Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 363 - gennaio-febbraio 2014 [.pdf]
PAGINA 1
– A chi converrà o sarà costretta a vendersi la borghesia ucraina ?
– Impotenza della piccola borghesia
Fratelli di classe
– Compatibilità di fascismo e antifascismo
PAGINA 2
Riunione generale del partito - Sarzana - 21-22 settembre [RG117]: La questione militare: La Comune di Parigi - Economia marxista: Il comunismo nei Grundrisse di Marx - Guerra fra bande in Siria, tutte ubbidienti al Capitale
Per
il sindacato
di classe
Padrone pubblico e privato nelle rivendicazioni operaie
– Genova, Firenze, Pisa, Livorno, Lucca... QUESTA È LOTTA di CLASSE ! Lezioni dello sciopero dei tranvieri
Attività del partito nei sindacati: Nostra riunione organizzativa a Torino - Una assemblea alla ABB - Netturbini genovesi si esprimono per organizzarsi alla base
– La classe operaia in Cambogia affronta coraggiosa il piombo borghese
Corea: 22 giorni di sciopero dei ferrovieri
– Tessili in Bangladesh impongono con la lotta aumenti salariali
PAGINA 5 – Lavoratori delle raffinerie in Scozia fra crisi e collaborazionismo dei sindacati e dei Laburisti: La storia di Grangemouth - I Fondi pensione - Squallore laburista - Contro i lavoratori - Imbrogli “scozzesi” - Il sindacato capitola
PAGINA 6 – Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (continua dal numero 362): 18. La dittatura delle Sette Sorelle - 19. Le api sul miele - 20. Immoralità o rendita fondiaria ? - 21. Italia vaso di coccio
 
 
 
 
  
 
 
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A chi converrà o sarà costretta a vendersi la borghesia ucraina ?

Sul finire del 2013 in Ucraina si sono verificate numerose manifestazioni di protesta per la sospensione della firma dell’accordo di associazione tra il Paese e l’Unione Europea, che si sarebbe dovuto sottoscrivere a Vilnius a fine novembre. Le proteste hanno avuto una forte eco in Occidente, dove l’appoggio della stampa borghese è stato pressoché unanime.

Il paragone con i fatti del 2004, venuti alla babbea cronaca borghese come “Rivoluzione Arancione”, è però plausibile e le similitudini non mancano. Oggi come allora la protesta, interclassista, ha riguardato soprattutto le regioni centro-occidentali, che storicamente e culturalmente sono più legate all’Europa che alla Russia. Anche in questa occasione si può notare la divisione del Paese, alimentata dai vari imperialismi.

Le manifestazioni, prevalentemente pacifiche, hanno avuto momenti di tensione a Kiev: nella notte del 30 novembre, i Berkut, le forze speciali, hanno sgomberato con la forza la piazza Maidan dove alcuni manifestanti si erano accampati, mentre nel pomeriggio del giorno successivo alcuni dimostranti, dopo aver occupato il municipio e la sede dei sindacati, hanno attaccato con un bulldozer il palazzo dell’amministrazione presidenziale, venendo però respinti dalla polizia.

L’opposizione ha ottenuto che si votasse una mozione di sfiducia al governo; ma, nella votazione del 3 dicembre, la mozione è stata bocciata.

I dimostranti erano di varia natura: in piazza si sono viste sventolare insieme alle bandiere dell’Ucraina e alle blu-stellate dell’Unione Europea quelle del partito di estrema destra Svoboda e le rosso-nere dell’UPA (Esercito Insurrezionale Ucraino), nato durante la Seconda Guerra mondiale e il cui principale obiettivo era l’indipendenza del Paese. E si sono viste le bandiere del partito della Tymoschenko, e di Alleanza Democratica per la Riforma Ucraina (Udar), guidato dal pugile peso massimo Vitalij Klitschko che vive in Germania da molto tempo.

Nell’Est del Paese e a Kiev vi sono state anche manifestazioni, di minor entità, a favore del governo, in contrapposizione alle altre, soprannominate Euro Maidan.

Come abbiamo scritto in passato, l’Ucraina è un paese importante dal punto di vista geopolitico e strategico; per questo gli imperialismi cercano di alimentare i diversi movimenti per potersene giovare. Che i protagonisti di questa battaglia vadano cercati fuori dai confini Ucraini è evidente e gli interventi esterni sono fatti alla luce del sole. Così sul palco in piazza è comparso anche il senatore americano McCain, veterano del Vietnam e accanito anti-russo (per quel che vale, visto che i borghesi cambiano fronte sovente a seconda dei loro mutevoli interessi), ad incitare i manifestanti e promettendo pieno sostegno alle proteste filo-UE: «La vostra protesta pacifica sta ispirando il Paese e il mondo. L’Ucraina renderà migliore l’Europa, e l’Europa renderà migliore l’Ucraina. L’America è con voi».

Gli interessi della fantomatica Unione Europea sono prevalentemente quelli della Germania, alla quale fa gola installare le proprie aziende sul suolo Ucraino, dove i salari non sono distanti da quelli cinesi. Il governo tedesco punta per le prossime elezioni presidenziali del 2015 sul partito di Vitalij Klitschko. L’Udar, che alle elezioni del 2012 ha ottenuto il 14% dei voti, si è costituito nel 2010 con gli aiuti della Fondazione Konrad Adenauer, strettamente allineata alla Cdu, partito del cancelliere Angela Merkel ed è oggi osservatore esterno del Partito Popolare Europeo.

Ma l’altro attore, la Russia, continua ad avere il coltello dalla parte del manico, e anche questa volta ha vinto la battaglia, che per ora si combatte a colpi di contratti commerciali. Mosca ha agito preventivamente per imporre la sua pressione su Kiev: già verso la fine del 2012 ha ridotto le importazioni di tubature dall’Ucraina, e a luglio del 2013 ha deciso di non prorogarle affatto per i restanti sei mesi dell’anno. Nel giugno 2013 ha annunciato al Wto, di cui entrambi i Paesi sono membri, di voler adottare alcune misure volte ad aumentare le imposte doganali sui prodotti ucraini, e in particolare sulla cioccolata, lo zucchero e il carbone. Alla fine di luglio è stata vietata l’importazione nella Federazione Russa dei prodotti della Roshen (uno dei maggiori produttori di confetteria ucraini). Infine, stando alle autorità doganali ucraine, a partire dal 14 agosto 2013 il Servizio doganale federale russo avrebbe incluso tutte le merci provenienti dall’Ucraina nella lista di quelle “ad alto rischio”, il che significa che le esportazioni ucraine in Russia già dalla fine di luglio scorso hanno iniziato a subire controlli “non autorizzati”; in base alle stime ucraine le perdite relative potrebbero ammontare a 2,5 miliardi di dollari.

Ad ulteriore riprova del ruolo imprescindibile di Mosca per l’economia ucraina riportiamo alcuni dati dell’Ente Statistico nazionale (Ukrstat), secondo cui (dati 2012) la Russia è il principale cliente per 17,6 miliardi di dollari e il primo fornitore per 27,4 miliardi. Tra gli altri mercati di sbocco per i prodotti ucraini figurano Turchia (3,7 miliardi di dollari) ed Egitto (2,9), mentre tra i fornitori Cina (7,9 miliardi di dollari) e Germania (6,8).

L’altra fornitura determinante su cui può far leva la Russia è quella del gas. L’Ucraina paga mille metri cubi di gas russo oltre 400 dollari, al netto di uno sconto di circa 100 dollari stabilito con il patto di Kharkiv del 2011, in cambio della permanenza della flotta russa a Sebastopoli, in Crimea. Questo prezzo fu stipulato tra Putin e la discussa leader delle proteste del 2004, Yulia Tymoshenko (attualmente in galera), con validità fino al 2019 e che Yanukovich stava tentando invano di rinegoziare.

Il governo ucraino, consapevole che non si può staccare dalla Russia, promette di vendersi nello stesso tempo a Bruxelles e a Mosca per cercare di spuntare da entrambi un qualcosa a sostengno della sua economia all’orlo della bancarotta. Il risultato è stato che la Russia ha promesso un acquisto di 15 miliardi di dollari in titoli di Stato ucraini e condizioni di favore sulle tariffe del gas, ridotte da 400 a 268,5 dollari ogni mille metri cubi. Secondo il primo ministro ucraino Mykola Azarov si è trattato di un accordo “storico”, anche perché l’associazione all’Unione Europea avrebbe portato il Paese «al fallimento e al crollo socioeconomico». La Russia confida inoltre nell’entrata dell’Ucraina nella sua Unione doganale, a cui attualmente prendono parte anche Bielorussia e Kazakistan.

Un altro attore dietro le quinte è la Cina. Non a caso il presidente Ucraino è volato a Pechino il 6 dicembre per stipulare accordi con suo omologo Xi Jimping. I rapporti commerciali tra i due paesi sono cresciuti molto nell’ultimo decennio; l’Ucraina è diventato il terzo fornitore di materiale bellico alla Cina. Inoltre qualche mese fa sono stati ceduti a Pechino 100 mila ettari di ottimo terreno agricolo, e ci si ripropone di cederne ancora sino a vendere agli agricoltori cinesi quasi tre milioni di ettari, il 5% del totale.

I dati sulla popolazione Ucraina sono lo specchio del dissesto economico del paese; secondo le fonti dell’ONU il numero di abitanti da 49.057.226 nel 2001 è sceso a 45.802.721 nel 2012 e la stima per il 2013 è di 45.529.000, ciò vuol dire che in poco più di un decennio si sono persi oltre 3.200.000 abitanti, il 6,5%!. Questo è dovuto essenzialmente all’emigrazione. Nonostante ciò il paese rimane per il capitale un potenziale grande mercato da riempire di inutili merci.

La produzione industriale ha avuto un tracollo con un decremento del 5,8% nel 2009 e addirittura del 21,9% nel 2010, per poi crescere del 11,3% nel 2011 e del 7,7 nel 2012. Ma le stime del 2013 indicano di nuovo un decremento del’1,8%, quindi nel 2013 la produzione è ancora inferiore del 14% rispetto al massimo raggiunto nel 2008. Il bilancio commerciale tra esportazioni e importazioni è costantemente negativo dal 2005 ad oggi. È quindi facile comprendere come lo Stato ucraino sia facile preda degli agguerriti avvoltoi che risiedono a Berlino, Mosca, Pechino e Washington.

In questa contesa l’unico attore che a noi interessa, la classe proletaria, attualmente è fuori scena, mentre gli spetterebbe il ruolo di protagonista. L’economia dell’Ucraina è critica, la classe media, quella che più si ribella attualmente, è stata spazzata via dalla crisi, ma le condizioni di tutte le classi inferiori sono peggiorate enormemente. Le manifestazioni di questi giorni sono sicuramente scaturite dalla crisi, ma sono estranee e contrarie ad una ripresa della lotta proletaria di classe, che noi attendiamo con certezza.

 

 

 

 


Impotenza della piccola borghesia

Nei momenti critici, seppure non rivoluzionari, si muovono anche i sassi. Così per la piccola borghesia, incatenata alle sue micro-proprietà, e che può scivolare in condizioni addirittura al di sotto di quelle del proletariato. Non sono più questi i tempi in cui il regime del grande capitale, col sonnecchiante controllo del suo Stato ladrone e sciupone, le permetteva qualche privilegio e di campare sull’evasione fiscale.

Il cosiddetto “movimento dei forconi”, nel quale vorrebbero intrupparla, ha coinvolto il settore del piccolo commercio al dettaglio, un comparto parcellizzato, a conduzione familiare e che, per la generale crisi economica che contrae le vendite e non potendo competere con la grande distribuzione, è ridotto alla chiusura delle attività. Altri strati intermedi si sono aggiunti, compresi i sopravvissuti ibridi sociali della infinita gamma di lavoratori che dispongono di un piccolo capitale e sono sfruttatori di se stessi, come artigiani, piccoli trasportatori, contadini, tassisti.

Benché il procedere della centralizzazione capitalista li stritoli giorno dopo giorno, la loro protesta non può che rimanere un vano lamento reazionario, sia rispetto alle rivendicazioni, immediate e storiche, della classe operaia, sia dallo stesso punto di vista capitalistico: si trovano a difendere un mondo che non c’è più.

Vista la gravità dell’attuale situazione, i piccoli borghesi sono quindi sospinti verso il sottoproletariato. Lo riprova il loro sprezzante commento verso gli operai in sciopero, accusati di essere degli scansafatiche! E del sottoproletariato assumono le ideuzze ottuse e reazionarie. Gli argomenti uditi nei recenti “presidi” sono una raccolta dei luoghi comuni ed assurdità malamente apprese dai media, che li conducono come pecore ed ostentano le loro simulate “mobilitazioni”, assecondate se non ispirate dalle questure, con sventolio del tricolore e al canto dell’inno nazionale.

Il rimedio starebbe nel governo nazionale che, ripreso a Bruxelles il controllo della Banca centrale, stampi denaro a volontà per far riprendere il ciclo produttivo. La qual cosa, in realtà, è già stata fatta in passato, e lo sarà domani, ma senza risolvere per niente la sottostante crisi di sovrapproduzione. Ed ovviamente altro rimedio sarebbe quello di ridurre i costi e gli sprechi della “politica”.

Un movimento politico, un partito, vitale ed autonomo della piccola borghesia è ormai impossibile ed è inevitabile che ad informarla, inquadrarla e torchiarla sia il partito del grande capitale, sotto veste democratica o fascista: da un Pd al M5S a Casa Pound, facendone delle truppe della controrivoluzione e delle bande bianche-nere-brune. A meno che, domani, rinunciato alla sua sopravvivenza come mezza-classe, si metta a rimorchio di un proletariato all’attacco e si sottometta alla dittatura rivoluzionaria del partito comunista.

Per addivenire a questo capovolgimento del fronte sociale occorre che il proletariato, col suo partito e col suo movimento, si tenga fermo sulle sue sue posizioni, programmatiche ed organizzate, senza in nulla far proprie le illusorie rivendicazioni di semi-classi storicamente sterili.

In queste settimane, al contrario, si sono uniti a mercatari e padroncini falliti, oltre agli immancabili studenti e centri sociali, anche una parte dei salariati del commercio (commessi, cassiere, ecc.), finiti lì per grave smarrimento della loro appartenenza di classe, che si concreta nella presente mancanza di un loro partito e di una loro propria organizzazione sindacale; ma chiedevano aumenti salariali e orari di lavori decenti.

 

 

 

 


Fratelli di classe

A Prato una esplosione di bombole di gas si è portata via le vita di sette operai cinesi. Abitavano in un dormitorio all’ultimo piano di un capannone industriale situato al centro della zona del “Pronto Moda”, una miriade di piccole e piccolissime aziende di produzione di abbigliamento femminile, attualmente il più grande centro di produzione e vendita di Europa. Da tutte le parti dell’Europa, da est come da nord e sud vengono compratori ad acquistare il made in Italy intriso del sangue e del sudore operaio.

Questo accade non da oggi, sono ormai venti anni che il capitale cinese ha iniziato la penetrazione in questa zona d’Italia. Gli imprenditori cinesi del settore tessile e degli accessori, così come in altre parti d’Italia, Napoli, Milano, Padova, ma a scala minore, hanno investito in capannoni, acquistati o in affitto, macchinari e prodotti greggi, prevalentemente provenienti dalla stessa Cina, e mano d’opera anch’essa importata direttamente dalla Cina, in forma legale o, come in questo caso, clandestina.

Il miraggio della “ricchezza occidentale” spinge ad emigrare questa parte della classe operaia cinese (piccola relativamente alla Cina), costretta a piegare la schiena ai nuovi mandarini, i capitalisti cinesi. Così sono almeno venti anni che la Cina esporta non solo merci ma intere aziende, con tutta la mano d’opera necessaria, ed un sistema di vita e di lavoro esattamente uguale a quello vigente in Cina, fatto di sfruttamento bestiale, bassi salari, uno-due euro l’ora, orari, anche notturni, di almeno 12 ore, impossibilità di qualsiasi autonomia anche individuale: dormire-mangiare-lavorare, questa la vita cui è costretto il proletario cinese.

Oggi, a tragedia consumata, la Unione Industriali di Prato ha dichiarato che loro lo avevano detto, che le aziende cinesi andavano controllate e repressa la loro illegale virulenza capitalistica; che avevano fatto pressioni sulla magistratura, che ha accampato però carenza di organico; e che poi tutti i presunti controllori sono corrotti, prendono soldi, mazzette, compresa la guardia di finanza e tutti gli organi dello Stato.

Certo questi non potevano essere da meno degli stessi industriali pratesi, per i quali l’invasione cinese ha rappresentato la fortuna. Dopo la crisi irreversibile del cardato e dei prodotti di bassa qualità, in parte si sono riconvertiti in proprietari fondiari, affittando o vendendo capannoni, fondi, magazzini, palazzi, negozi, ristoranti, fabbriche intere, tintorie, tessiture, ecc. guadagnando fior di milioni, in parte hanno proseguito la produzione tessile come fornitori delle ditte cinesi a Prato, e di alta qualità, per la penetrazione del made in Italy fra i nuovi ricchi, fra i quali i borghesi cinesi di Cina, che si aggirano ormai sui 100 milioni, un mercato di tutto rispetto.

