Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 362 - Novembre-Dicembre 2013 [.pdf]
PAGINA 1 Non è per l’egoismo dei Grandi la generale sovrapproduzione di tutto il capitalismo mondiale
La marcia della concentrazione schiaccia allevatori e industriali bretoni: Ma i proletari hanno interessi contrari
Per la difesa degli interessi della classe lavoratrice
PAGINA 2

–  Riunione generale del partito a Sarzana - 21-22 settembre [RG117]: Storia del movimento operaio negli Usa: gli I.W.W. - I rapporti con la democrazia alle origini del movimento operaio in Italia
Per
il
sindacato
di classe
In Sud Africa si afferma una robusta e moderna classe operaia che cerca la sua strada contro i tanti falsi amici
– Sciopero duro alla 3M di Orbassano
– Riunione di Sarzana - Sintesi del rapporto sull’attività sindacale
Alla Fincantieri di Marghera cade la maschera della Fiom: A Marghera
Bangladesh-Qatar: La internazionale classe operaia in lotta contro il Capitale
PAGINA 5 Le Tesi e Valutazioni classiche del Partito di fronte alle Guerre imperialiste del 1989: Contro la pace e contro la guerra così come contro il benessere e contro la crisi del capitale
Dal meccanismo democratico al centralismo organico del partito
PAGINA 6 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (continua dal numero 361): 13. I ladri di Baghdad - 14. Prove di guerra tra fratelli - 15. Imperialismo e Rivoluzione in Russia - 16. Epoca usuraia del Dollaro - 17. Una Linea Rossa sul Medioriente
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– 27 settembre - Fiat, Pomigliano d’Arco: Per la difesa dei lavoratori contro il capitalismo! Per il Sindacato di Classe! Per il Partito Comunista Rivoluzionario!
Ideal Standard, Electrolux: La lotta “per il lavoro” non è sufficiente a difendere la classe lavoratrice.
È necessario unire le lotte per conquistare il salario per gli operai licenziati e la riduzione dell’orario di lavoro.
18 ottobre - Contro le illusioni del riformismo, per il Sindacato di Classe, per il Comunismo Rivoluzionario!
Unire le battaglie isolate in una lotta comune contro la crisi ! - Per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario - Per il salario ai lavoratori disoccupati !


 

 

  

PAGINA 1


Non è per l’egoismo dei Grandi la generale sovrapproduzione di tutto il capitalismo mondiale

Un giornalista che si occupa di economia sul giornale “Les Échos”, a seguito dei piagnistei di rappresentanti delle diverse borghesie per il mondo – fra cui il direttore della Banca centrale indiana, per dirne uno – denuncia il carattere “irresponsabile” di un’America che “usa ed abusa” del suo dominio finanziario, per difendere solo i propri interessi!

E sì, caro signore, così va il mondo capitalista. I grandi Stati mangiano i piccoli, funziona così. Fin da quando ne apparvero i primi sulla riva dell’Eufrate e del Nilo, i piccoli Stati, con le buone o con le cattive, dovevano sottomettersi a Babilonia o al Faraone. Dopo 5.000 anni, poco è cambiato.

La grande differenza con quell’epoca lontana è che l’umanità in quei suoi modi di produzione antichi viveva l’alba delle società di classe, mentre noi oggi assistiamo al loro declino. Il grande compito storico del capitalismo, che ha sostituito alla produzione familiare e parcellare del contadino e dell’artigiano quella centralizzata della grande industria, basata sul lavoro collettivo del proletariato moderno, dei lavoratori salariati, è di aver creato a scala gigantesca le basi economiche della società comunista e la classe che sarà condotta prima a rovesciare il potere statale della grande borghesia, poi ad abolire i rapporti di produzione capitalistici, il salariato e il capitale.

Gli “americani” sarebbero egoisti e irresponsabili! Cone se fosse il popolo americano, o ancor meno i lavoratori salariati, a decidere la politica economica e diplomatica degli Stati Uniti, e non la grande borghesia finanziaria e industriale.

E che forse le borghesie degli altri paesi sarebbero meno egoiste e “irresponsabili”? Gli Stati Uniti usano ed abusano sì della posizione dominante del Dollaro, ma cosa faceva la borghesia inglese quanto la Gran Bretagna era la padrona del mondo e la sua moneta, la Sterlina comandava nella finanza mondiale? Non usava essa “abusare” della sua posizione dominante? E che sarebbe domani se la grande potenza capitalista cinese divenisse essa la nuova padrona del mondo?

La Fed inonda il mondo di Dollari al fine di evitare al capitalismo americano la catastrofe della deflazione come nel 1929! Ma le banche centrali di Europa e di Cina non fanno la stessa cosa? Quante centinaia di miliardi di Euro e di Yuan la Bce e la Banca di Cina hanno rovesciato nell’economia? Da settembre 2008 a settembre 2013 il bilancio della Fed è passato da 934 a 3.646 miliardi di Dollari! Nello stesso tempo quello della Bce da 1.968 a 3.182 miliardi! Cercate nel bilancio della Banca di Inghilterra e della Cina e troverete lo stesso.

Lo Stato cinese tira a stampare carta moneta come fa la Fed. Per difendere gli interessi del capitalismo e della borghesia industriale e finanziaria cinese mantiene artificialmente basso il cambio dello Yuan con il Dollaro, e stampa allegramente miliardi di Yuan perché i borghesi cinesi possano continuare ad inondare il mondo della loro paccottiglia a buon mercato, a danno dell’economia degli altri continenti e in particolare dell’industria europea.

