sono decisi a continuare la lotta, ma potranno vincere solo se riusciranno ad allargare la mobilitazione oltre la loro fabbrica e ad estendere il movimento di sciopero. Non sarà facile perché avranno contro non solo il padronato ma anche le organizzazioni sindacali collaborazioniste e i partiti opportunisti, legati a doppio filo con lo Stato borghese.

I comunisti auspicano che questa lotta ferma e coraggiosa non solo si risolva in una vittoria, ma possa portare al completo smascheramento del tradimento dei sindacati e aprire la strada per la rinascita di un vero sindacato confederale di classe, che possa organizzare in modo centralizzato la lotta del proletariato in difesa delle sue condizioni.

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Come prevedevamo nell’articolo scritto un mese fa, lo sciopero alla Siderurgica Ellenica è arrivato ad un punto critico. Nei negoziati tra il padrone e la rappresentanza sindacale di fabbrica quest’ultima ha accettato di ridurre le ore di lavoro riducendo il salario, ma chiede che i 50 lavoratori licenziati siano reintegrati oppure che sia loro concesso il prepensionamento. Il padrone però è irremovibile. Nell’ultima assemblea solo una minoranza di lavoratori ha votato contro la prosecuzione dello sciopero e il padrone sente di avere ormai la vittoria a portata di mano.

Se questi lavoratori verranno sconfitti lo sarà per tutti i lavoratori di Grecia. Ma perdere una battaglia non vuol dire perdere la guerra; da essa bisogna trarre i necessari insegnamenti. Lo sciopero era debole in partenza perché non si è esteso allo stabilimento che lo stesso padrone possiede a Volos e perché non ha ricevuto una solidarietà fattiva, di lotta, neppure dalle altre importanti industrie della zona, Aspropyrgos.

Il Pame, sindacato legato al Partito Comunista Greco (Kke), è riuscito a prendere la direzione della lotta e ha imposto alla rappresentanza sindacale di fabbrica di dissociarsi dalle direttive degli anarchici e dell’estrema sinistra. Ma poi non ha esteso lo sciopero, ha sfruttato la difficile situazione degli scioperanti solo per i suoi interessi.

Intanto il Pame, d’accordo con la rappresentanza sindacale di fabbrica, ha permesso che si presentasse nello stabilimento il gruppo "Alba dorata", dichiaratamente nazionalsocialista, a portare la sua "solidarietà" ai lavoratori in nome della difesa dell’economia greca e della partecipazione degli operai alla gestione della produzione.

Sono queste posizioni in gran parte condivise dai nazional-comunisti del Kke. Dopo le prossime elezioni stalinisti e nazionalsocialisti non è escluso che facciano fronte comune in parlamento e nell’invitando il proletariato greco, impoverito e sfiduciato, alla lotta contro l’Europa dei plutocrati in nome della difesa della "patria" ellenica.

Se gli scioperanti hanno perso perché traditi dai sindacati e dai partiti opportunisti, questo non deve portare a concludere che bisogna fare a meno del partito e delsindacato di classe per riproporre altre forme di organizzazione. Non è una questione di forma: devono rinascere nuove organizzazioni di tipo sindacale, con nuove direzioni che si orientino con entusiasmo per la lotta di classe senza compromessi per la difesa intransigente dell’interesse dei lavoratori. Come è necessario che il proletariato si ricolleghi alla sua tradizione rivoluzionaria, al programma del comunismo di sinistra, l’unico che ha saputo trarre le lezioni della controrivoluzione.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Vicenda Fiat sull’arco di un secolo
Il fallimento del sindacalismo di regime

Il 14 febbraio la Fiom ha indetto per il prossimo 9 marzo uno sciopero dell’intera categoria dei metalmeccanici in difesa del contratto nazionale, messo in discussione, gravemente limitato o “smantellato” dalla vicenda Fiat, e contro ogni modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutela dal licenziamento senza “giusta causa” nelle aziende grandi e medie. Lo sciopero è stato indetto proprio mentre Cgil Cisl Uil stanno “trattando” con il Governo Monti una riforma del mercato del Lavoro che, nelle intenzioni governative, vorrebbe limitare se non cancellare quelle tutele.

Questa indizione è sicuramente un capitolo della schermaglia che da tempo oppone la Fiom alla Cgil e che, per il procedere della crisi e delle relative misure statal-padronali contro le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice, è destinata a trovare nuovo e continuo alimento.