Chi vuole la ripresa dalla crisi non ha da attendersi che un simile virulento capitalismo, quello di sempre, quello che meglio riesce a produrre il plusvalore. Come il capitale e i borghesi “pratesi” si intendono perfettamente e fanno ottimi affari con il capitale e i borghesi “cinesi”, così non occorre esser cinesi per far parte della mondiale classe operaia, e anche le fabbriche di Italia e del ricco mondo occidentale sono piene di simili supersfruttati operai a trattamento “cinese”.

 

 

 


Compatibilità di fascismo e antifascismo

Che democrazia e fascismo siano le due facce della stessa medaglia dello Stato borghese e antiproletario non è una novità, almeno per noi comunisti.

Il patto di pacificazione tentato nel 1922 dal Partito Socialista con i fascisti è cosa nota. Meno noto è forse il tentativo dei socialisti di fare un governo insieme ai fascisti.

Sul giornale del Partito Comunista d’Italia ancora non degenerato, Il Comunista, del 30 luglio di quell’anno è un articolo titolato “ Turati va dal Re” dove, a riprova di quanto valesse il proclamato antifascismo del Partito Socialista, si riporta un suo ordine del giorno improntato al collaborazionismo e che “apre” alla sua partecipazione diretta ad un governo con i fascisti, anche se con le parole cifrate del politicantismo.

Leggiamone un brano:

«Poiché l’ordine del giorno risultava per taluni equivoco nella sua dizione, cioè non precisava in maniera ben evidente l’intenzione dei socialisti di partecipare al Governo, furono chieste in proposito delle spiegazioni ai deputati socialisti. Uno dei leaders così parlò ad un redattore dell’“Epoca”: – Il collaborazionismo è stato votato a grande maggioranza – Andrete dunque al Governo se si fa un “Gabinetto di sinistra”? – Certamente – In quanti? – Abbiamo per ora un programma minimo. I fascisti dicono: per la nostra sicurezza è necessaria una “puntarella destra”. E si offrono per andare al Governo: o quanto meno si fanno rappresentare da Codacci Pisanelli. Noi a nostra volta diciamo: se è vero che volete un ministero di pacificazione, di restaurazione della Legge, eguale per tutti, eccoci qua pronti a collaborare. Date pure una puntarella alla estrema Destra. A patto che la controbilanciate con una “puntarella alla estrema sinistra”. Ché se ciò non vi piace, fate a meno dei destri e dei sinistri. In altri termini: o tutte e due le estreme incluse, o tutte e due escluse. È chiaro? – Chiarissimo».

I socialisti e i riformisti degli anni ’20 anticipano in maniera evidente che anche in futuro democratici e antifascisti di tutte le gradazioni saranno pronti ad appoggiare qualsiasi regime fascista o nazista, pur di fermare il loro vero ed unico nemico: il proletariato.

 

 

 

 

 

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Riunione generale del partito a Sarzana

21-22 settembre [RG117]


 - Corso dell’economia mondiale
 - Attività sindacale del partito in Italia
 - Scioperi fuori dai sindacati in Gran Bretagna
 - La questione militare: La Comune di Parigi
 - Economia marxista: Il comunismo nei Grundrisse di Marx
 - I concetti di Stato e di Rivoluzione nel pensiero borghese
 - Evoluzione della crisi in Siria
 - Storia del movimento operaio in Usa: gli I.W.W. [ resoconto esteso ]
 - Per una storia dei sindacati in America Latina
 - Democrazia e origine del movimento operaio in Italia


 La questione militare: La Comune di Parigi

Pietre miliari in campo teorico della gloriosa esperienza della Comune di Parigi sono: l’Indirizzo del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, scritta da Marx negli ultimi giorni dei combattimenti sulle barricate, le due bozze di redazione de La guerra civile in Francia, lettere, appunti e documenti di Marx e Engels, i molti scritti di Lenin, di Trotzki e della Sinistra Italiana.

Si giunse alla proclamazione della Comune di Parigi sotto l’incalzare di fatti politici e militari che imponevano scelte decise e tempestive che avrebbero potuto essere prese solo da un partito rivoluzionario ben radicato e sicuro del suo ruolo storico. Così non fu, anche perché, come Marx in alcune precedenti lettere aveva avvertito, le sezioni francesi dell’Internazionale si erano svuotate per l’arresto o la fuga all’estero dei suoi migliori uomini. La borghesia francese si era mossa per tempo contro la minaccia proletaria istituendo all’inizio della guerra franco prussiana tre processi per indebolire le organizzazioni proletarie.

Possiamo quindi meglio noi capire gli errori commessi.

Anche in una decina di importanti città francesi furono proclamate diverse Comuni ma, scollegate le une dalle altre, furono facilmente represse dalle forze governative.

Abbiamo esposto una cronologia divisa per periodi. La prima dalla disfatta militare francese nella Battaglia di Sedan alla proclamazione della Comune, dal 1° settembre 1870 al 17 marzo 1871. Con la sconfitta di Napoleone III, tradotto prigioniero a Francoforte, cessa di esistere il suo regime, si forma un Comitato di Difesa nazionale favorevole a continuare la guerra mentre prende maggior impulso la richiesta per una Repubblica. Un’ancora forte partito filo monarchico è invece per una resa immediata ai prussiani al fine di raccogliere e organizzare le forze necessarie per arrestare il movimento repubblicano, restaurare il regime monarchico e conservare il potere.

I prussiani occupano circa un quarto della Francia. Il 18 settembre inizia l’assedio di Parigi, durato 138 giorni, mentre altre forze prussiane sono impegnate nell’assedio della fortezza di Metz. Il gen. Bazaine, a capo dell’armata posta a difendere quell’ultimo baluardo francese, tentò una resistenza, disorganizzata e puramente formale, e dovette arrendersi il 27 ottobre con oltre 100 mila soldati e un ingente quantitativo di materiale bellico. Questa ingloriosa fine fu considerata da tutta l’opinione pubblica ulteriore conferma dei piani filo monarchici e rafforzò il movimento repubblicano.

Si completa l’assedio prussiano con nuove truppe, oltre 235 mila uomini e 900 cannoni, ciascuno dei quali dotato di quasi un migliaio di colpi. Il Comitato di Difesa cercò di alleggerire la pressione su Parigi aprendo altri fronti a Sud della capitale e arruolando nuove reclute, ma tutti i tentativi di sortita per rompere l’assedio si rivelarono infruttuosi mentre si aggiungevano ulteriori sconfitte nel fronte meridionale. L’unica vittoria fu quella delle truppe comandate da Garibaldi a Digione, ma non fu sufficiente a ribaltare la situazione.

Il 5 gennaio 1871 iniziano i bombardamenti su Parigi, più a scopo politico e dimostrativo, come scrisse Engels, che col reale proposito di far così cadere la capitale. Intanto l’esercito francese si sfalda, in buona parte ripara disarmato in Belgio e in Svizzera, centinaia di migliaia sono prigionieri dei prussiani. Il 26 successivo viene firmato un armistizio per la sospensione dei combattimenti con la cessione di tutti i forti della difesa esterna e il disarmo completo dell’esercito regolare. Le centinaia di battaglioni della Guardia Nazionale sono le uniche forze armate lasciate a difesa della capitale, come guardia civica.

I prussiani accordano il tempo necessario per eleggere una nuova Assemblea Nazionale che possa legalmente negoziare la pace con la Germania. Le elezioni nei territori non occupati segnano un forte prevalere della destra monarchica, mentre a Parigi del composito fronte repubblicano. Si apre così lo scontro tra il governo nazionale, ora a Bordeaux e diretto da Thiers, che aveva represso ferocemente i moti repubblicani nel 1832, e quello parigino. Thiers iniziò subito sopprimendo la paga alla Guardia Nazionale per il periodo dell’assedio e ordinandone la consegna dei cannoni. Revoca anche il blocco degli affitti e delle scadenze commerciali, concesso nel luglio 1870 a causa delle grandi demolizioni iniziate per realizzare il nuovo assetto urbanistico della capitale che prevedeva la costruzioni di grandi viali, atti anche a neutralizzare l’effetto di eventuali barricate rivoluzionarie.

I delegati della Guardia Nazionale si organizzano in un sistema federativo attorno ad un Comitato Centrale, anche se i vari battaglioni dislocati nei 20 Municipi in cui è divisa e amministrata la città conservano la loro autonomia. Mantengono anche la prerogativa di eleggere i propri capi (il comando fu offerto a Garibaldi, che rifiutò), mentre il Governo di Thiers ne nomina invece uno di suo gradimento. La Guardia Nazionale sposta i suoi 400 cannoni sulla sommità della collina di Montmarte e nel quartiere di Belleville.

Il gen. Vinoy, fedele bonapartista, è nominato da Thiers governatore militare di Parigi e il 17 marzo riceve l’ordine di sequestrare i cannoni della Guardia Nazionale. In base all’armistizio infatti è consentito al governo francese solo una forza di 3 mila poliziotti e 15 mila soldati.

La cronologia riferisce sui 72 giorni della Comune dal 18 marzo al 28 maggio.

Il maldestro tentativo di Vinoy, all’alba del 18 marzo, di impossessarsi dei cannoni di Montmartre senza aver predisposto adeguati traini per scenderli dalla collina, gli spari contro le sentinelle, la confusione generata dagli ordini concitati, richiamarono gli abitanti ed i vicini battaglioni della Guardia che respinsero l’assalto.

All’ordine del gen. Lacomte di sparare sulla folla molti soldati e sottufficiali si rifiutano e fraternizzano con la popolazione; nel pomeriggio alcuni soldati del suo 88° regimento lo arrestano. Un individuo sospetto che in abiti civili stava ispezionando le prime barricate erette nel pomeriggio fu arrestato e poi riconosciuto come il gen. Thomas. Saranno entrambi fucilati dagli insorti nel pomeriggio.

Il gen. Vinoy, visto il fallimento dell’operazione, nella tarda mattinata ordina la ritirata e fugge a Versailles con la maggior parte del governo e dell’esercito; altri funzionari abbandonano Parigi quando sorgono le prime barricate.

Il Comitato Centrale della Guardia Nazionale si mette a capo della rivolta scoppiata all’improvviso, gli insorti occupano tutte le sedi politiche e militari abbandonate dai governativi fuggiti e sull’Hotel de Ville issano la bandiera rossa.

Il Comitato Centrale della Guardia Nazionale non era un partito politico unico con un chiaro programma rivoluzionario ma un insieme di forze diverse con forte presenza di blanquisti, proudhonisti, bakunisti e comunisti dell’Internazionale. Questa fu la grande contraddizione che generò una serie di pesanti errori che Marx analizzò in La guerra civile in Francia.

I principali furono due. Il primo, non aver opposto alcun contrasto armato alla disordinata ritirata dell’esercito di Thiers e non aver marciato immediatamente su Versailles, rimasta senza valide difese organizzate, per annientare le strutture di potere di Thiers. Il secondo fu che il Comitato Centrale della Guardia Nazionale depose troppo presto il suo potere nelle mani della Comune. Altri gravi errori di quei primi giorni furono di non aver occupato la Posta Centrale e la Banca di Francia che, rimasta indipendente, finanziò il governo di Thiers nei 72 giorni della Comune con ben 260 milioni di franchi contro i 16 versati alla Comune.

La Comune non aveva predisposto alcun piano militare per un’insurrezione e nemmeno ne organizzò uno successivo per difenderla. Persisteva l’autonomia federale delle centinaia di battaglioni dei 20 Municipi in cui era divisa la città. L’assenza di un valido comando centralizzato ne indebolì l’efficacia militare e la rapidità delle decisioni mentre, nei giorni seguenti, le forze versagliesi subito occupavano l’importante e strategico forte di Mont-Valerien. Così scriverà Garibaldi: «La Comune di Parigi è caduta perché a Parigi non esisteva alcuna autorità, ma solo l’anarchia».

Nei giorni seguenti il Comitato Centrale fissa la data delle elezioni ed emette i primi provvedimenti in favore del proletariato e delle classi più povere: ripristina il blocco degli affitti e delle scadenze commerciali, libera i detenuti politici, sopprime l’esercito regolare, separa Stato e Chiesa, le toglie il finanziamento e ne requisisce una prima parte dei beni. Più della metà degli 87 membri del Consiglio della Comune eletto 10 giorni dopo è formata da socialisti di varie ispirazioni e una ventina di questi sono membri iscritti all’Internazionale.

Mentre la Comune organizza il suo governo in ambito politico e continua a trascurare quello militare, Thiers inizia la sua offensiva con l’aiuto di Bismarck. Il prussiano permette il rientro di decine di migliaia di soldati e ufficiali prigionieri e il reclutamento di nuove forze nelle provincie rurali così che l’esercito versagliese raggiunge un totale di 130 mila soldati cui si aggiungono altri 300 cannoni trasferiti da altre piazzeforti.

Come risposta a un primo assalto dei versagliesi, i Comunardi organizzano con superficialità una sortita su Versailles il 4 aprile, ma sono respinti; molti prigionieri catturati sono fucilati sul posto. Nei giorni successivi la Comune emette il decreto sugli ostaggi: per ogni prigioniero comunardo fucilato sul posto, la Comune fucilerà tre ostaggi nelle sue mani; decreto parzialmente eseguito solo negli ultimi giorni.

Sulla carta la Comune disponeva di 130 mila uomini della Guardia Nazionale con almeno un minimo di addestramento ma nella pratica parteciparono ai combattimenti non più di 40 mila soldati; per disorganizzazione non vi fu un valido piano di avvicendamento nei forti e nelle trincee e, nonostante la buona disponibilità di materiale vario e armamento, non vi fu un valido rifornimento nei punti critici.

Il piano del gen. Mac Mahon, rientrato dalla prigionia, era di conquistare 4 importanti forti dei 16 che costituivano le difese di Parigi per poi colà attestarsi in forze. Dopo alcuni assalti e respingimenti iniziati ai primi di maggio, il 13 occupano definitivamente gli importanti forti di Vanves e Issy, che nemmeno i prussiani erano riusciti a conquistare. Dalle alture Parigi è così colpita con bombe incendiarie, la Comune risponde bruciando i palazzi simboli del vecchio regime e gli incendi si allargano.

Il 21 maggio, con l’aiuto di una spia, i versagliesi entrano in Parigi e iniziano a occuparne parte dei quartieri periferici. Il Comitato di Salute Pubblica, nominato dopo gli ultimi gravi insuccessi militari, ne fu informato tardi e commise l’ultimo fatale errore: lasciò liberi i consiglieri di tornare nei propri Municipi per organizzare la difesa quartiere per quartiere: nemmeno in quel frangente si pensò ad un piano centralizzato. Non era stato predisposto un piano di barricate, in cui non si credeva, nemmeno un sistema per cogliere alle spalle gli assalitori, sfondando i muri interni dei palazzi nei punti chiave della città. Sorsero quindi barricate improvvisate e mal difese.

Inizia la settimana di sangue, l’ultima della Comune. Giorno dopo giorno i versagliesi occupano la città mentre i borghesi riprendono il coraggio di sparare dalle case sui difensori delle barricate, che man mano cadono; tutti i prigionieri superstiti sono fucilati sul posto. Alle 14 del 28 maggio cade l’ultima barricata.

La repressione di Thiers, sostenuto da tutta la borghesia europea, fu tremenda, come tremenda era la loro paura per una vittoria della Comune che avrebbe infiammato tutta l’Europa. Nei giorni seguenti furono fucilati oltre 20 mila prigionieri tra combattenti o semplici sospetti di simpatia. Molte migliaia, dopo sommari processi, furono deportati nella Nuova Caledonia, molti dei quali perirono di malattie durante il viaggio di trasferimento che durava 5 mesi.

Non mancò ai comunardi il coraggio e la voglia di battersi per l’emancipazione delle classi oppresse: mancò un vero partito rivoluzionario unico e centralizzato, che con uso razionale delle sue forze difendesse la sua vittoria si da infiammare tutto il proletariato europeo.

 

 

Economia marxista: Il comunismo nei Grundrisse di Marx

La dottrina dei modi di produzione rappresenta una sezione fondamentale del materialismo marxista. Per affrontarla, all’interno dell’immensa mole di materiale a disposizione, ciò che maggiormente si presta allo scopo è la raccolta di Quaderni riuniti sotto il nome di Grundrisse, ovvero Lineamenti fondamentali di Critica dell’Economia politica. Questa miniera d’oro, divisa in due grandi libri, sul Denaro e sul Capitale, ripercorre il percorso di formazione del capitale come modo di produzione; come il valore di scambio si può trasformare in capitale e poi come produce questo capitale in generale. La genesi logica e storica del capitalismo s’intrecciano in continuazione. Come nasce il capitale dal semplice valore di scambio? Come può il valore di scambio, che proviene dalla circolazione dove si scambiano equivalenti, creare un plusvalore? Una volta formatosi, il capitale come riproduce le proprie condizioni d’esistenza? Il percorso storico che ha portato alla nascita del più sconvolgente dei modi di produzione è dipinto ad ampi tratti per approdare allo studio della contraddizione fondamentale della formazione sociale borghese, l’antitesi tra capitale da una parte e forza-lavoro dall’altra. Il capitale deve avere di fronte a sé la forza-lavoro pura, astratta. Come si formano i due poli? Da un lato come si accumula originariamente il capitale? Dall’altro come i produttori possono essere liberati da qualsiasi proprietà e dai vecchi vincoli personali?

Il compagno ha sottolineato come il filo rosso che lega questi Quaderni è l’analisi del corso storico che ha condotto l’uomo dal comunismo primitivo al moderno capitalismo e che necessariamente dovrà condurlo al comunismo superiore. In ogni capitolo, spesso in uno stesso paragrafo i diversi modi di produzione si intrecciano. Per definire una categoria propria del capitalismo se ne confrontano le condizioni di produzione con le forme precedenti e per differenziazione progressiva si arriva alla loro definizione. Questa analisi puntuale della storia mostra con chiarezza la transitorietà del capitalismo.

In questi Quaderni di preparazione del Capitale appare in chiara luce un assioma teoretico di primaria importanza: nelle pagine del comunismo scientifico non c’è mai solo la semplice descrizione del capitalismo in omaggio ad una borghese scienza da laboratorio: in controluce è sempre possibile leggere i tratti distintivi della forma successiva, il comunismo. Il capitalismo è un processo in movimento e come tale produce proprie contraddizioni specifiche (la principale tra capitale e lavoro salariato, a cui sono legate le subordinate). La soluzione del processo contraddittorio – il comunismo – è pertanto interna al processo stesso, gli è intrinseca, non viene portata dall’esterno. Essendo interna è possibile decifrarla già analizzando quel processo. Dell’equazione capitalistica il comunismo è la soluzione, questa determinata dalla forma di quella. Comprendendo il funzionamento dell’equazione, capiamo che il comunismo, in quanto sua soluzione, ha certi tratti e non può averne altri. Il comunismo, sbarazzatosi, in un processo necessariamente violento, di millenni di storia successivi allo scioglimento di quell’unione, ristabilirà l’organicità originaria ad un livello più elevato.

La storiografia e la filosofia borghesi hanno ammorbato per secoli le menti proletarie con la tesi che la storia non sarebbe altro che il dispiegamento dell’Idea di Libertà; i Grundrisse demoliscono definitivamente questo assunto ideologico e lo capovolgono nel suo opposto. La storia umana deve essere interpretata come un processo che inizia con la dissoluzione degli antichi legami comunitari, una separazione violenta di elementi prima uniti: il produttore (la comunità che si riproduce) e le condizioni della produzione (mezzo di produzione, strumenti di lavoro). Nel capitalismo la Libertà individuale sembra realizzarsi proprio quando in realtà è negata: l’individuo è legato alla comunità dominata dal capitale da una accentuata divisione del lavoro, sia tecnica sia sociale.

Analizzando lo sviluppo logico e storico del capitale nello stesso tempo si studia il movimento delle cause che portano alle crisi specificamente capitalistiche. Si passa dalle cause formali (duplicità di valore d’uso e di valore) e particolari (separazione di compera e di vendita) a quelle più generali (caduta del tasso medio di profitto, in primis). I legami, sparsi tra le pagine, sono ben chiari. La forma delle crisi moderne è quella propria del modo di produzione; studiando il funzionamento di questo ne osserviamo contemporaneamente il processo critico. Nei Quaderni troviamo una lunga disamina delle cause che portano alla sovrapproduzione, e quindi una critica in anticipo delle teorie delle crisi che colgono un solo aspetto del fenomeno perdendo di vista l’insieme. La nostra teoria è olistica, cioè studia il processo complessivo del capitalismo, in opposizione ad una scienza puramente analitica che limita lo studio ai suoi elementi costitutivi.

La descrizione del grande corso storico che separa i modi di produzione precedenti dal capitalismo, e la sua critica spietata, non si risolvono nella sua condanna come categoria, ma nel riconoscere che solo sulla base della grande industria è divenuto possibile il comunismo.

Da quando la produzione borghese è apparsa e si è affermata nei principali paesi del mondo, per poi trasformare il mondo intero a sua immagine, sono date le condizioni materiali per il passaggio al comunismo. A questo punto il proletariato non ha che da rendere esecutiva la condanna a morte dell’ultimo modo di produzione basato sul valore.

 

Guerra fra bande in Siria, tutte ubbidienti al Capitale

Nel suo intervento il compagno ha aggiornato quanto descritto sul numero del giornale precedente la riunione. Proprio in quei giorni, mentre il Mediterraneo orientale si stava riempiendo di navi da guerra e i missili parevano sul punto di essere lanciati, le diplomazie di Mosca e di Pechino si mobilitavano per arrivare ad un accordo con Washington sulla distruzione delle armi chimiche in possesso dell’esercito siriano, il che avrebbe scongiurato l’intervento armato. L’accordo è stato trovato con l’imposizione al regime di Damasco di aprire gli arsenali e permetterne la distruzione.

L’accordo ha rappresentato uno smacco per la diplomazia statunitense, e per il presidente Obama in particolare che, avendo più volte affermato di voler “punire” Assad per l’uso dei gas contro i civili, nonostante i forti contrasti all’interno della stessa amministrazione, aveva deciso per l’intervento militare, anche se limitato.

La decisa azione congiunta della Russia e della Cina, minacciate in loro interessi vitali, è riuscita a bloccare il dinamismo guerresco degli Stati Uniti, costringendoli alla marcia indietro, quello che non era successo solo pochi mesi prima per la Libia. È una nuova dimostrazione dei rapidi cambiamenti dei rapporti di forza a livello mondiale e anche della fragilità dell’imperialismo statunitense, la cui potenza militare, di gran lunga la maggiore al mondo, si fonda su una base economica che ha ormai perso la sua egemonia.

Dopo l’accordo sulla distruzione delle armi chimiche, la questione Siria è pressoché scomparsa sui media internazionali, ma la guerra civile, col suo contorno di stragi, bombardamenti indiscriminati, arresti, torture, attentati, fame e freddo per milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case, è continuata, fomentata proprio da quelli che affermano di volerla fermare, sia gli Stati che hanno la spudoratezza di dirsi “amici della Siria”, sia quelli che appoggiano Assad, Russia in prima fila, Iran e Cina.

Gli undici Paesi “amici” (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia saudita, Turchia, Egitto, Giordania) si sono riuniti a Parigi il 12 gennaio. Nell’occasione hanno dichiarato di volere ottenere, con le prossime trattative, l’uscita di scena del presidente siriano e l’avvio di una “soluzione politica” alla guerra, nuove elezioni, ecc. Hanno quindi invitato fortemente le organizzazioni dell’opposizione siriana alla partecipazione alla conferenza di Ginevra 2.

Da parte sua la Russia insiste perché alla Conferenza di Ginevra possa partecipare anche l’Iran ed esclude qualsiasi cambiamento di regime a Damasco.

Naturalmente ambedue gli schieramenti continuano a fornire armi e rifornimenti alle parti in lotta, e la guerra continua, fomentata, se ancora ce ne fosse bisogno, dalle atrocità che gruppi fondamentalisti, al soldo del Qatar, dell’Arabia saudita, della Turchia, dello stesso regime di Assad, commettono contro la popolazione. È una tattica già utilizzata nella ex Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan...

In questa situazione, la parte più radicale dell’opposizione siriana ha organizzato a Ginevra, in occasione dell’avvio della conferenza, il 24 gennaio, un presidio per riaffermare che «Ginevra 2 deve avere come obbiettivo la concretizzazione delle aspirazioni del popolo siriano alla libertà, alla dignità, alla democrazia e alla giustizia sociale». Nel documento diffuso per l’occasione si ribadisce che «l’obbiettivo deve essere quello di istituire i diritti fondamentali dei cittadini, nel contesto di uno Stato democratico, libero e sovrano, offrendo a tutta la popolazione condizioni di parità, uomini e donne, senza discriminazioni di ordine religioso, etnico e linguistico».

Non è bastato ai nostri democratici – ma tra i firmatari del documento c’è anche una “Corrente della sinistra rivoluzionaria in Siria” – l’esempio dell’Iraq, un paese più grande, più popolato, più industrializzato della Siria in cui, ristabilita una parvenza di pace dopo anni di guerra civile, dopo la tenuta di regolari elezioni democratiche, il ristabilimento delle libertà formali e l’instaurazione di un governo legittimo, il proletariato continua a vivere sotto la dittatura del capitale, in uno stato di insicurezza, di povertà, di sopraffazione continua.

Il regime di Assad, come quello del defunto Saddam Hussein, ma anche come quello di Al Maliki, l’attuale presidente iracheno, rappresenta la dittatura di un clan che si spartisce le ricchezze del paese sfruttando proletari e contadini poveri ed impedisce, con la forza, alle altre fazioni borghesi di accedere al potere. Ma questo clan al potere rappresenta ormai e difende gli interessi del capitale, nazionale ed internazionale. Il tempo delle rivoluzioni democratiche è chiuso da un pezzo e, a livello mondiale, nella fase attuale di imperialismo pieno e decadente, la democrazia è morta e sepolta non solo per noi comunisti ma anche per la borghesia. Non ne rimangono ormai che gli stanchi, ridicoli riti ad uso di un proletariato ancora irretito nel suo mito. Oggi, ancor più che un secolo fa, è un atto criminale cercare di convincere il proletariato che la democrazia sia un obbiettivo da raggiungere o da difendere.

Chi parteciperà a Ginevra 2 parlerà di pace, di democrazia, di diritti umani, ma lavorerà per nuove guerre, per difendere nuove e vecchie dittature, per stringere ancora di più le catene che avvincono il proletariato internazionale.



Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

Padrone pubblico e privato nelle rivendicazioni operaie

La questione della contrapposizione fra proprietà pubblica e privata delle aziende è un problema che periodicamente investe direttamente gruppi di lavoratori più o meno grandi e che interessa tutta la classe lavoratrice in quanto si tratta di uno dei terreni più insidiosi per il sano indirizzo e rafforzamento della lotta di classe.

Sono necessarie due premesse fondamentali per chiarire il campo e rendere comprensibile il problema. La prima riguarda la natura dello Stato. Anche su questo basilare argomento la teoria comunista si distingue e si contrappone a tutte le altre, a conferma che è la sola rivoluzionaria. Per il marxismo lo Stato è la macchina di potere della classe dominante, cioè uno strumento per lo sfruttamento della classe oppressa. Nasce con la divisione in classi della società e perirà con essa. Noi comunisti soli affermiamo che nel capitalismo ogni altra funzione dello Stato è subordinata a quella fondamentale, che è la tutela degli interessi del Capitale, industriale e finanziario, e, quindi, la sottomissione della classe lavoratrice. Lo Stato non è di tutti i cittadini ma borghese, cioè della classe che domina economicamente e politicamente nel capitalismo. E non può essere altrimenti. I lavoratori avranno il loro Stato, ma solo dopo aver conquistato il potere politico, a mezzo di una rivoluzione, togliendolo alla borghesia. Sarà anch’esso uno Stato di classe. Solo che, lo Stato proletario, non avrà la necessità di nascondere questa sua natura dietro l’ipocrita ideologia democratica dello “Stato di tutti i cittadini”: dichiarerà apertamente che il suo compito è schiacciare la resistenza della borghesia spodestata dal potere, al fine di liberare dal grembo dell’economia capitalista la già pronta economia comunista, di specie, ponendo così le basi materiali dell’estinzione delle classi e, di conseguenza, dello Stato proletario stesso.

La seconda premessa riguarda l’economia capitalista. Una organizzazione razionale, equilibrata, stabile della produzione e della distribuzione in questa società è impossibile perché le leggi di funzionamento del capitalismo conducono alla sua rovina, che si manifesta in catastrofiche crisi e conseguenti guerre di dimensioni mondiali.

Da queste premesse risulta che l’intervento dello Stato – della borghesia – nell’economia capitalista, da un lato è sempre a tutela degli interessi del Capitale, dall’altro non può modificare il corso dell’economia capitalistica impedendone la crisi generale.

Non vi è affatto una proprietà statale buona da indicare ai lavoratori in contrapposizione ad una proprietà privata cattiva. Il Capitale, che sia in mano allo Stato, a singoli capitalisti o a gruppi di capitalisti, impone le sue leggi di funzionamento alla macchina statale e alla stessa classe borghese: che comportano schiacciare la classe lavoratrice.

Tuttavia per i lavoratori pubblici il termine “privatizzazione” è spesso inteso come portatore di un peggioramento delle condizioni di lavoro. A dicembre, ad esempio, i tranvieri genovesi sono scesi in sciopero a oltranza contro il progetto di privatizzazione dell’azienda, affiancati dagli operai dell’AMIU e dell’ASTER, altre aziende municipali, minacciati da analogo processo. Gli autisti delle linee provinciali genovesi, la cui azienda, la ALI, è stata privatizzata pochi mesi fa, hanno visto decurtato il loro salario di oltre duecento euro mensili. I tranvieri fiorentini all’inizio di dicembre hanno fatto uno sciopero improvviso contro la minaccia di ulteriore privatizzazione dell’ATAF. Anche a Roma i tranvieri dell’ATAC si stanno mobilitando contro la privatizzazione e anch’essi hanno di fronte l’esempio delle linee esternalizzate (circa il 15% del totale) nelle quali le condizioni dei lavoratori sono peggiori. Su questo numero riferiamo del grande sciopero dei ferrovieri coreani, per analoghe ragioni.

Ed è vero che spesso la privatizzazione porta con sé riduzioni del personale, aumento dei ritmi, riduzioni del salario e altri peggioramenti. Non mancano però esempi di proprietà private che hanno concesso, sempre nell’interesse di garantire migliori profitti e la pace sociale in fabbrica, trattamenti migliorativi alle loro maestranze, come nel tipico caso della Olivetti.

Ma la questione va osservata più approfonditamente. In alcuni casi, nei decenni passati, i lavoratori dipendenti dalle aziende pubbliche hanno goduto di condizioni relativamente migliori rispetto a quelli del settore privato. Ma ciò era dovuto alla possibilità da parte dello Stato di ricorrere al debito quale leva per contrastare l’esaurirsi della crescita economica, manifestatosi con la crisi del 1973-’74. Proprio da allora in tutti i principali capitalismi maturi, nel cosiddetto Occidente, è iniziata l’impennata del debito pubblico, le cui briciole erano state date alla classe lavoratrice, appositamente con criteri che ne favorivano la divisione, in ciò assecondati dalle organizzazioni sindacali di regime (in Italia Cgil, Cisl, Uil).

Da anni, però, la possibilità per gli Stati borghesi di ricorrere a questa leva è andata esaurendosi perché il suo utilizzo rischia ormai di sortire l’effetto opposto, cioè di accelerare l’avanzata della crisi. È in questa situazione che più chiaramente si mostra come non vi sia contrapposizione fra proprietà pubblica e privata del capitale, ma l’una sfumi nell’altra e vi sia una identità di fini e di interessi. Alla privatizzazione di una data azienda statale (ad es. dell’Italsider da parte dell’ILVA) fa da contraltare il salvataggio pubblico del gruppo bancario Monte dei Paschi. Entrambi sono pagati dai lavoratori, come dipendenti di quelle date aziende e come contribuenti, dato che la classe lavoratrice versa la grande maggioranza, in tutti i paesi (in Italia circa l’82%), del gettito fiscale.

Proprio questa condotta dello Stato borghese nega la tesi – sostenuta dalla cosiddetta sinistra radicale e dalla destra nazionalista – che vede nella proprietà statale una difesa dei lavoratori. Perché mai la macchina statale, che consente enormi profitti al Capitale, pagati dalla classe lavoratrice, dovrebbe tutelarli? Non mancano infatti i peggioramenti delle condizioni per i dipendenti dello Stato e delle aziende ancora pubbliche. Per i primi si pensi all’età pensionabile, che ad oggi è la più alta, giungendo già a 66 anni e 3 mesi; o al blocco degli aumenti contrattuali dal 2010. Per le imprese statali si guardi al caso Fincantieri. Qui l’azienda è ancora pubblica, ma da un lato le attività sono state progressivamente esternalizzate, al punto che oltre tre quarti della forza lavoro nei picchi produttivi sono operai delle ditte in appalto, dall’altro il nucleo sempre più ristretto di dipendenti diretti ha visto erose inesorabilmente le proprie condizioni.

Questo esempio introduce un altro elemento che contraddice coloro che pongono la battaglia contro le privatizzazioni quale stella polare della lotta dei lavoratori, rivendicando, al contrario, la nazionalizzazione delle aziende dei settori cosiddetti strategici. Ciò che determinava una condizione relativamente migliore dei lavoratori delle aziende pubbliche non era solo la possibilità di indebitarsi da parte dello Stato, ma anche, e in modo determinante, la dimensione delle aziende. Questo fattore agisce evidentemente anche nel settore privato.