È del tutto inusuale che una Federazione indica uno sciopero su un determinato argomento mentre la propria Confederazione è impegnata in trattative in merito; è come se la Fiom volesse “condizionare” la Cgil, come, del resto, la Cgil aveva “condizionato” la vicenda Fiat con l’accordo del 28/6. La mossa della Fiom pare tesa a delegittimare la casa madre Cgil: “voi trattate – sembra dire – ma noi vi diciamo che quell’articolo non va toccato”.

Come andrà a finire? Se Cgil Cisl Uil si accordano, in qualche modo, per rivedere quelle tutele, cosa farà la Fiom, ovvero il suo gruppo dirigente, che intanto ha chiamato i metalmeccanici a scioperare contro ogni modifica dell’Articolo 18? La Fiom si troverebbe con nulla in mano, con il contratto nazionale in via di smantellamento e l’articolo 18 “limitato” nella sua applicazione, come sancito dalla ennesima firma della propria Confederazione.

Per la Fiom non sarà un ruolo facile continuare nel tempo a cavalcare la tigre della protesta, nel tentativo di mettere un argine alla sua sinistra e alla sua destra. È un gioco destinato a finire non fosse altro perché, con la situazione economica che presenta il conto, il Governo tira dritto nei suoi provvedimenti che costringono tutti a scegliere: o la lotta o la rinuncia.

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Una chiave di lettura degli avvenimenti attuali ci può essere fornita da quanto è accaduto nei decenni passati nella più grande azienda metalmeccanica italiana, la Fiat, cioè le lotte e gli scontri che hanno visto la grande fabbrica torinese come protagonista e che hanno avuto effetti sull’intero movimento operaio e sindacale italiano.

Quasi un secolo fa, nel primo dopoguerra, nelle lotte del “biennio rosso” 1919-20, gli operai della grande fabbrica torinese furono protagonisti di due momenti decisivi, nel marzo e nel settembre 1920, con la vertenza dell’ora legale e l’occupazione degli stabilimenti. Entrambi gli avvenimenti, per l’effetto congiunto della non preparazione rivoluzionaria del Partito Socialista e dell’azione di pompieraggio della CGL a direzione socialista, finirono con due sconfitte decisive che chiusero quegli anni di offensiva proletaria, per dare il via al contrattacco padronale e statale che sarebbe subito passato all’impiego delle squadre fasciste contro il movimento operaio e comunista.

Durante gli anni cinquanta del secondo dopoguerra la Fiat, guidata dall’aspro Valletta, fu teatro di una perdurante campagna contro i militanti della Cgil, che rappresentavano allora la parte più combattiva del proletariato nelle fabbriche; reparti confino, provvedimenti disciplinari e licenziamenti continui nei confronti degli attivisti sindacali, finirono per ristabilire un regime di fabbrica duro e spietato con una minima presenza della Cgil nel grande stabilimento.

Questo intanto cambiava sia come tipo di organizzazione del lavoro che come forza lavoro; iniziava infatti alla fine di quel decennio il grande sviluppo della produzione industriale che richiedeva i primi fenomeni di immigrazione, prima dal Veneto e dintorni poi dal Sud, verso la grande fabbrica che richiedeva continuamente braccia.

La ripresa dell’attività sindacale, alimentata dal relativo miglioramento delle condizioni di vita, fu annunciata dagli avvenimenti di Piazza Statuto del luglio 1962; anche in quel caso innescò la scintilla un “accordo separato”, firmato dalla Uil e dal Sindacato Aziendale dell’Automobile (Sida), a chiudere una vertenza contrattuale nella grande fabbrica. La proclamazione di uno sciopero da parte della Fiom travalicò le intenzioni degli organizzatori e per tre giorni Piazza Statuto e dintorni, dove si trovava la sede della Uil, assaltata dai dimostranti, furono teatro di scontri violenti tra giovani operai Fiat e forze dell’ordine che nemmeno allora scherzavano. I dimostranti furono tacciati di tutto, di squadrismo, di teppismo, ma certo la partecipazione rabbiosa dei giovani operai di origine soprattutto meridionale negli scontri fu un segno del risveglio della combattività del proletariato della grande fabbrica, di come la nuova leva operaia sentiva stretto sia il regime di fabbrica sia quello sociale che si era instaurato allora, con il mancato inserimento degli immigrati giunti al Nord dalle regioni depresse e il loro utilizzo come manodopera di riserva a seconda delle esigenze produttive.