Quindi una battaglia davvero importante, piuttosto che per il mantenimento o il ritorno alla proprietà pubblica dell’azienda, è quella per l’identico trattamento normativo e salariale per tutti i lavoratori di un determinato posto di lavoro (dal cantiere navale, al commercio e logistica, al trasporto pubblico locale, alla scuola, alla sanità) a prescindere dall’azienda di appartenenza, “esternalizzata” o no.

Vi è poi la questione delle aziende e dei settori che svolgono servizi sociali, la sanità, la scuola, la raccolta dei rifiuti, i trasporti pubblici, il cui buon funzionamento e la bassa tariffazione interessa primariamente la classe lavoratrice. I lavoratori di questi settori, quando scioperano in difesa delle proprie condizioni, si vedono accusati di danneggiare gli “utenti”; cercano allora la solidarietà della cittadinanza aggiungendo alle loro rivendicazioni quella del mantenimento della qualità del servizio e del suo carattere pubblico. Questa argomentazione può rivelarsi un arma a doppio taglio: se davvero volete che il servizio resti pubblico ed efficiente, allora, per il bene “di tutti i cittadini”, dovete accettare determinati sacrifici. Che naturalmente potrebbero esser presentati da azienda e sindacati di regime come meno gravi di quelli cui si andrebbe incontro in caso di privatizzazione. L’accordo per i tranvieri siglato da sindacati confederali e FAISA a Genova dopo cinque giorni di sciopero, è già un passo in questa direzione: uno scambio (a perdere, perché accetta l’ampliamento del ricorso all’appalto per le linee collinari) che accetta di dar in carico ai lavoratori metà del disavanzo aziendale per il 2014 (4 milioni su 8,3).

A ben vedere, quindi, il nocciolo del problema sta nella capacità dei lavoratori di difendersi dagli attacchi alle loro condizioni, sia l’azienda pubblica o privata. Questa capacità non dipende dal carattere della proprietà ma da quello della organizzazione dei lavoratori: dal suo corretto indirizzo d’azione e dalla sua estensione.

Per frenare l’avanzata inesorabile della crisi lo strumento fondamentale del capitalismo è la riduzione dei costi di produzione: aumentare i ritmi di lavoro, abbassare il salario complessivo della classe riducendo occupati e salari. Questa non è una scelta di una data direzione aziendale né di un dato governo. È una necessità generale imposta da questo modo di produzione, determinata dalle sue leggi economiche.

Non è il carattere pubblico della proprietà aziendale a difendere i lavoratori allentando la pressione crescente di questa morsa, innanzitutto perché lo Stato è il primo interessato a che la loro resistenza sia spezzata, in quanto tutore degli interessi complessivi del capitalismo nazionale ed internazionale.

Ciò che difende i lavoratori è l’unione più estesa e salda delle loro forze che si realizza, evidentemente, ben oltre i confini di azienda e categoria e deve perciò mirare a unire in un unico movimento di lotta i lavoratori statali con quelli del settore privato, per rivendicazioni comuni, quali, fondamentalmente, la difesa del salario e la riduzione dell’orario di lavoro. I lavoratori dei servizi pubblici devono trovare la solidarietà degli altri lavoratori, prima che come utenti di tali servizi, come proletari che vedono in essi dei fratelli di classe che conducono la loro stessa lotta, per questi obiettivi che li accomunano.

La forza di una vera organizzazione sindacale di classe è tanto maggiore quanto più allenata a mobilitare, in solidarietà e per obiettivi analoghi, la parte più ampia possibile della classe lavoratrice.

Se oggi i lavoratori si mobilitano con l’obiettivo di fermare la privatizzazione è perché sono ancora distanti dal disporre, entro e fuori l’azienda, di una tale forza che permetta loro di porre la questione sul suo reale terreno – la difesa delle condizioni della classe – e sperano per questa via di ovviare a questa debolezza. Noi comunisti spieghiamo la parzialità di questo obbiettivo e lavoriamo affinché i lavoratori arrivino a superarlo impugnando i corretti ed espliciti termini di difesa della classe, quali la lotta contro le esternalizzazioni e i sub appalti, per la parità normativa e salariale a parità di mansione, la difesa del salario, la lotta contro l’aumento di ritmi, la riduzione generalizzata dell’orario.

A questo scopo ci battiamo contro tutti quegli indirizzi sindacali, figli del riformismo, del fascismo e dello stalinismo, che invece pongono questo obiettivo, e quello della nazionalizzazione delle maggiori aziende private, come prima rivendicazione e dandogli una valenza politica “progressista”. Questa parola va nel senso della divisione fra lavoratori pubblici e privati e raffrena lo sviluppo dell’unità e della forza della classe lavoratrice. Inoltre diffonde fra i lavoratori l’illusione conservatrice che non sia necessaria la rivoluzione sociale per porre fine a questo regime politico ed economico, che è all’origine delle loro sofferenze, ma basti una diversa intestazione proprietaria ed organizzazione della medesima economia capitalista, cui si potrebbe giungere senza abbattere il potere politico nazionale e internazionale della borghesia.

 

 

 


Genova, Firenze, Pisa, Livorno, Lucca...
QUESTA È LOTTA di CLASSE !
Lezioni dello sciopero dei tranvieri

Lo sciopero a oltranza dei tranvieri genovesi, durato cinque giorni, da martedì a sabato, ha avuto un’importanza che va oltre i confini della vertenza aziendale. Ha aperto una breccia nella cappa che da anni opprime la classe lavoratrice impedendole di difendersi dagli attacchi sempre più duri alle sue condizioni di vita, dimostrando come si possa lottare contro di essi, smetterla di subirli rassegnati, non piegarsi al ricatto della crisi. Da questa lotta, dai suoi meriti e dai suoi limiti, si devono trarre importanti lezioni necessarie per le battaglie future:

- I tranvieri hanno mostrato cosa è uno SCIOPERO: non una azione annunciata con giorni d’anticipo e di cui sia già stabilito il termine ma un blocco dell’attività lavorativa senza preavviso e ad oltranza. Ciò che la stampa borghese chiama “sciopero selvaggio” altro non è, semplicemente, che un “vero sciopero”.

- Tanti lavoratori hanno guardato alla lotta dei tranvieri come ad un esempio da seguire e a Genova hanno cercato di unirsi allo sciopero. L’estensione della lotta ad altre aziende e categorie ne avrebbe moltiplicato la potenza consentendo migliori risultati. È ciò che più ha temuto il fronte padronale perché quando un movimento di sciopero generale si mette in moto non si sa quanto può avanzare e rafforzarsi.

Impedire il risorgere di questo movimento, cioè la LOTTA DI CLASSE, è la fondamentale ragion d’essere dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che mantengono i lavoratori divisi per compartimenti aziendali e di categoria, facendo di ogni lotta una questione a sé.

Il bonzo della F.P. Cgil si è opposto alla scesa in sciopero dei lavoratori AMIU della nettezza a tal punto che ha dovuto abbandonare l’assemblea. A questi lavoratori è mancata la determinazione e l’organizzazione per affrontare da soli precettazione e multe, ma in buon numero hanno preso ferie e permessi per scendere in piazza coi tranvieri. Quando si sono organizzati con gli autisti della rimessa Gavette affinché questi bloccassero con gli autobus l’ingresso dello stabilimento AMIU della Volpara, imponendo con la forza lo sciopero di solidarietà, non bastando più i sindacati di regime sono intervenute le forze dell’ordine, prontamente avvertite, che hanno impedito l’azione intimidendo i netturbini, entrando alla Volpara e controllando l’identità dei lavoratori presenti.

I tranvieri di ATP, scesi in sciopero “selvaggio” due mesi fa contro la privatizzazione, poi passata, erano pronti a scendere in sciopero il lunedì. Gli operai della ASTER sono scesi in sciopero venerdì. Molti comunali erano anch’essi pronti a incrociare le braccia.

Uno SCIOPERO GENERALE avrebbe avuto un sicuro successo, come ha indicato anche la riuscita della manifestazione di sabato. Si è dimostrato che, nonostante anni di pace sociale, è ineliminabile nei lavoratori il naturale istinto proletario alla lotta e alla solidarietà. Ciò che manca ancora è l’ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE pronta a esaltare ed organizzare questo istinto, combattendo i sindacati di regime che cercano in ogni modo di castrarlo e svilirlo.

- Un autentico SINDACATO DI CLASSE non avrebbe esitato a fare della lotta dei tranvieri una questione di tutta la classe lavoratrice, cercando di coinvolgere tutte le categorie, proclamando lo sciopero generale in città.
I lavoratori FINCANTIERI, ad esempio, nei mesi passati hanno sostenuto anch’essi isolati dure lotte e sono anch’essi colpiti da un processo di privatizzazione dell’azienda. La FIOM ha dimostrato ancora una volta di essere solo l’ala sinistra del sindacalismo concertativo e di regime. Il 14 novembre, insieme al resto della Cgil, ha mobilitato i lavoratori per la solita innocua passeggiata. Una settimana dopo, di fronte a una autentica lotta di una parte importante di lavoratori, non ha mosso un dito.

- Per quanto uniti e combattivi possano essere i lavoratori se la loro lotta resta rinchiusa entro i confini aziendali presto o tardi è destinata alla sconfitta. L’estensione dello sciopero ad altre aziende e categorie è l’estensione dell’UNITÀ DELLA CLASSE LAVORATRICE, è la sola strada che conduce i lavoratori alla vittoria. La dirigenza della FAISA, sindacato maggioritario in AMT a Genova, per il suo corporativismo nega questa prospettiva ed è complementare ai sindacati confederali nell’opera di divisione della classe: ha tenuto i tranvieri, dall’interno, chiusi nella vertenza aziendale, mentre Cgil, Cisl e Uil li hanno isolati, dall’esterno, dalle altre categorie.

- Per impedire scioperi efficaci sono state varate leggi e accordi avallati da Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Faisa e che mai hanno indicato l’obiettivo della loro abolizione. Organizzare veri scioperi significa per i lavoratori infrangere queste leggi e codici ed affrontare la repressione statale. Sotto la spinta dei tranvieri, a Genova Cgil e Faisa hanno dovuto, loro malgrado, infrangere queste regole, ma lo hanno fatto solo per non perdere il controllo sui lavoratori e fintanto che lo sciopero non ha minacciato di rafforzarsi troppo. Per fermare la lotta sono arrivati sindacalisti fin da Roma. Venerdì sera l’azienda aveva già la convinzione che lo sciopero sarebbe terminato, presumibilmente per le garanzie date da questi sindacati, tant’è che nelle rimesse ha avviato col personale di sicurezza le operazioni tecniche per far partire gli autobus, con la trattativa ufficialmente ancora in corso. I tranvieri più combattivi, rimasti dinanzi la prefettura nella serata di venerdì, all’uscita della delegazione dei sindacalisti in trattativa hanno rigettato l’accordo ma la delegazione dei sindacalisti è riuscita a rimandare la decisione a una assemblea il giorno successivo, con la scusa che ad essa avrebbero partecipato più lavoratori e sarebbe perciò stata più “democratica”. Nell’assemblea, da loro certamente ben preparata, l’accordo è stato fatto approvare in fretta e furia. Ciò che contava era fermare lo sciopero prima che si estendesse sia a Genova, alle altre categorie, sia in Italia, come poi è avvenuto, in questi giorni, a Firenze, Pisa e Livorno, dove altri tranvieri hanno scioperato senza preavviso e a oltranza fronteggiando multe e denunce.

- I lavoratori di AMT si sono sentiti pronti ad affrontare precettazione e multe per la loro determinazione ma anche per la protezione promessa da Cgil, Cisl, Uil e Faisa. Ma la tutela di questi sindacati finisce quando la lotta travalica determinati confini divenendo davvero pericolosa per gli interessi padronali e vittoriosa per i lavoratori. I tranvieri e tutti i lavoratori devono prepararsi ad affrontare la repressione aziendale e statale con le loro forze, con una loro organizzazione. Lo sciopero è una guerra che si prepara in tempo di pace, con riunioni, assemblee, propaganda ma anche mettendo da parte le risorse finanziarie per affrontare i giorni di mancato salario, con una cassa di resistenza. Lo sciopero deve estendersi e durare fino a imporre l’abolizione di ogni ritorsione, non solo da parte dell’azienda ma anche dello Stato, quindi anche delle multe.

- Questo genere di lotta, la sola che può difendere i lavoratori, difficilmente può essere condotta vittoriosamente all’interno di una singola azienda. È necessario che i lavoratori più combattivi non solo si organizzino in ogni posto di lavoro, in comitati di lotta, ma senza esitazioni perseguano l’obiettivo di creare un coordinamento per arrivare a scioperi che coinvolgano più aziende e categorie possibili. L’OSSIGENO DELLA LOTTA È FUORI DALLE MURA AZIENDALI. Organismi quali le RSU molto difficilmente sfuggono al controllo dei sindacati di regime e per la loro natura aziendale tendono a mantenere chiuso entro questi confini l’orizzonte dei lavoratori.

- In ogni azienda i lavoratori devono organizzarsi in comitati di lotta fuori dal controllo dei sindacati di regime ma che accettino al loro interno tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale. Il coordinamento interaziendale di questi organismi di lotta potrà essere la base dell’ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE che ancora manca e della quale sempre più hanno bisogno i lavoratori.

* * *

Il SINDACATO DI CLASSE deve essere ricostruito sui metodi e principi della grande tradizione del movimento operaio:
– vivere sul lavoro gratuito e volontario dei sui militanti lavoratori, riducendo al minimo indispensabile il ricorso a funzionari stipendiati;
– organizzare veri scioperi: senza preavviso, a oltranza, che cerchino sempre di estendersi alle altre aziende, con picchetti per impedire l’ingresso a merci e crumiri;
– difendere intransigentemente gli interessi dei lavoratori rifiutando ogni sottomissione a quelli dell’azienda e del cosiddetto “bene del paese” che altro non è che il bene del capitalismo nazionale;
– avere quale centro organizzativo la sua struttura territoriale, come nelle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto tali, appartenenti a una stessa classe sociale, non in quanto dipendenti di una determinata azienda, così da rafforzare e sviluppare il legame di fratellanza;
– rifiutare il pagamento della quota sindacale col metodo della delega, ossia con il prelievo automatico dal salario da parte dell’azienda, che mette nelle mani del padrone i soldi dell’organizzazione dei lavoratori e la lista dei suoi iscritti ed è la base materiale della collaborazione fra sindacati e azienda, cioè del tradimento da parte del sindacato degli interessi dei lavoratori; le quote sindacali vanno raccolte dai militanti del sindacato, mantenendo anche per questa via vivo il rapporto fra organizzazione e suoi iscritti.

 

 

 


Attività del partito nei sindacati

Nostra riunione organizzativa a Torino

A metà dicembre abbiamo tenuto nella nostra sede torinese una riunione per definire al meglio e organizzare il lavoro sindacale della sezione locale del partito. Presenti anche compagni da Genova e Firenze.

Sono stati ribaditi i termini generali del lavoro sindacale comunista: necessità, al fine della vittoria rivoluzionaria, del formarsi di un vasto strato di organizzazioni classiste di lotta economia; tendenza, nell’epoca dell’imperialismo, dello Stato capitalista ad assoggettare tutte le organizzazioni sindacali; inquadramento compiuto e irreversibile della Cgil nel regime politico borghese; necessità dei lavoratori, per lottare, di organizzarsi fuori e contro la Cgil, confermata dalla nascita dei sindacati di base; tendenza anche di questi nuovi sindacati ad assoggettarsi al regime borghese; influenza del partito comunista rivoluzionario quale argine all’avanzare di questo processo.

Passando ad esaminare i problemi particolari nell’attività sindacale a Torino si è unanimemente convenuto che:
     - il partito incoraggia i lavoratori a formare organismi sindacali classisti e lavora al loro interno per aiutarli a nascere, funzionare e crescere, ma non può e non deve sostituire in questa opera le sue sole forze a quelle che i lavoratori spontaneamente devono necessariamente mettere a disposizione;
     - errati indirizzi organizzativi e rivendicativi dei dirigenti di un organismo sindacale, anche se potenzialmente forieri di danni gravi, non allontanano i comunisti dall’attività al suo interno qualora esso sia ritenuto proprio ed utilizzato dai lavoratori; la nostra sincera collaborazione però, tendente a conquistare la fiducia degli altri lavoratori e attivisti sindacali, non comporta mai cedere dal prospettare le nostre posizioni sindacali;
     - la frammentazione dei grandi complessi industriali in aziende di medie e piccole dimensioni, caratteristica del capitalismo che sempre ritorna, rafforza la necessità, mai venuta meno e di valenza assoluta, di privilegiare le strutture territoriali del sindacato rispetto a quelle aziendali;
     - la vita sindacale non si può ridurre ai due estremi, alle assemblee plenarie dei lavoratori e alle riunione dei principali dirigenti sindacali, ma necessita della ampia partecipazione dei suoi attivisti, delegati e iscritti, attraverso riunioni periodiche nella sede sindacale, in cui frequentemente si incontrino i lavoratori al di sopra delle divisioni di categoria ed azienda;
     - la raccolta mensile diretta, attraverso i militanti sindacali, delle quote del sindacato, rifiutando il prelievo automatico a mezzo della delega, è un’altra importante via per mantenere viva l’organizzazione sindacale.