Anche “l’autunno caldo” del 1969 ebbe, come innesco, una vertenza Fiat per un avanzamento di categoria che avrebbe dovuto interessare un buon numero di lavoratori. Il 1° settembre gli scioperi si estesero ai vari stabilimenti; la parziale serrata di risposta della Fiat interessò 25.000 lavoratori con il ricorso immediato alla Cassa integrazione per i sospesi; fu il via di uno sciopero che terminò dopo giorni, il 6 settembre, sciopero che fu anche l’inizio delle lotte per i rinnovi contrattuali di quel periodo, per primo quello metalmeccanico, che avrebbero di molto cambiato tutto il mondo sindacale italiano. Si ebbe una contestazione anche decisa delle organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil che videro, se non minacciato, contestato il monopolio sindacale che allora avevano sulla classe lavoratrice.

Emblematico che, anni dopo, a firmare l’accordo sul Punto Unico della contingenza, momento finale di una fase di anni di continui e generalizzati miglioramenti contrattuali, fosse l’Avvocato Agnelli, presidente della Confindustria oltre che della Fiat; era il 1° gennaio 1975.

Ed è sempre la Fiat ad aprire, dopo pochi anni e dopo la crisi economica, una stagione di offensiva padronale, per ritornare a un regime di fabbrica più “regolare”, più disciplinato, più consono alle esigenze della produzione. È dell’ottobre 1979 il licenziamento di 61 operai, accusati di teppismo, indisciplina, metodi violenti, anche collusione con le BR; un’azione preparatoria per la vera svolta dell’anno successivo, quando in settembre la Fiat annunciò un piano per collocare più di 24.000 dipendenti in Cassa Integrazione per due anni.

La Fiat che, negli anni di bassi salari aveva acquisito una quota non trascurabile sui mercati esteri, si trovava a dover affrontare una situazione di vendite sfavorevole senza prospettive di ripresa in tempi brevi; era inevitabile quindi richiedere una contrazione significativa della forza numerica operaia, circostanza che avrebbe inevitabilmente modificato l’intero clima della fabbrica. La lunga vertenza di 37 giorni finì nel modo peggiore, con la marcia dei 40.000 contro i picchetti intorno a Mirafiori e per la ripresa del lavoro, e le firme di Cgil Cisl Uil che sostanzialmente accettarono l’iniziale richiesta Fiat, con buona parte dei cassintegrati destinati in un modo o nell’altro a non rientrare in fabbrica.

Dopo decenni di silenzio, di ciclica espansione produttiva e ciclica contrazione, con stabilimenti in diversi continenti ed in Italia in impianti di dimensioni ben minori dalla Mirafiori di allora, fabbriche assai più piccole e meglio controllabili e gestibili, come Melfi ad esempio, la Fiat in un momento di crisi produttiva presenta il “fascinoso” Marchionne ad Amministratore Delegato. È il 1° giugno 2004. All’inizio è tutto un latte e miele con i sindacati Confederali, Cgil Cisl Uil che vedono nel manager di origine abruzzese, che “si è fatto da solo”, un Valletta moderno e gentile, che avrebbe risolto i problemi della Fiat senza ricorrere ai “sorpassati” metodi della repressione.

E invece, ci risiamo. Dopo il trionfale sbarco negli Usa, dove la Fiat avrebbe concorso al salvataggio della Chrysler, storico marchio automobilistico di Detroit che la crisi mondiale della produzione del settore stava spingendo sull’orlo del fallimento, il film è impietoso: l’11 giugno 2010 la Fiat propone per lo stabilimento di Pomigliano, da anni con una produzione minima e con buona parte dei dipendenti in Cassa Integrazione, un piano di produzione e rilancio ma con regole diverse, per turni, riposi e pace sociale, con una vera e propria tregua sociale e sindacale a cui le organizzazioni sindacali ed i lavoratori si sarebbero dovuti adeguare senza possibilità alcuna. La firma di Fim e Uilm è di pochi giorni dopo, il 15, mentre la Fiom si ritrae dall’accordo perché, a suo dire, le pretese Fiat ledono i diritti di libera organizzazione e di normale vita sindacale. Il referendum sull’accettazione o meno dell’accordo, tenutosi nello stabilimento il 22 giugno, con la Fiom che aveva anticipato che non avrebbe firmato comunque e con la Cgil campana che invece era per l’approvazione dell’accordo, vede vincitori i voti favorevoli. A Mirafiori si ha un procedere simile, il 23 dicembre Fim e Uilm firmano un accordo che riprende pari pari l’intesa precedente, accordo anch’esso approvato dai lavoratori.

La risposta della Fiom – che trovava solo un imbarazzato e limitato aiuto dalla casa madre Cgil, preoccupata soprattutto che la ”intransigenza” della Fiom mettesse l’organizzazione fuori dalle fabbriche Fiat e, soprattutto, che aggravasse la crisi dei rapporti con Cisl e Uil – è di una debolezza sconcertante: scioperi limitati che servono più a sfogare il malcontento dei lavoratori (che ben intendono come il procedere Fiat sia l’inizio di un peggioramento certo delle proprie condizioni di lavoro) che ad una lotta decisa e senza compromessi. Questi scioperi parziali e di poche ore sono destinati a non ottenere niente, come anche quello dell’intera categoria che si era avuto il 25 giugno 2010, appunto dopo l’esito del referendum di Pomigliano, o come quello del 28 gennaio 2011, anch’esso a ratificare l’ennesima sconfitta, cioè l’accordo separato di Mirafiori.

Prova dell’indecisione Fiom è l’accordo nello stabilimento ex Bertone, in cui i rappresentanti della Rsu Fiom, in assoluta maggioranza, si adeguano al referendum positivo dei lavoratori, il cui esito era inevitabile essendo tutti in Cassa Integrazione, spinti da tutti a votare si per non far scappare la Fiat dagli investimenti che dovrebbero salvare la produzione. Per la Fiom voleva essere una mossa astuta: l’organizzazione non firma ma firmano i suoi Rsu; in realtà, un tentativo maldestro di riallacciare i rapporti con Fim e Uil e di neutralizzare la Fiat che minacciava a più riprese di togliere ogni diritto sindacale alla Fiom in un modo o nell’altro. È il maggio 2011.

La Fiom, nella sua debolezza, che la costringe a non impegnarsi in una lotta decisa che potrebbe chiuderle ogni prospettiva di sindacato “concertativo”, subito ripiega sulla “offensiva legale” che dovrebbe, a suo dire, non solo scardinare la “legalità” degli accordi di Pomigliano e Mirafiori ma anche condannare la Fiat per comportamento “antisindacale” nei confronti della Fiom, una battaglia per la legalità insomma.

La causa legale che si inizia a Torino il 6 giugno è in qualche modo condizionata dall’accordo interconfederale del 28 giugno fra Cgil Cisl Uil e Confindustria. L’accordo mette per iscritto quello che già era accaduto, cioè che accordi aziendali potevano essere stipulati o dalla maggioranza delle Rsu o da solo una parte delle organizzazioni sindacali purché tali accordi siano ratificati da un referendum fra i lavoratori. Tali accordi potevano toccare turni ed orari e quant’altro previsto dal CCNL, e, in via “sperimentale”, anche materie non previste dal CCNL; soprattutto erano impegnativi sia per le organizzazioni firmatarie sia per le loro Federazioni. L’accordo non solo quindi era la tanto ricercata ripresa dei buoni rapporti fra Cgil Cisl Uil e Confindustria ma anche un potente ceffone alla Fiom per la mancata firma e un tentativo estremo per scongiurare l’uscita della Fiat dalla Confindustria, come questa andava minacciando.

La sentenza del Tribunale del Lavoro di Torino arriva il 16 luglio e conferma la piena validità degli accordi di Pomigliano e Mirafiori, ma dice anche che la Fiom, in virtù della sua firma al CCNL Metalmeccanico del gennaio 2008, mantiene tutti i “diritti” di svolgere la sua attività sindacale in fabbrica. È una sentenza che non risolve il problema della Fiat, cioè di avere nei suoi impianti solo organizzazioni sindacali completamente ligie al suo volere, e che in qualche modo è la spinta decisiva per l’uscita della Fiat dalla Confindustria. Il finale è facilmente prevedibile. L’11 novembre la Fiat disdice tutti gli accordi sindacali in essere nei suoi stabilimenti e il 13 dicembre firma con Fim ed Uilm e altri un accordo Aziendale che riprende tutti i punti dell’accordo di Pomigliano e Mirafiori: turni, riposi, tregua sociale, e quant’altro.

Era inevitabile che questo finale fosse l’inizio di una piccola crisi interna Fiom, che fino a quel momento aveva visto notevolmente compatti intorno al segretario Landini gli esponenti della corrente “la Cgil che vogliamo” e della “Rete 28 aprile” che, con Cremaschi, cercano da tempo appoggi anche al di fuori della Cgil, nei vari movimenti alternativi come anche nel mondo variegato e complesso dei Sindacati di Base. Al CC della Fiom del 10 gennaio è stato presentato un documento minoritario della “sinistra” che accusava Landini di avallare nei fatti l’accordo del 28 giugno 2010 con l’iniziativa di richiedere un referendum in Fiat sul Contratto Aziendale del dicembre.