Infine è stata letta dai compagni torinesi una disamina del movimento noto come dei “forconi” così come si è svolto nel capoluogo piemontese.

 

Una assemblea alla ABB

In seguito alla richiesta dell’azienda di porre in mobilità 19 dipendenti a Genova e 13 a Milano in uno dei tanti rami in cui è divisa la multinazionale svizzera si è svolta a fine novembre un’assemblea alla ABB di Sestri Ponente (Genova). Presenti un dirigente Fiom, del gruppo Lotta Comunista, la RSU di ABB e quella della ex RGM/Polycontrol, azienda da poco acquisita nel gruppo. Diversi delegati RSU a un dato momento si sono defilati senza nulla dire; delegati Cisl e Uil, si è saputo in seguito.

La RSU Fiom e il suo dirigente hanno presentato la situazione nel suo insieme, introducendo le motivazioni dell’azienda e le posizioni espresse dalle sigle sindacali: contratti di solidarietà, reinserimento dei 32 lavoratori in altre mansioni all’interno di rami produttivi aziendali. In opposizione ABB proponeva il trasferimento dei 19 genovesi a Milano, un modo per ottenere qualche dimissione volontaria, dato che, oltre al disagio del trasferimento, non si capisce cosa andrebbero a fare nel capoluogo lombardo, visto che anche lì vi sono 13 richieste di mobilità.

Quando una lavoratrice ha messo l’accento sul fatto che, a suo avviso, non c’era paragone tra la “professionalità” dei lavoratori genovesi e quella dei milanesi, il nostro compagno ha chiesto la parola precisando che: 1) la professionalità è questione che interessa l’azienda non i lavoratori; 2) la necessità dei lavoratori non è farsi concorrenza fra i vari rami e stabilimenti ma di unirsi, creando un fronte di solidarietà che semmai dovrebbe travalicare i limiti della stessa azienda; 3) la rivendicazione per cui è necessario organizzarsi e lottare non sono i contratti di solidarietà – cioè la diminuzione dell’orario e del salario nella singola azienda – ma la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per tutti i lavoratori. A maggior ragione visto che, come lo stesso sindacalista Fiom sosteneva, la crisi non è contingente ma strutturale.

Se si retrocede sui contratti di solidarietà va ammesso che è un compromesso a perdere, dovuto a sfavorevoli rapporti di forza, ma va sempre data la prospettiva della rivendicazione generale e superiore. Invece la Fiom ha sostituito la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro generalizzata a parità di salario con quella dei contratti di solidarietà, presentati come obiettivo massimo.

Alla risposta del bonzo Fiom, in merito all’ultimo punto, che non si possono assumere posizioni che poi non si ha la forza di difendere e che i lavoratori non capirebbero, ha ribattuto il nostro compagno che i lavoratori non hanno la forza di lottare, e quindi di capire, perché è il sindacato confederale che lo impedisce, che ha distrutto la forza della classe lavoratrice con la sua linea generale, analoga a quella proposta nella presente assemblea. Questa condizione di debolezza, che si aggrava sempre più seguitando, come fa la Fiom, a sostenere questo indirizzo sindacale, può essere combattuta non certo nascondendo e tacendo gli obiettivi propri della classe lavoratrice ma spiegandoli ai lavoratori, propagandandoli e battendosi per la loro affermazione nel sindacato.

Replica infine il dirigente Fiom che, sebbene la dirigenza Cgil difenda posizioni profondamente sbagliate, sarà il precipitare della crisi a metterle fuori gioco. Al momento altro non si potrebbe fare.

A nostro modo di vedere le cose stanno in modo differente. Siccome non è più possibile battersi all’interno della Cgil per far tornare questo sindacato su posizioni classiste, pena l’emarginazione o l’espulsione – infatti i militanti sindacali di Lotta Comunista guadagnano sì posizioni dirigenti, ma dimostrando fedeltà ai capisaldi sindacali, d’azione e teorici, del collaborazionismo – il nostro partito incoraggia l’organizzazione fuori e contro questo sindacato, sull’esempio di quanto fatto negli ultimi 40 anni da diversi gruppi di proletari, dando loro le corrette indicazioni di lotta. Non farlo significa puntellare il sindacalismo di regime, che è uno dei fattori fondamentali di debolezza della classe lavoratrice.

 

Netturbini genovesi si esprimono per organizzarsi alla base

Alcuni giorni dopo la fine dello sciopero dei tranvieri, a Genova un centinaio di lavoratori dell’AMIU, l’azienda municipale per la nettezza urbana, si sono riuniti in una sala esterna al luogo di lavoro per darsi una organizzazione di lotta fuori dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) in vista delle battaglie future. Questa decisione è scaturita sull’onda delle assemblee tenute in concomitanza con lo scioperi dei tranvieri nelle quali molti lavoratori AMIU avevano espresso la volontà di unirsi a quello sciopero e i bonzi di Cgil, Cisl e Uil si erano opposti strenuamente.

Nell’assemblea è emerso comune a tutti i lavoratori il disprezzo per le organizzazioni sindacali confederali e l’opposizione alla paventata privatizzazione dell’azienda da parte del Comune. I lavoratori si sono invece divisi in merito alla scelta se partecipare o meno a uno sciopero proclamato dai sindacati confederali per pochi giorni dopo. Ha prevalso, noi concordi, la decisione di parteciparvi con un proprio spezzone e uno striscione “Lavoratori AMIU” appositamente preparato.

Da parte di uno degli organizzatori dell’assemblea – cui ha fatto eco un altro lavoratore in platea – è stata sottolineata l’importanza dell’unione al di sopra dell’azienda con le altre categorie, la necessità di dotarsi di una organizzazione per la lotta e, a tal scopo, il necessario impegno dei lavoratori più combattivi.

Un nostro compagno è stato invitato dalla presidenza a intervenire in quanto lavoratore di un’altra categoria. Brevemente ha sottolineato come i tranvieri abbiano mostrato in che cosa consiste un vero sciopero. E come occorra, per preparare una simile prova di forza, un’organizzazione che ne propagandi la necessità e raccolga i mezzi finanziari fra i compagni di lavoro, con una cassa di resistenza, per alleviare il peso del salario perso nelle giornate di sciopero. Ha quindi spiegato come il vero nocciolo del problema non sia la difesa del carattere pubblico dell’azienda ma la creazione di questa organizzazione di lotta, capace di difendere i lavoratori dagli attacchi padronali, provengano essi da una padrone pubblico o privato.

 

 

 


La classe operaia in Cambogia affronta coraggiosa il piombo borghese

Seguendo l’esempio dei fratelli di classe del Bangladesh, che da anni conducono durissime battaglie aumenti di salario, anche gli operai tessili della Cambogia sono riusciti a unirsi in una mobilitazione generale.

Nel settore tessile e calzaturiero in Cambogia sono impiegati 600.000 operai (su una popolazione di 15 milioni), in circa 800 fabbriche, che sfornano l’80% del prodotto nazionale lordo. I sindacati dei lavoratori nella categoria sono una trentina.

A maggio era iniziata una lunga battaglia in una della maggiori fabbriche del paese, la SL Garment Processing Ltd, nella capitale Phnom Penh, guidata dalla Coalition of Cambodian Apparel Workers’ Democratic Union (Coalizione Sindacale Democratica dei Lavoratori Tessili). Il 6 novembre il capo di un sindacato minoritario nella fabbrica, la Free Trade Union (Sindacato Libero), aveva lamentato che lotte così dure allontanavano i capitali dal paese e denunciato il timore che «per la sua lunghezza e intensità questo sciopero potrebbe ispirare i lavoratori tessili nelle fabbriche di tutto il paese e portare a una ondata di lotte in tutta l’industria». Questo sindacalista giallo esprimeva le paure della classe dominante.

Cinque giorni dopo, un migliaio di operai in marcia verso la sede del Primo Ministro erano attaccati dalla polizia con bastoni, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e di piombo. Una venditrice di riso è restata uccisa da un proiettile. Questa dura lotta si è conclusa ai primi di dicembre con la vittoria dei lavoratori: l’azienda ha dovuto riconoscere un aumento salariale, pagare metà delle giornate di sciopero e reintegrare 19 operai militanti sindacali che aveva licenziato per rappresaglia.

La tenacia e la determinazione dei lavoratori della SL Garment non era un fatto isolato ma l’indicatore della rabbia che cova in tutta la classe operaia di questo paese. Lunedì 16 dicembre 30.000 operai in 36 fabbriche delle Zone Economiche Speciali di Manhattan e Tai Seng Bavet, nella provincia di Svay Rieng, al confine col Vietnam, sono entrati in sciopero a oltranza, rivendicando l’aumento del salario minino da 80 a 154 dollari.

È stata questa la sirena che ha messo in moto il movimento generale temuto dal sindacalista della FTU e da tutta la borghesia che in Cambogia investe il suo capitale. Il governo, nella speranza di fermare la marea, il 25 dicembre ha annunciato l’innalzamento del salario minimo da 80 a 95 dollari. Ma la rivendicazione generale – mostrata in centinaia di cartelli nelle manifestazioni – è ormai di 160 dollari.

Il 27 le fabbriche ferme sono 200. A Phnom Penh gli operai si scontrano con la polizia che prova a impedir loro l’accesso nella Zona Economica Speciale per estendere lo sciopero alle fabbriche di quest’area. I lavoratori bloccano un’arteria stradale resistendo alle cariche della polizia armata di manganelli elettrici, scudi e pistole, da cui partono colpi d’avvertimento. La strada è liberata solo dopo che le autorità militari rilasciano tre operai arrestati.

L’associazione dei padroni tessili reagisce con la serrata chiudendo le 473 fabbriche affiliate, ma il movimento di lotta invece di indebolirsi si rafforza. Nella capitale le manifestazioni diventano quotidiane arrivando a coinvolgere 100.000 lavoratori.

Il 31 dicembre il governo passa alle minacce, annuncia azioni legali contro i sindacalisti che si rifiutino di porre fine allo sciopero e pone quale ultimatum per il ritorno al lavoro il 2 gennaio. La potenza dello sciopero preoccupa la borghesia nazionale e internazionale a tal punto che lo Stato cambogiano si prepara a far intervenire la “Special Command Unit 911”, una delle unità speciali dell’esercito; alle operazioni di polizia sono stati visti partecipare anche soldati coreani, per proteggere le fabbriche di coreane in Cambogia.

Il 3 gennaio, polizia e gruppi speciali aprono il fuoco uccidendo 5 lavoratori. Lo sciopero è spezzato e gli operai, per ora, piegati. Torneranno alla lotta più forti da questa sanguinosa esperienza.

Per il capitalismo mondiale i paradisi dove sfruttare al massimo la classe operaia, dando ossigeno alla sua morente economia, diventano sempre meno ospitali. Alla fine sarà la classe proletaria mondiale a delocalizzare il capitale... fuori dalla storia.

 

 


Corea: 22 giorni di sciopero dei ferrovieri

Anche la Corea del Sud, nei decenni passati uno dei capitalismi nazionali a più alto tasso di crescita, subisce la crisi mondiale del capitalismo. Le autorità governative coreane confermano che gli investimenti di capitale straniero, necessari per il consolidamento dell’economia del paese, non sono arrivati. Anzi, un esodo di società estere ha caratterizzato gli ultimi anni. Tra il 2009 ed il 2013 un totale di quindici banche straniere, compagnie assicurative e società di grandi marchi multinazionali hanno chiuso i propri uffici a Seoul. Poche settimana fa la General Motors ha annunciato l’intenzione di tagliare migliaia posti di lavoro già nel primo trimestre del 2014.

Come in tutto il mondo, anche qui la borghesia cerca di ridar fiato al capitalismo nazionale aumentando lo sfruttamento della classe operaia. L’uso del cosiddetto lavoro flessibile è divenuto sempre più esteso ed oggi oltre la metà dei 15 milioni di salariati del paese è precario.

La classe operaia coreana ha una grande tradizione di lotta sindacale e non ha subito passivamente questo attacco. Più volte in questi anni la produzione è stata fermata in tutti i settori, con centinaia di scioperi, alcuni dei quali generali. Molti quelli avvenuti negli impianti automobilistici di Hyundai, Kia Motors, GM-Daewoo e Sangyong Motors. Del grande sciopero nella fabbrica di quest’ultimo gruppo scrivemmo in questo giornale di settembre-ottobre del 2009.

Questa volta riferiamo della lotta dei ferrovieri della compagnia statale Korea Railroad Corporation che impiega 20.440 lavoratori. Il loro sindacato, la Korean Railway Workers’ Union, che fa parte della confederazione sindacale KCTU, il 22 novembre scorso ha deciso lo sciopero che è iniziato il 9 dicembre e si è concluso 22 giorni dopo: il più lungo sciopero nella storia delle ferrovie coreane! L’ultimo sciopero a oltranza era stato quello dal 1° al 4 marzo del 2006.

La lotta era contro la costituzione di una società separata che, secondo il Ministero del Territorio, Infrastrutture e Trasporti, dovrebbe costruire e gestire una nuova tratta ad alta velocità tra Seoul e Busan, la seconda città coreana. Nonostante il governo sostenga il contrario, per la Krwu questo sarebbe il primo passo verso la privatizzazione della Korail, il suo smembramento (come fatto in Italia separando la infrastruttura, il trasporto passeggeri e quello merci), con il conseguente peggioramento delle condizioni di lavoro. L’esempio è quello giapponese, quando alla fine degli anni ‘80 il governo scorporò in diverse aziende la Japanese National Railways. Le ricette borghesi per tenere in piedi la moribonda economia capitalistica sono uguali ovunque!

Proprio la durissima reazione dell’azienda e dello Stato borghese coreano allo sciopero dimostra come il padrone “pubblico” non sia per nulla meno anti-operaio di quello privato e come la vera questione per i lavoratori non sia lottare per una forma proprietaria rispetto ad un’altra ma rafforzare la propria organizzazione sindacale per difendere le proprie condizioni. Ciò che danneggerebbe questi lavoratori non sarebbe la privatizzazione in sé ma la divisione dell’azienda e quindi dei lavoratori, attraverso trattamenti contrattuali separati.

L’amministratrice delegata della Korail ha naturalmente condannato lo sciopero e contro i lavoratori sono scesi in campo i massimi vertici dello Stato. La presidente della repubblica, Park Geun-hye, ha definito lo sciopero “un atto ingiustificabile che danneggia l’economia nazionale” mentre il primo ministro Chung Hong-won ha sollecitato la magistratura a perseguire lo sciopero, definito illegale.

Ufficialmente la KRWU ha garantito i servizi minimi imposti dalla legge ma molti ferrovieri hanno trasgredito a questa direttiva. Già nei primi giorni di sciopero sono stati denunciati 194 lavoratori. L’azienda ha annunciato che avrebbe fatto ricorso a 6.000 crumiri tra cui, secondo alcune fonti, anche militari e, pochi giorni dopo, visto l’estendersi della protesta, ha mandato più di 6.000 lettere di licenziamento. I lavoratori della metropolitana di Seoul delle linee 1, 2, 3 e 4 hanno spinto il loro sindacato affinché si unisse allo sciopero cosa che, a quanto sappiamo, è avvenuta il 18 dicembre.

Korail sostiene che ha scioperato solo il 32 per cento dei ferrovieri mentre per il sindacato sono stati l’80 per cento. A sostegno dello sciopero diverse manifestazioni si sono svolte a Seoul, Busan, Daejeon, Gwangju e Yeongju.

Al nono giorno di sciopero, il 17 dicembre, la polizia è entrata in varie sedi della KRWU prendendo i dati degli iscritti ed ha spiccato 30 mandati d’arresto per violazione dell’art. 314 del codice penale (“ostacolo alle attività economiche”). La Korail ha chiesto al sindacato 6 milioni di euro di danni. Domenica 22 la polizia ha attaccato con gas lacrimogeni la sede della KCTU a Seul arrestando oltre 100 lavoratori. Il giorno successivo la KTCU ha proclamato uno sciopero generale ad oltranza a partire da sabato 28 in appoggio alla lotta dei ferrovieri. La risposta di questo sindacato lascia parecchi dubbi sulla sua dirigenza, visto che sabato, anche in Corea, è un giorno prefestivo, in cui chi lavora lo fa solo per mezza giornata. Inoltre, lo sciopero non è poi avvenuto, non sappiamo per quali ragioni, ma vi è stata solo una manifestazione nel pomeriggio.