A noi non interessano affatto le lotte interne alla Fiom e alla Cgil, ma non possiamo non rilevare anche in questa occasione come le varie componenti del sindacalismo “sinistro” nella Fiom alla fine girano intorno al vero problema, che non vogliono affrontare: se cioè la loro organizzazione, in sé e per i legami ideali ed organizzativi che la tengono stretta alla Cgil, abbia veramente la volontà di mobilitare i lavoratori in una difesa intransigente delle proprie condizioni.

Questa difesa non può non passare dalla negazione delle necessità economiche aziendali e nazionali. Se non si denuncia ogni solidarietà con queste necessità borghesi, lo spazio per una qualunque azione sindacale si riduce quasi a nulla. Si assiste infatti, alla fine, ad una battaglia infinita su capelli che si spaccano i quattro e poi in quattro, in un festival di proposte e iniziative tanto rumorose quanto fatue. Perché il problema non è contrapporre uno sciopero di 4 ore a uno di due, o cercare la solidarietà fra i NO-TAV anziché con la casa madre Cgil, ma costruire uno schieramento difensivo sindacale di classe che rifugga dalle scorciatoie come dai bizantinismi, uno schieramento di classe che unisca i lavoratori al fuori delle aziende e delle esigenze aziendal-nazionali, al di sopra delle sigle sindacali e politiche.

* * *

La cronologia che abbiamo in maniera sintetica esposto permette di trarre alcune lezioni non contingenti:

1. La crisi economica e industriale riduce le possibilità del sindacalismo concertativo e nazional/aziendale, da noi denominato “di regime”, non solo di poter strappare nuovi seppur minimi miglioramenti per la classe, ma perfino della stessa difesa conseguente e decisa dello status raggiunto. La crisi infatti costringe i Sindacati di regime a stringersi apertamente intorno alle esigenze dell’economia nazionale e aziendale, le quali oggi richiedono peggioramenti per la classe operaia.

2. La crisi, con le sue condizioni assolutamente sfavorevoli per una politica sindacale rivendicativa, toglie ai Sindacati di regime ogni base per il naturale loro incanalare le speranze e prospettive dei proletari sul binario del riformismo e della collaborazione di classe. La crisi ha travolto, con le loro illusioni progressiste, tutti i tradizionali partiti a base operaia, e si è così spezzata quella cinghia di trasmissione con l’opportunismo, che ben funzionava ed era necessaria in un senso e nell’altro. Rimane solo il terreno dell’ubbidienza alle imposizioni del capitale e del servilismo alle sue istituzioni.

3. La Fiom è rimasta un passo indietro, non ha inteso il cambiamento dei tempi, ed allora cerca una impossibile conciliazione delle proprie illusioni riformiste con le esigenze aziendali e nazionali. In Fiat si affanna a dimostrare che l’Azienda non sa fare il suo mestiere, non “investe”, non conquista mercato; come per la vertenza Fincantieri pretende commesse statali, militari o civili, per dare lavoro ai Cantieri, ai minimi produttivi per la concorrenza internazionale.

4. Ne segue che la Fiom ha sì un rapporto consolidato e anche di fiducia con buona parte dei lavoratori, della Fiat e non, ma non può mobilitarli a piacere, e mantenersi all’interno dei confini della legalità e della moderazione; anche per le oggettivamente ridotte capacità di lotta della classe, su quel terreno.

5. La Fiom non ha nemmeno un appoggio chiaro e deciso dalla Cgil, che mira solo al buon rapporto con Cisl e Uil, tutte tre, ora in quattro con l’UGL, al capezzale dell’economia nazionale e che vedono con fastidio ogni minima vivacità e indipendenza della classe lavoratrice.

6. La Fiom è d’altronde nella Cgil, lì sono tutti i suoi riferimenti, interni al regime borghese, oggi e in prospettiva; deve allora assolutamente trovare un modus vivendi che non la isoli dalla casa madre. La Fiom quindi non può indire lotte decise, che travalichino determinati confini di convenienza e compatibilità nazionale e aziendale. Deve sì sbarrare a “sinistra” per mettere un argine a lotte vere, ma lo deve fare con cautela estrema perché, anche involontariamente, la sua azione da un lato potrebbe disturbare i “manovratori”, dall’altro suscitare genuine reazione della classe.

7. Cgil e Fiom pari sono, e l’azione futura della classe dovrà sbarazzarsi di questi due organismi che a modo loro, con tempi loro, ora apertamente, ora ambigui, ora con velleitarismi difendono le sorti gloriose delle aziende e dell’economia nazionale.