Venerdì 27 il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti ha dichiarato: «L’era della competizione nel settore ferroviario è iniziata (...) ma assicuro che le ferrovie resteranno in mani pubbliche». Il che conferma che la vera questione non è la privatizzazione ma lo scorporo dell’azienda per indebolire i lavoratori dividendoli e abbassare il costo della forza lavoro, cioè salario, numero di occupati, condizioni normative.

Martedì 30 dicembre la KRWU ha deciso di sospendere lo sciopero dopo un incontro, definito “rassicurante”, con la commissione parlamentare per il territorio, le infrastrutture e i trasporti, che ha deciso la formazione di una sotto-commisione sullo “Sviluppo delle ferrovie” composta da 4 membri dei partiti della maggioranza e 4 dell’opposizione. Secondo un dirigente sindacale questa commissione dovrebbe proteggere «il servizio ferroviario pubblico [e] servire gli interessi pubblici (...) Attraverso la partecipazione e la discussione nell’ambito del sottocomitato, lavoreremo per prevenire ogni tentativo di privatizzazione. La lotta non è finita».

Non sappiamo quali fossero i rapporti di forza e se vi fossero le condizioni per andare avanti con lo sciopero. Anche noi comunisti riconosciamo la inevitabilità di addivenire a dei compromessi alla fine di una lotta. L’importante è che non siano mascherati da vittorie quando non lo sono e che ne siano spiegati i termini. Il risultato presentato dalla KRWU come rassicurante ci sembra negativo perché illude i lavoratori che i loro interessi possano essere tutelati all’interno delle istituzioni del regime politico borghese, che ha dimostrato nello sciopero di saper chiaramente chi combattere e chi difendere.

Sarà da vedere se, come dice il sindacalista sopra citato, la lotta andrà avanti. Quando uno sciopero si ferma non è facile farlo ripartire.

Quel che è certo, per ora, è che a non fermarsi è la rappresaglia dell’azienda e dello Stato. Queste le parole del procuratore: «I lavoratori che hanno aderito allo sciopero saranno ritenuti responsabili per quello che hanno fatto, a prescindere dalla decisione di ritirarsi dalla sciopero stesso». La polizia gli ha fatto eco dichiarando: «La fine dello sciopero è una questione tra legislatori e membri del sindacato (...) noi agiremo sui mandati di arresto emessi dal tribunale». Korail ha annunciato che andrà avanti col piano di punire gli organizzatori dello sciopero e a tal scopo ha formato una apposita commissione disciplinare.

 

 


Tessili in Bangladesh impongono con la lotta aumenti salariali

La lotta dei tessili in Cambogia ha fatto seguito a quella in Bangladesh dove il settore impiega 4,2 milioni di operai, in prevalenza donne, in 4.500 fabbriche.

A partire dal 21 settembre, per dieci giorni, decine di migliaia di operai sono scesi in sciopero, hanno picchettato centinaia di fabbriche, bloccato le principali arterie stradali, affrontato quotidianamente i lacrimogeni, i proiettili di gomma e i bastoni della polizia, dei corpi paramilitari, dei sei plotoni della Guardia di Confine appositamente mobilitati dal governo.

I lavoratori rivendicavano un aumento del salario minimo del 170%, da 38 a 100 dollari mensili. L’associazione dei padroni del tessile, la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association, proponeva un aumento del 20%, cioè di 45 dollari. L’ultimo incremento del salario minimo era stato, nel 2010, del 65%.

L’intensità del movimento di sciopero ha indotto il governo a prevenire una suo ulteriore rafforzamento ed il 20 novembre è stato approvato un aumento del 76% che porta il salario a 67 dollari.

Questa è poco più che una boccata d’ossigeno per quei proletari, considerato l’alto tasso dell’inflazione. La loro lotta è solo momentaneamente placata. Ma è foriera di benefici per i lavoratori dei paesi in cui fiorisce questo settore industriale, perché serve loro d’esempio e perché spunta l’arma di ricatto padronale dello spostamento delle aziende là dove il costo del lavoro è ancora più basso.

 

 

 

 

 

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Lavoratori delle raffinerie in Scozia fra crisi e collaborazionismo dei sindacati e dei Laburisti

Questo dicono chiaramente i borghesi: «Probabilmente la raffineria ed il petrolchimico scozzese di Grangemouth non avranno un lungo avvenire, anche se gli attuali proprietari, Ineos e PetroChina, saranno in grado di risolvere a proprio favore la vertenza sindacale. La sovrapproduzione del settore, soprattutto in Europa, e la rivoluzione del petrolio di scisto in Nord America continueranno ad esercitare forti pressioni su Grangemouth e sulle altre raffinerie della Gran Bretagna. Grangemouth non possiede nessun vantaggio strategico che gli permetta di competere con i nuovi futuri impianti di raffinazione e lavorazione dei prodotti petroliferi in costruzione o in progettazione in Asia e Nord America. La chiusura dell’impianto sarebbe una tragedia per i suoi lavoratori. I politici britannici hanno ragione a spingere per un compromesso tra proprietari e lavoratori, se ciò consentirà di mantenere il sito aperto per qualche altro anno; ma dovrebbero resistere alla tentazione di sovvenzionare un impianto condannato in ogni caso alla chiusura» (John Kemp, Reuters, 24 ottobre 2013).

Nonostante questi cosiddetti esperti mantengano una fede incrollabile nel mercato finanziario e non vedano che brillanti prospettive per il capitalismo, apportatore sempre di nuove meraviglie, la realtà vede un capitalismo in crisi con il tasso di profitto in caduta, mercati in preda al panico e con tendenza al collasso.

L’aumento della produzione di petrolio di scisto è dovuta alla ottenuta riduzione dei costi, con modalità più economiche di estrazione ed incremento della produttività del settore. La maggiore disponibilità di questo tipo di petrolio e dei suoi derivati sta avendo un grande impatto sulle raffinerie europee, oltre ad un generale un aumento dei profitti. La prospettiva di chiusura per eccesso di capacità produttiva delle raffinerie europee, a causa soprattutto della concorrenza americana, porterebbe ad un aumento del prezzo del petrolio e dei derivati, piuttosto che ad un loro calo.

Le nuove raffinerie americane, con il relativo indotto, avrebbero come sbocco principale l’esportazione dei derivati del greggio non solo verso l’Europa ma anche verso l’Africa, con la conseguenza di tagliare fuori il Vecchio Continente da quel mercato. Per raggiungere questo obiettivo è necessario però rimuovere il decennale embargo imposto dagli Stati Uniti all’esportazione del suo petrolio, causa del precedente aumento del prezzo, misurato su quello saudita. Ciò causerà un aumento anche del prezzo del Brent, basato cioè su quello prodotto in massima parte nei pozzi del Mare del Nord. Il prezzo del Brent, più alto in media di 10 dollari per ogni fascia di qualità, è sostenuto da una politica di limitazione alla sua estrazione negli impianti del Mare del Nord.

Le raffinerie europee non solo sono minacciate dalla possibile perdita del grande mercato nordamericano, ma rischiano di ridursi a puro terminale per le operazioni di importazione di prodotti petroliferi già raffinati. Questa sorte è già toccata al petrolchimico Croydon sul Tamigi, con le sue banchine, aree di stoccaggio, gasdotti, ecc., per i quali passano solo prodotti finiti.

In Inghilterra ci sono altre sei raffinerie, due nel Nord-Est (Lindsey e Humber), due nel Galles del Sud (Milford Haven e Pembroke), una sul Mersey (Stanlow) ed infine una sulla costa meridionale inglese (Fawley). Grangemouth è un sito strategico composto da tre componenti: raffineria, impianti petrolchimici e stazioni di pompaggio per i pozzi petroliferi off-shore del campo Forties Field: il greggio da questo arriva nei pressi di Aberdeen e da lì è pompato fino a Grangemouth.

Sono impianti giganteschi il cui anche temporaneo arresto provoca gravi danni; ad evitare queste fermate la forza lavoro deve piegarsi a subire pesanti peggioramenti e consentire la ristrutturazione del sito.

Per l’utilizzo razionale, cioè col minimo sciupio di risorse e di fatica umana, di questi giganteschi sistemi, per tipologia e per la loro progettazione capaci di restare produttivi per dei mezzi secoli, sarebbe necessario un piano generale, planetario e a lungo termine, il che per il capitalismo, anarchico per definizione, è impossibile. Basta una piccola oscillazione nei prezzi, dovuta a cause tecniche o soltanto a speculazione o a rivalità imperialistiche, per sconvolgere, distruggere, in ambiente mercantile, il lavoro di decenni. È questa infernale forza distruttiva del capitalismo che ci ha portato sulla soglia del comunismo: ed è ora il momento di varcarla e lasciarci dietro questo mondo di rovine.

La storia di Grangemouth

L’impianto di Grangemouth è stato fondato nel 1924 da una compagnia scozzese, che era già stata acquistata dal precursore della BP. Era subentrato ad un impianto costruito nel 1850 nei pressi di Bathgate, divenuto presto obsoleto, anche allora a causa dell’apertura delle raffinerie in Pennsylvania negli anni 1860. Durante la Prima Guerra Mondiale il governo inglese, per sostenere lo sforzo bellico, contribuì allo sviluppo del settore petrolifero in Arabia. Nel 1939 la raffineria di Grangemouth arrivò a trattare circa 400 mila tonnellate annue di greggio. Durante la Seconda Guerra Mondiale, invece, la raffinazione non fu possibile, con i rifornimenti dirottati sulla costa occidentale.

Con la ripresa della produzione postbellica nel 1946, nel 1951 il sito venne ampliato grazie all’inclusione di un adiacente complesso petrolchimico della Distillers Company Limited, prima tra le operazioni di fusione in Europa. Molti i prodotti derivanti dall’unione, dall’alcol ai mangimi.

Un’ulteriore espansione coinvolse l’impianto nel 1975 dopo la scoperta del petrolio nel Mare del Nord. La BP creò a questo scopo la Kinneil Crude Oil Stabilisation per pompare il greggio del Mare del Nord direttamente dal Forties Field. Questo ha facilitato la fornitura di greggio all’impianto di Grangemouth e ad altri. I prodotti di raffinazione sono cresciuti più di venti volte, arrivando ad una capacità produttiva di più di 10 milioni di tonnellate annue.

Nel 2004, con la creazione della Innovene Company, la BP ha deciso di cedere la proprietà dell’impianto, mantenendo per sé solo le operazioni di pompaggio della Kinneil. Questa nuova società poi fu acquistata dalla Ineos, che nel 2011 stabilì un legame economico con la compagnia statale cinese PetroChina, creando la PetroIneos.

Grangemouth era diventato un sito strategico, in grado di rifornire la maggior parte della Scozia, del Nord Irlanda e gran parte del Nord dell’Inghilterra. Un vasto movimento di scioperi che coinvolga l’azienda, a causa della sua posizione strategica, costringerebbe i capitalisti e il loro governo a cedere.

Ma, al fine di un riassetto proprietario e per aumentare il tasso di profitto, si stava preparando un’operazione di smembramento dell’impianto, e della intera forza di lavoro. La suddivisione in tre parti del petrolchimico di Grangemouth avrebbero ostacolato la capacità di mobilitazione dei lavoratori.

I Fondi pensione

In molti settori i Fondi-pensione sono diventati motivo di scontro fra padronato ed operai. Molti Fondi prevedono un contributo a carico dei lavoratori, altri no. Alcuni Fondi nei decenni passati, soprattutto durante l’era Thatcher, vantavano bilanci in attivo, incassavano più di quanto versavano in pensioni; così cominciò la speculazione sui Fondi pensione, le riserve furono investite in borsa e generarono degli interessi successivamente distribuiti. L’effetto nel breve termine fu lucroso; ma la riduzione dei rendimenti nei mercati finanziari, se allora non produsse dei dissesti patrimoniali, li ha solo rimandati. E quel tempo è arrivato all’inizio di questo secolo.

Gli attacchi al sistema pensionistico cominciarono dal settore privato con la richiesta di abolizione del sistema che equiparava la pensione all’ultima retribuzione, nonché aumentando la trattenuta a carico dei lavoratori. Poiché il sistema retributivo faceva parte di contratti collettivi, che avrebbero potuto essere disdetti solo tramite un nuovo accordo, la pressione si orientò sui lavoratori più giovani costretti ad aderire al nuovo sistema, basato su di una pensione calcolata sull’intera vita lavorativa, e sull’incremento della trattenuta a loro carico. Le più colpite, ancora una volta, sono state le lavoratrici, per i periodi di gravidanza o di cura della famiglia in generale e tutti quei lavoratori che in passato avevano usufruito di aspettative per la cura di parenti malati o disabili. L’obiettivo era creare un solco tra i lavoratori trattati col vecchio sistema e quelli col nuovo.

Tutto ciò, naturalmente, non riguardava i dirigenti di questi Fondi, i quali hanno ricevuto una pensione di milioni di sterline nonostante le società da essi amministrate siano in bancarotta. Le pensioni in questo caso sono frutto di accordi tra le parti che possono essere sottoscritti in qualsiasi momento, vincolanti anche per il futuro.

Una volta ben avviati questi attacchi nel settore privato, è stata la volta del settore pubblico. L’opinione corrente, comune in tutti i paesi, utilizzata per dividere il fronte proletario, è che le paghe del settore pubblico sono inferiori, a fronte di una maggior sicurezza del posto di lavoro. Così l’attacco al settore pubblico (anche qui con un aumento delle trattenute e la fine del sistema retributivo) è stato condotto in nome di una presunta “equità”, verso il basso: se il settore privato ha dovuto subire il colpo, perché non quello pubblico?

Quando la BP dismise l’impianto di Grangemouth fu la Ineos che dovette affrontare il problema della gestione del Fondo-pensione. In passato a Grangemouth i lavoratori non pagavano contributi previdenziali, al fine di tenerli legati all’azienda e farli lavorare duro, e avevano goduto di un periodo di generosi sgravi contributivi. BP ha recentemente passato la palla del Fondo-pensione anche nell’azienda fornitrice di carburante per l’aviazione, lasciando il nuovo proprietario, la DHL, a fronteggiarne le spese.

Ineos ha cercato di cambiare il sistema pensionistico nel 2008, i lavoratori hanno reagito con due giorni di sciopero, mobilitazione che ha causato il panico nel mercato petrolifero nel Nord dell’Inghilterra, con l’interruzione della produzione di greggio del Forties Field della BP. Dopo il primo fallimento, Ineos si è ovviamente preparata adeguatamente per rinnovare l’attacco.

Squallore laburista

Come i lettori avranno apprezzato in genere non perdiamo tempo ad occuparci degli affari interni al Partito Laburista. Questa eccezione serve per mostrare la bassa politica collaborazionista del sindacato Unite.

La circoscrizione elettorale di Falkirk comprende l’impianto di Grangemouth. L’attuale, discreditato, deputato eletto per la circoscrizione, Eric Joyce, dopo essere stato espulso dal Partito Laburista, ora siede come deputato Indipendente ed ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni. Sembra che sia stato espulso dal Partito Laburista a seguito di una rissa al bar dei visitatori sito all’interno del Parlamento, dove avrebbe colpito un altro deputato laburista che cercava di trattenerlo. A seguito di un’ulteriore rissa nel bar è stato proibito a tutti gli otto bar all’interno del Parlamento di versargli alcolici. Ma la nomina del successivo candidato laburista per il distretto di Falkirk ha suscitato polemiche; ottenere la candidatura in una circoscrizione considerata “sicura” è indubbiamente una prospettiva attraente per un politicante che si sta facendo.

I tentativi del sindacato Unite (nato dalla fusione del Transport & General Workers Union con il sindacato Amicus, nel 2007) di controllare la nomina del candidato laburista per Falkirk alle elezioni generali del 2015, hanno provocato liti interne durate alcuni mesi. Il sindacato ha sostenuto anche ingenti spese per assicurare la vittoria ad un proprio candidato; spese che probabilmente comprendono anche episodi di compravendita di membri del Partito Laburista, i quali poi, naturalmente, sostengono di non aver mai ricevuto alcunché.

I tentativi di manipolare il ballottaggio a Falkirk avrebbero dovuto essere oggetto di un’inchiesta interna al Partito Laburista, successivamente la questione avrebbe dovuto addirittura passare nelle mani della polizia, infine la questione è stata insabbiata e passata sotto silenzio. Il presidente della sezione locale dei Laburisti, Stephen Deans, è stato anche in passato il delegato sindacale della Unite a Grangemouth, oltre che presidente del sindacato in Scozia.

Stephen Deans è anche accusato di aver utilizzato risorse aziendali per scopi esterni ed è stata avviata un’indagine sulle sue attività in merito allo spionaggio dei computer dei dipendenti, compito affidato ad esperti informatici “indipendenti”, “consulenza” che non è certo a buon mercato.

Contro i lavoratori

La Ineos, intanto, ha denunciato dei dimostranti per aver organizzato manifestazioni contro i dirigenti dell’azienda sotto le loro abitazioni o degli alberghi dove si tenevano le riunioni aziendali. La Ineos muove tali accuse perché teme che manifestazioni simili si ripetano a Grangemouth.

All’inizio di ottobre era in corso a Glasgow, tra Ineos ed il sindacato Unite, un arbitrato presso la Camera di conciliazione ACAS per scongiurare lo sciopero di due giorni programmato per il 20 dello stesso mese contro i provvedimenti disciplinari adottati nei confronti di Stephen Deans. Deans era difeso dal segretario regionale scozzese dello Unite, Pat Rafferty.

Come ritorsione contro lo sciopero, la Ineos ha iniziato la procedura di spegnimento di alcuni impianti in modo che la raffineria ed il petrolchimico potessero essere chiusi in tempo per lo sciopero. Ineos, invece di un arresto “a caldo”, che lascia funzionanti alcune parti dell’impianto, puntava ad uno “a freddo”, il quale potrebbe richiedere alcune settimane prima che la produzione ritorni a regime. Ineos è la proprietaria del petrolchimico e l’azionista di maggioranza della raffineria; PetroChina possiede le quote restanti.

La chiusura completa di entrambi gli impianti di Grangemouth dimostra la volontà di Ineos di tagliare i salari dei lavoratori per aumentare i profitti. Ineos afferma che il petrolchimico avrebbe perdite per 10 milioni di sterline al mese, ma la cifra è stata subito contestata per dei trucchi contabili. Il petrolchimico, comunque, sarà chiuso entro il 2017 qualora il sindacato non si renda disponibile al taglio dei salari, delle pensioni e dei posti di lavoro.

È stato dato il termine di lunedì 14 ottobre per accettare la richiesta aziendale. Il valore dell’impianto è stato decurtato da 400 milioni di sterline a zero, in modo che Ineos possa tranquillamente abbandonare il sito, con la perdita di 800 posti di lavoro. Commissari liquidatori, poi, avrebbero avviato le procedure giuridiche per la chiusura totale del sito.

Due giorni dopo Unite già faceva marcia indietro cancellando lo sciopero; per qualche strano motivo il sindacato si aspettava che la Ineos optasse per uno spegnimento “a caldo” in modo che gli impianti potessero essere riaccesi in breve tempo. Il sindacato ha offerto anche la garanzia di assenza di scioperi fino alla fine del 2013, qualora Ineos avesse ritirato l’ultimatum.

Ineos il 17 ottobre è tornata al tavolo della trattativa con le stesse richieste: tagli ai salari, alle pensioni e licenziamenti al fine di “salvare” l’impianto. I tagli salariali prevedono un congelamento degli stipendi, il non pagamento di premi di produzione per un periodo di tre anni e la fine del sistema pensionistico aziendale. Pare che ci fosse anche un piano d’investimenti per 300 milioni di sterline per Grangemouth, vincolato all’ultimatum posto da Ineos, infatti qualora i lavoratori non avessero accettato i termini dell’accordo entrambi gli impianti sarebbero rimasti chiusi. Il piano d’investimento è inoltre finanziato da fondi governativi con prestiti per infrastrutture per 125 milioni di sterline da parte del Tesoro.

Mentre il sindacato ha cercato di avviare una trattativa da ultima spiaggia, garantendo l’assenza di scioperi per un lungo periodo, i vertici Ineos hanno incontrato i lavoratori di entrambi gli stabilimenti mercoledì 23 ottobre. La BBC riporta che i manager hanno comunicato la chiusura del petrolchimico. Il referendum svolto tra i lavoratori ha registrato un quasi totale consenso all’accordo tra gli impiegati ed un rifiuto ostile da parte degli operai, più colpiti dai piani di riduzione salariale. L’Ineos ha poi comunicato che i commissari liquidatori sarebbero stati nominati entro una settimana. Il presidente Ineos ha dichiarato che una volta chiuso il petrolchimico alla raffineria toccherebbe lo stesso destino. Il sindacato ha, allora, fatto altre proposte per mantenere in funzionamento entrambi gli impianti.

Imbrogli “scozzesi”

Pat Rafferty, segretario regionale del sindacato Unite in Scozia, ha affermato che lo sciopero di due giorni era stato revocato in nome degli “interessi nazionali”, e che lo spegnimento “a freddo” dell’impianto avrebbe potuto presentare rischi ambientali e andava contro gli interessi economici della regione. Rafferty, giocando la carta del nazionalismo, si precipitò ad Edimburgo per incontrare il primo ministro scozzese, Alex Salmond (leader del Partito Nazionalista Scozzese), invocando l’intervento delle autorità. Rafferty ha inoltre creato il sito internet “Unite Scotland”, all’interno del sito nazionale del sindacato, tutto ciò allo scopo di creare «uno strumento di discussione e dibattito tra i membri del sindacato e l’opinione pubblica di sinistra scozzese». Le pagine scozzesi del sito, però, non sono più state aggiornate dal gennaio del 2013.

Il tentativo di Unite di salvare il posto di lavoro degli iscritti occupati presso gli stabilimenti della Scottish Coal, in amministrazione controllata da aprile, si è limitato ad un appello al governo scozzese perché ne impedisse la sua chiusura. L’intervento governativo, tuttavia, non c’è stato. Sono state solo annunciate, per settembre, delle consultazioni in merito col Governo.

L’illusione diffusa secondo la quale gli indipendentisti scozzesi sono storicamente “progressisti”, e che gli operai scozzesi potrebbero ottenere più appoggio dal governo di Edimburgo piuttosto che da quello di Londra, è sempre più smentita col passare del tempo. La tanto decantata “prospera Zona del Nord” – la Norvegia produttrice di petrolio, l’Islanda centro off-shore del sistema bancario e l’Irlanda “Tigre Celtica” – è svanita nel nulla. Le banche islandesi sono fallite e l’economia irlandese, caratterizzata da un’espansione basata sulla speculazione edilizia, è affondata nella depressione economica, tanto da dover richiedere un intervento della Comunità Europea.

Una parte del debito creato dai titoli “tossici” della bolla speculativa immobiliare irlandese, era posseduto dalla Ulster Bank, filiale della Royal Bank of Scotland (RBS). Stando agli stessi indipendentisti, la sola Scozia dovrebbe accollarsi più di 40 miliardi di sterline di debito!

Il 24 ottobre il sindacato Unite ha annunciato che avrebbe accettato le richieste di Ineos per evitare la chiusura del sito di Grangemouth e salvare tutti i 1.499 posti di lavoro. Len McCluskey, segretario generale dello Unite, ha dato il proprio parere favorevole al piano Ineos per il salvataggio. I funzionari del Governo Scozzese si sono incontrati con i rappresentanti della Ineos e dello Unite nel tentativo di giungere ad un accordo. La Ineos afferma che la raffineria come il petrolchimico ha i conti in rosso e che anche il suo futuro è in pericolo. La Ineos sfida così sia il governo di Edimburgo sia quello di Londra minacciando la chiusura dell’intero sito di Grangemouth.

La ristrutturazione del complesso, con alcune modifiche agli impianti, renderebbe possibile trattare il petrolio importato dagli Stati Uniti al posto di quello pompato dal Mare del Nord, la sopravvivenza di Grangemouth, infatti, sembrerebbe legata più al petrolio americano a basso costo che a quello del Mare del Nord. Questo mentre il partito nazionalista al governo in Scozia, il SNP, annuncia un futuro radioso per la regione, una volta “indipendente”, grazie anche alle proprie riserve di petrolio, nascondendo la necessità delle forniture straniere di petrolio e gas. Nei passati annunci pubblicitari televisivi, Alex Salmond aveva dichiarato che ciò di cui ha bisogno la Scozia erano i “Nats”, abbreviazione di Nazionalisti; dicono ora che tutta la Scozia sembra davvero piena di queste “zanzare”, che in inglese di dice “Gnats”!

Il sindacato capitola

In solo 24 ore lo Unite ha ceduto su tutta la linea, offrendo addirittura più di quanto la stessa Ineos chiedeva. A quel punto l’azienda ha annunciato che la chiusura di Grangemouth era ripensata grazie al piano di investimenti per 300 milioni di sterline in grado di garantirne il futuro. L’accordo sindacale a Grangemouth prevede il congelamento dei salari per tre anni, il mancato pagamento dei premi di produzione, tre anni di tregua sindacale con assenza totale di scioperi, e la fine del sistema pensionistico retributivo. Altri accordi hanno, tra l’altro, previsto la fine del distacco totale dei dirigenti sindacali a carico dell’azienda. Stephen Deans, nel frattempo, è stato rimosso dalla carica sindacale la settimana precedente le sue dimissioni dall’azienda.

Il sindacato Unite aveva cercato di darsi l’aria di sindacato “dei cittadini” difendendo “il territorio” anche “fuori della fabbrica”. Il che è certo avvenuto per la Grangemouth: lo Unite aiuterà la Ineos nei suoi piani di ristrutturazione per recuperare profitti, e saranno i lavoratori di Grangemouth a pagarlo. Con i salari in calo per i prossimi tre anni, i lavoratori hanno “salvato” il posto di lavoro, a discapito dei dipendenti delle aziende esterne.

L’accordo che il sindacato ha siglato con la Ineos non è così insolito. È simile all’accordo firmato dal TGWU per i portuali, vero esempio di politica sindacale filo-padronale. L’accordo alla Ineos conferma il sistema del “closed shop”, cioè che i lavoratori dovranno necessariamente rimanere iscritti allo Unite per mantenere il posto, con conseguente firma della delega sindacale, ovvero trattenuta sul salario in favore dell’associazione di categoria.

Len McCluskey, segretario dello Unite, potrà tranquillamente continuare a parlare alle riunioni “anti-austerità” in giro per il paese, mentre sta facendo applicare un vero e proprio piano di austerità a Grangemouth.

I lavoratori di Grangemouth devono imparare a contare solo sulla propria forza, organizzandosi alla base, cercando contatti con tutta la classe, anche coinvolgendo i lavoratori disoccupati, ponendosi per ciò stesso contro le strutture sindacali dello Unite e la millantata “comunità scozzese”, che comprende ovviamente anche i borghesi.

Lo Unite si è dimostrato a Grangemouth un sindacato collaborazionista, poco diverso dagli azionisti della Ineos.

 
 
 
 
 
 

 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(continua dal numero 362)

 

18. La dittatura delle Sette Sorelle

A combattersi con una concorrenza spietata erano alcune Compagnie internazionali che avevano in mano tutta la catena del ciclo del petrolio, dai pozzi di estrazione alle industrie che lo raffinavano, alle società che distribuivano il prodotto finito alle pompe di benzina, ricavando profitti giganteschi. Si trattava di veri e propri mostri economici-finanziari che facevano e disfacevano governi, compravano capi di Stato e ministri e sui cui territori non tramontava mai il sole. Erano, e sono tutt’ora, poche. Cinque americane (la Standard Oil of New Jersey, più nota come Exxon o Esso; la Texas Oil Company, più nota come Texaco; la Gulf; la Mobil e la Standard Oil of California o Socal). Una era inglese, l’Anglo-Persian Oil Company (che diventerà British Petroleum o BP). L’ultima, la Shell, era, come abbiamo visto, metà inglese e metà olandese. A queste sette grandi Compagnie, che Enrico Mattei negli anni Cinquanta battezzerà le Sette Sorelle, va aggiunta la francese C.F.P. (la futura Total), che era un’industria di Stato ed aspirerà invano a diventare l’ottava sorella.

Per mettere fine alla guerra dei prezzi urgeva un’intesa. Così, meno di due mesi dopo l’accordo della Linea Rossa, nell’agosto 1928, fu perfezionato un altro accordo, che si rivelerà determinante per i destini del mondo. Questa volta il luogo scelto per l’incontro fu il castello scozzese di Achnacarry, preso in affitto dal neo barone Henry Deterding, patron della Shell. Motivo ufficiale della riunione era la pesca della trota. Tra cavalcate e banchetti che durarono due settimane i grandi del petrolio (oltre al citato Deterding c’erano John Cadman della BP, Walter Teagle della Exxon, William Mellon della Gulf, e i rappresentanti della Mobil, della Texaco e della Jersey) siglarono una dichiarazione di principi, detta Pool association, che divenne nota con il nome di “As-is”, cioè “Così com’è”, e che rimase “segreta” fino al 1952. In sintesi fu convenuto che, constatati gli effetti distruttivi dell’eccessiva concorrenza tra le Compagnie, che aveva portato alla attuale tremenda sovrapproduzione, era meglio lasciare i rapporti di forza così com’erano: nessuno avrebbe cercato di espandersi, nessuno avrebbe aumentato unilateralmente la produzione. Anzi, l’accordo stabiliva l’uso in comune degli impianti per evitare la costruzione di nuove raffinerie, e lo scambio di petrolio tra le Compagnie per rifornire i mercati più vicini.

Ma la decisione più importante fu che da allora in poi ci sarebbe stato un solo prezzo del petrolio, valido per tutto il mondo, calcolato con un sistema molto semplice: il prezzo ufficiale sarebbe stato quello del petrolio americano proveniente dal golfo del Messico aumentato dei costi di trasporto e nolo dai porti del golfo del Messico ai paesi destinatari. Nel calcolo non si teneva in nessuna considerazione la provenienza del greggio: qualunque fosse stata, esso sarebbe costato come se venisse dal golfo del Messico. I prezzi americani diventavano i prezzi mondiali.

Dopo la scoperta degli enormi giacimenti in Medio Oriente negli anni Trenta, dove l’estrazione del petrolio costava cinque volte di meno rispetto al Texas (venti centesimi contro circa un dollaro), le Compagnie del cartello petrolifero lucrarono enormi sovraprofitti. Il prezzo di mercato di un minerale non è quello che realizza il profitto medio, ma è tale da consentire all’impresa che lavora con la più bassa produttività di percepire il tasso medio del profitto. La differenza tra il costo di produzione singolo e quello del produttore meno produttivo costituisce la rendita differenziale. Così le forniture di petrolio sia agli Stati Uniti sia all’Europa occidentale, pagate non sulla base del prezzo di produzione del petrolio del Medio Oriente ma su quello del golfo del Messico, maggiorato delle spese di trasporto “virtuali”, faranno incamerare miliardi di dollari di rendita differenziale alle società sindacate. Tuttavia il prezzo del petrolio per un quarto di secolo non supererà il dollaro a barile, favorendo la crescita dell’economia occidentale.

L’accordo supererà indenne la crisi del ’29 e la Seconda Guerra mondiale, e durerà nella sostanza fino agli anni Sessanta, assicurando alle Compagnie del cartello un predominio assoluto nel mercato. Una volta stabilito il prezzo sulla carta (il famoso posted price), l’unico problema per le Compagnie consisteva nel tenere sotto controllo i fattori che avrebbero potuto determinare una caduta del prezzo reale rispetto al prezzo fissato, facendo in modo che la produzione non eccedesse la domanda. Questo controllo fu possibile grazie alla capacità delle Compagnie di padroneggiare tutta la filiera e al dominio delle concessioni attraverso l’intreccio delle partecipazioni. Una conferma grandiosa della tesi di Lenin, secondo cui la trasformazione della concorrenza in monopolio è uno dei fenomeni più importanti – se non il più importante – dell’economia del capitalismo moderno.

Due fattori concorsero al successo dell’accordo di Achnacarry nell’arrestare il crollo dei prezzi: il maggiore consumo industriale russo e il contingentamento della produzione petrolifera americana. Questo nel 1930 si era reso necessario dopo la scoperta di nuovi giacimenti in Texas: per evitare nuove trivellazioni e la sovrapproduzione, i governatori dell’Oklaoma e del Texas proclamarono la legge marziale e fecero occupare i pozzi dalla Guardia nazionale. L’arrivo alla presidenza di Roosevelt fece della deflazione petrolifera uno dei punti della lotta contro la Grande Depressione, fissando per legge un tetto alla produzione. I monopoli avevano vinto: tra il 1934 e il ’39 il prezzo del petrolio si attestò stabilmente intorno a un dollaro per barile.

 

19. Le api sul miele

Il fascino esercitato dal petrolio mediorientale era irresistibile e non risparmiava nessuno, perché l’economia di nessun paese poteva fare a meno di quella linfa vitale, di quel liquido maleodorante di cui il capitalismo ha bisogno per mantenere in vita la sua macchina insaziabile. Nel 1932 era stato scoperto il petrolio nel Bahrein, una catena di isole al largo della costa saudita, che era allora un protettorato britannico e un’appendice dell’impero Indiano (la sua moneta legale era infatti la Rupia). Gli inglesi erano dunque ben piazzati, ma l’Anglo-Persian in quel momento di petrolio ne aveva a sazietà in Persia e in Iraq e non era troppo interessata al Bahrein. Altrettanto disinteressate si mostrarono la Exxon e la Gulf, quest’ultima soprattutto perché, quale membro dell’IPC, si era impegnata a non fare esplorazioni nell’area della Linea Rossa. Toccò ad un outsider, la Standard Oil of California (Socal), approfittare delle indecisioni delle sorelle maggiori. Per superare le difficoltà frapposte dal governo britannico il Dipartimento di Stato americano invocò ancora una volta il principio della “porta aperta”.

L’anno successivo la Compagnia iniziò il corteggiamento anche all’Arabia Saudita, e la cosa andò in porto grazie ad Harry Philby, un ex funzionario inglese convertito alla religione musulmana e diventato intimo del re Ibn Saud. Il re saudita aveva bisogno di oro sonante e, dopo la scoperta del petrolio nel vicino Bahrein, non fu difficile convincerlo ad aprire le frontiere ai capitali stranieri. Philby divenne consulente della Socal e le fece ottenere la prima concessione saudita della storia, lasciando fuori gli inglesi.

Lo stabilirsi nell’Arabia Saudita di una Compagnia esclusivamente americana era destinato a mutare l’intero equilibrio politico in tutto il Medio Oriente. Quando le trivellazioni cominciarono a dare i loro frutti nel Bahrein, la Socal, dalla sua posizione isolata, si rese conto di essere a corto sia di capitali sia di mercati di sbocco, saldamente in mano alla Exxon. Così fu costretta a rivolgersi all’unica delle Sette Sorelle che non era vincolata alla Linea Rossa, la Texaco, la quale disponeva di una rete commerciale in Asia e nella Spagna di Franco, e che fu ben contenta di trovare una nuova fonte di greggio. Nel 1935 dalla loro unione nacque l’Aramco (Arabian American Oil Company) e tre anni dopo dai favolosi campi petroliferi arabi cominciò a sgorgare il primo petrolio. La concessione messa a disposizione dal re saudita aveva una superficie come quella del Texas, della Louisiana, dell’Oklaoma e del Nuovo Messico messi insieme.

Nello stesso periodo, anche il Kuwait fece il suo ingresso sul palco della commedia del petrolio: la battaglia tra gli interessi britannici e americani fu combattuta principalmente dietro le quinte, tra i rispettivi governi. Gli inglesi dell’Anglo-Persian fecero tesoro dello smacco subito nell’Arabia Saudita e nella gara per le concessioni kuwaitiane costituirono una società paritaria con la Gulf, la Kuwait Oil Company. Nel 1938, dopo due anni di perforazioni nei posti sbagliati, la Compagnia mista scoprì finalmente un ricco giacimento, che però rimase non sfruttato per diversi anni sia a causa dello scoppio della Seconda Guerra mondiale sia per la resistenza degli inglesi, i quali non volevano far concorrenza al loro petrolio iracheno e persiano.

 

20. Immoralità o rendita fondiaria ?

Nel 1952 il governo americano rivelò che una clausola nell’accordo di Achnacarry ne escludeva l’applicazione al mercato interno americano e alle esportazioni provenienti dagli USA. L’intenzione era di obbligare i petrolieri ad abbassare i prezzi ed impedire che i crediti del piano Marshall finissero soprattutto nelle loro tasche. Ma certo non si trattava di una dichiarazione di guerra alla lobby petrolifera. Quando gli “onesti” democratici denunciano, in nome della loro “morale”, l’aspetto “scandaloso” dei sovraprofitti dei petrolieri, dimenticano che sovraprofitti e rendite dei monopoli provengono solo dal plusvalore prodotto dalle classi lavoratrici. Marx da oltre un secolo ha dimostrato che questa “malversazione” è una legge economica inesorabile del sistema capitalista e porta il nome di rendita fondiaria. Il prezzo del petrolio non è dovuto all’immoralità e alla rapacità dei petrolieri ma alla legge della rendita fondiaria, che pesa come un macigno sulle spalle della forza lavoro del proletariato.

Scrivemmo in “Il Programma Comunista”, n. 8, 1955, “Il cartello del petrolio e le basi della conservazione capitalistica”:

     «Il problema non si imposta in termini di nazioni ma in termini di classi. Ciò si comprende appena ci si accorge che una diversa politica del Consorzio è cosa impossibile perché segnerebbe la rovina, ferme restando le leggi dell’economia mercantile e monetaria, della industria del petrolio, da cui conseguirebbe una minaccia di morte per la stessa conservazione della classe borghese (...) Il petrolio, come altri articoli di monopolio, finché resterà merce scambiabile con denaro, cioè finché resterà il capitalismo, sarà venduto nelle condizioni capestro imposte dal cartello internazionale. Le leggi del mercato vietano che lo stesso articolo di monopolio possa essere venduto a prezzi diversi, anche se determinate condizioni economiche permettano di produrre a costi differenziati. Il petrolio, per il diverso grado di efficienza dei pozzi a seconda della configurazione geologica del giacimento e dell’età del suo sfruttamento, viene prodotto a costi diversi. Certi pozzi in via di esaurimento hanno un bassissimo rendimento e quindi producono ad alti costi (...) Stando così le cose, si comprende agevolmente che, se il prezzo di vendita del petrolio fosse equiparato al prezzo di produzione del greggio estratto dai pozzi ad alto rendimento, una sicura condanna a morte peserebbe sui pozzi a bassa produzione (...) Di conseguenza il cartello internazionale viene a realizzare oltre al profitto normale enormi sovrapprofitti (la rendita differenziale di Marx) che sono dati appunto dalla differenza tra i costi di produzione (...) e il prezzo di mercato (...)
     «Non è l’Europa, termine che socialmente dice nulla, ma sono le masse lavoratrici dell’Europa che, in ultima analisi, pagano gli smisurati sovrapprofitti del cartello del petrolio (...) Le borghesie europee sono esse stesse parti contraenti del Consorzio internazionale o alla politica di questo legano indirettamente (produzione e vendite dei raffinati, trasporti del greggio, ecc.) immensi interessi. Se dunque il capitalismo europeo partecipa al pantagruelico banchetto dei sovrapprofitti petroliferi, è chiaro che questi debbano uscire dal lavoro e dal sangue di masse lavoratrici europee. Perciò noi diciamo che il principale oggetto dello sfruttamento e la più ricca colonia del trust del petrolio sono, molto più che il sottile strato salariato indigeno che lavora nei pozzi del Medio Oriente, le masse salariate dell’Europa occidentale (...) Il capitale maneggiato dal trust del petrolio non è, a rigore, né americano, né inglese, né francese, né olandese; è, al contrario, una potenza senza nome e internazionale».

E ancora da ”Vulcano della produzione o palude del mercato?” del 1954:

     «Non è quindi la concorrenza libera il carattere di base dell’economia borghese, ma il sistema dei monopoli, che permette di vendere tutta una gamma di prodotti, tra cui quelli preminenti della terra agraria e dell’industria estrattiva, a prezzi superiori al valore ossia alla somma di sforzo sociale che essi costano, dopo aver anche pagato il normale profitto dell’industria “libera”. La teoria quantitativa della questione agraria e della rendita è quindi la completa ed esauriente teoria di ogni monopolio e di ogni sopraprofitto di monopolio, per ogni fenomeno che stabilisca i prezzi correnti al di sopra del valore sociale. E ciò avviene quando lo Stato monopolizza le sigarette, come quando un potente trust o sindacato monopolizza, poniamo, i pozzi di petrolio di tutta una regione del globo, come quando si forma un pool internazionale capitalistico del carbone o dell’acciaio o, come sarà domani, dell’uranio. Quindi il senso generale del capitalismo è questo: storicamente comincia con l’abbassare quello che si potrebbe dire l’indice del lavoro sociale per una data quantità di prodotto manifatturato, il che condurrebbe la società a consumare gli stessi prodotti, ed anche prodotti aumentati, con un minore impiego di lavoro, e quindi diminuendo le ore di lavoro della giornata solare (...)
     «Non potendosi fermare il ritmo di inferno della accumulazione, questa umanità, parassita di se stessa, brucia e distrugge sopraprofitti e sopravalori in un girone di follia, e rende sempre più disagiate e insensate le sue condizioni di esistenza. L’accumulazione che la fece sapiente e potente la rende ora straziata e istupidita, fino a che non sarà dialetticamente capovolto il rapporto, la funzione storica che essa ha avuto (...) Non a caso un analogo ciclo del capitalismo ha condotto alla presente situazione di mostruoso volume di una produzione per nove decimi inutile alla sana vita della specie umana, e ha determinato una sovrastruttura dottrinale che richiama la posizione di Malthus, invocando, a costo di chiederli alle forze infernali, consumatori che inghiottano senza posa quanto l’accumulazione erutta. La scuola del benessere, con la sua pretesa che l’assorbimento individuale di consumo possa salire oltre ogni limite, gonfiando le poche ore, che il lavoro obbligato e il riposo lasciano a ciascuno, di fasti e riti e morbose follie parimenti obbligate, esprime in realtà il malessere di una società in rovina, e volendo scrivere le leggi della sua sopravvivenza non fa che confermare il decorso, forse ineguale, ma inesorabile, della sua orribile agonia».

 

21. Italia vaso di coccio

In Francia, al tempo del Fronte Popolare, l’automobile si “democratizzava”: la Germania nazista aveva inventato la “Volkswagen”, Citroën la “Due cavalli”. La benzina era allora abbondante e a buon mercato grazie alla partecipazione francese nell’Iraq Petroleum, con le quote strappate alla Deutsche Bank.

Lo stesso non si poteva dire dell’Italia che, estromessa totalmente dal ricco pascolo petrolifero del Medio Oriente, era costretta a rifornirsi di carburante in Romania. La società Agip (Azienda Generale Italiana Petroli) era stata creata con un regio decreto del 3 aprile 1926 per lo svolgimento dell’attività relativa all’industria e al commercio dei prodotti petroliferi. L’azienda nasceva nella forma di società per azioni, ma di fatto era un ente pubblico: il capitale sociale era conferito per il 60% dal ministero del Tesoro, per un 20% dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (Ina) e per il restante 20% dalle Assicurazioni Sociali. Nel 1927 fu emanata la cosiddetta “legge mineraria”, che attribuiva la proprietà del sottosuolo al demanio dello Stato ed imponeva pertanto che qualunque attività petrolifera fosse soggetta ad autorizzazione o concessione governativa. La società attraversò difficoltà dopo la crisi del 1929, ma riprese a svilupparsi negli anni Trenta. Nel 1933 fu emanata una norma protezionistica in materia di raffinerie e l’Agip poté operare con maggior agio anche in questo settore.

Alcuni anni prima l’Agip era riuscita ad entrare in una cordata finanziaria inglese, estranea all’Iraq Petroleum, che aveva costituito la British Oil Developpement (Bod) con lo scopo di perseguire la politica della “porta aperta” in Mesopotamia ed entrare nell’affare del petrolio iracheno. Il capitale era così ripartito: 51% al gruppo inglese, 25% all’Agip, il resto ad un gruppo tedesco di cui facevano parte i Krupp. Nel 1932, aggiudicatasi una importante concessione nella zona di Mosul, la società prese il nome di Mosul Oilfields: in essa l’azienda di Stato italiana, acquisendo ulteriori quote, era riuscita a diventare socio di maggioranza.

Per un attimo sembrò invertirsi la miope tendenza della politica estera italiana, che dopo lo smacco degli accordi di San Remo, quando l’Italia fu esclusa dalla spartizione del Medio Oriente, era portata più a mere rivendicazioni territoriali che al dominio economico assicurato dal controllo del petrolio. Ma nell’agosto del 1936, proprio quando la produzione petrolifera irachena si avviava a toccare i cinque milioni di barili, su direttiva del governo italiano l’intera quota di capitale fu incomprensibilmente ceduta alle Compagnie anglo-americane dell’Iraq Petroleum. Non si capirebbe il voltafaccia italiano senza accennare ai coevi avvenimenti africani.

Nel 1935 Mussolini, approfittando di un incidente verificatosi alla frontiera eritrea dove trenta soldati italiani erano stati uccisi in uno scontro con gli abissini, aveva rotto il patto di solidarietà anglo-franco-italiano di Stresa, facendo chiaramente capire di volersi impadronire dell’Etiopia, un paese membro della Società delle Nazioni. I governi francese e inglese si trovarono in imbarazzo: era meglio far finta di niente per assicurarsi l’aiuto italiano contro la Germania o conveniva appoggiare l’Etiopia? Preoccupata era soprattutto l’Inghilterra: la conquista italiana era una minaccia per l’irrigazione dell’Egitto, che essa occupava, oltre che per l’avvenire del Sudan anglo-egiziano, che separava l’Etiopia dalla Libia. Inoltre una grande Africa Orientale italiana rischiava di minacciare la strada delle Indie. Tutti i tentativi diplomatici per appianare la faccenda fallirono, come pure lo sfoggio di muscoli da parte della flotta inglese che concentrò nel Mediterraneo navi da guerra per un tonnellaggio doppio rispetto a quello italiano. Ma Mussolini, vista l’indecisione della Società delle Nazioni, contava evidentemente sul fatto che l’Inghilterra difficilmente si sarebbe imbarcata in una guerra in cui si fosse trovata da sola.

Così, il 3 ottobre 1935 iniziarono le operazioni militari italiane che si conclusero il 5 maggio 1936, quando le truppe entrarono in Addis Abeba. L’Etiopia non aveva speranza contro un esercito di 200 mila uomini dotato di armi moderne, compresi i gas asfissianti. Cominciò la farsa delle sanzioni. Fu rifiutata l’idea di applicare sanzioni militari, tanto è vero che la Gran Bretagna spinse i suoi scrupoli al punto di rifiutare di chiudere il canale di Suez per impedire alle truppe italiane di raggiungere l’Etiopia, appellandosi alla convenzione del 1888 che prevedeva la libertà di navigazione nel canale anche in tempo di guerra. Contro l’Italia furono adottate sanzioni finanziarie ed economiche che però non comprendevano ferro, acciaio, rame, piombo, zinco, cotone, lana e... petrolio! Forse la cessione della quota dell’Agip, oltre a portare denaro fresco nelle casse statali che la guerra di Spagna e la campagna d’Etiopia avevano prosciugato, aveva evitato quell’embargo petrolifero integrale che sarebbe stato esiziale per i sogni imperiali della borghesia italica.  

  (Continua al prossimo numero)


 
 
 
 
 
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7 dicembre 2013
Il magnifico sciopero dei tranvieri genovesi deve essere di esempio per tutti i lavoratori e da esso bisogna trarre degli insegnamenti fondamentali

– Le leggi che regolamentano gli scioperi, non solo nei trasporti, sono in realtà vere e proprie leggi antisciopero: seguirle significa condurre lotte completamente inefficaci. Sempre più i lavoratori, se vogliono difendersi dai crescenti peggioramenti, saranno costretti ad infrangerle, quindi a prepararsi a fronteggiare le conseguenti ritorsioni padronali e statali.

– Degli inevitabili fastidi imposti ai lavoratori di altre categorie sono responsabili i Sindacati confederali che impediscono la mobilitazione solidale e contemporanea di tutti i lavoratori.

– Dalle minacce padronali e statali la difesa sta solo nell’estensione della lotta e nel rafforzamento dell’organizzazione operaia. Il diritto di sciopero si difende... scioperando.

– Il fatto che queste lotte, che periodicamente si ripetono, a distanza di anni e in diverse città, non riescano a fondersi in un unico grande movimento di sciopero è dovuto alla mancanza oggi di un vero e forte Sindacato di tutti i lavoratori.

– È urgente che i lavoratori ricostruiscano le loro organizzazioni, un sindacato nazionale, categoriale e intercategoriale, che realmente esprima la necessità e volontà di lotta.

Non è la prima volta negli ultimi anni che i tranvieri ricorrono a questa prassi che i più definiscono estrema ma che in realtà è semplicemente il ritorno all’utilizzo dell’arma dello sciopero nella sua forma tradizionale e necessaria perché più efficace, in quanto più dannosa per l’azienda.

Presto anche le altre categorie di lavoratori, se vorranno difendersi dal crescente peggioramento delle loro condizioni di vita, dovranno ricorrere all’arma classica dello sciopero senza preavviso e ad oltranza, infrangendo la legalità dei codici, preparandosi a fronteggiare la possibile repressione attraverso la solidarietà fra i vari reparti della classe lavoratrice.

Sarà questo un passaggio decisivo verso la rinascita di una organizzazione sindacale di classe su base nazionale, che superi le differenze tra le varie categorie, le divisioni tra settore pubblico e privato, rifiuti ogni tipo di collaborazione con lo Stato e il padronato, che abbia nel suo programma la difesa, senza compromessi, degli interessi dei lavoratori con i mezzi classici della lotta di classe.

Affinché la classe, tutta la classe, possa difendersi tutti i giorni c’è bisogno di un gran lavoro di organizzazione e di chiarificazione da fare, al quale tutti i proletari sono chiamati:
– vita sindacale basata sul lavoro gratuito e volontario dei militanti sindacali, riducendo al minimo funzionari stipendiati;
– raccolta delle quote mensili sindacali per via diretta, attraverso i militanti sindacali, rigettando il mezzo della delega, per non dare in mano all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, base materiale fondamentale del sindacalismo concertativo e collaborazionista;
– organizzazione sindacale che privilegi le strutture territoriali rispetto a quelle aziendali, come nella tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si incontrano in quanto tali, non come dipendenti della singola azienda, rafforzando i legami di classe.

Lavoratori di tutti i paesi unitevi !