Ma anche in Europa, paniere di vipere, ogni Stato difende solo gli interessi “egoistici” della propria borghesia, in un estenuante mercanteggiare fra loro per arrivare al più insignificante dei compromessi.

La causa delle crisi non risiede in un certo comportamento di Stati grandi o piccoli, in una loro deprecabile, e correggibile, “morale”, ma nel modo di produzione capitalista in generale, che ha fatto il suo tempo e che sopravvive solo passando da una crisi all’altra.

Il capitalismo mondiale, a parte alcune crisi di sovrapproduzione locali, ha goduto di un quasi ininterrotto gonfiarsi dal 1945 al 1975, fondato sull’orribile macello di due guerre mondiali, collo streminio di uomini e distruzioni immense! Ma questo “trentennio di gloria” è definitivamente concluso ed ormai ogni 7-10 anni il capitalismo precipita in crisi di sovrapproduzione.

Le borghesie nazionali, nascoste dietro i loro agenti pubblicitari, i cosiddetti “economisti”, per difendere i loro privilegi di inutili parassiti e continuare ad ingrassarsi, mantengono in vita questo sorpassato modo di produzione facendo pressione sui lavoratori salariati e spingendone strati sempre più vasti nel pauperismo e nella precarietà. Ma più spingono nella miseria le masse proletarie più ad essi si avvicina la sorte che toccò alla antica aristocrazia, anch’essa allora classe di parassiti legata ad un modo di produzione che aveva fatto il suo tempo.

Oggi ci tornate a cantare il motivetto dell’anti-americanismo per distogliere il proletariato mondiale dalle responsabilità storiche di tutta la internazionale classe dei borghesi. La futura, inevitabile, rivoluzione comunista, ritrovato il cammino glorioso delle sue grandi tradizioni, intonerà allora ben altra canzone.

 

 

 


La marcia della concentrazione schiaccia allevatori e industriali bretoni
Ma i proletari hanno interessi contrari

In Francia la Bretagna è in lotta. Anche lì la crisi colpisce duro: da mesi si ripetono gli annunci di riduzioni di orario e di chiusura di fabbriche con il triste strascico dei piani di licenziamento. Quando su questa situazione il governo ha fatto piovere la co­siddetta ecotassa, prevista fin dal 2007, tut­ti sono scesi nelle strade, padroni di industrie e contadini, operai e fino alle associazioni “culturali”. Anche gli indipendentisti hanno ritirato fuori le bandiere della Bretagna e distribuito il berretto frigio, ricordo della rivolta bretone del 1675 contro le tasse di Colbert! I social-traditori al governo, con cinque ministri bretoni, fra i quali il primo, associati agli ecologisti, navigano a vista cercando di rassicurare questa “terra retriva” che tuttavia è riuscita ad eleggerli.

Questa la cronaca recente del disastro della regione: nel giugno 2012 il gruppo di allevamento di polli Doux, 24 società con 3.400 dipendenti, è messo in amministrazione giudiziaria; a luglio l’industria automobilistica PSA annuncia il licenziamento di 1.400 operai dalla fabbrica di Rennes, senza contare quelli nelle sotto-forniture; il 30 agosto l’allevamento di polli Tilly-Sabco decide di diminuire la produzione del 40%; in settembre 2012 Doux sopprime 1.000 posti di lavoro; nel giugno 2013 la norvegese Marine Harvest, numero uno mondiale del salmone affumicato, chiude due dei suoi impianti vicino a Finisterre e sopprime 403 posti; in agosto la macelleria suina di Gad sacrifica 889 posti su 1.700 e Tilby-Sabco 160 su 400. Segue il sito del gruppo Telecom-Alcatel a Rennes che dovrebbe chiudere nel 2014.

Ma la situazione in Bretagna non è diversa da quella nazionale. Il capitalismo francese si era orientato negli anni ‘60 a rimpiazzare il carbone col petrolio per il suo minor costo. L’industria si spostò quindi dal Nord-Est verso l’Ovest ed il litorale atlantico, regioni fino allora poco industrializzate. Iniziò così la rovina di tutto l’arco industriale del Nord Pas de Calais, Champagne, Ardenne, Lorena, Picardia, Comté, Auvergne e regione parigina, e da allora queste regioni non si sono più riprese malgrado le grandi lotte operaie dei bacini minerari del 1975, in Lorena e Nor Pas de Calais in particolare. Dal 1968 al 2008 la Bretagna si è quindi enormemente sviluppata divenendo la prima regione di Francia per l’industria agro-alimentare, per le tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni “hight tec”, per le biotecnologie e per l’industria dell’automobile. Ma oggi anche la Bretagna è investita dalla crisi che incrudelisce ovunque.

L’ecotassa sui mezzi pesanti, che avrebbe dovuto entrare in vigore nel gennaio 2014, non poteva cadere peggio: ha accomunato l’opposizione dei padroni dell’agro-alimentare, in particolare quelli della Bretagna, e della potente Federazione Nazionale dei Sindacati dei Conduttori Agricoli. Questo nuovo balzello sui mezzi di trasporto di merci su gomma ha origine dagli accordi sull’ambiente del 2009, iniziativa di Nicolas Sarkosy, presidente del partito di destra UMP, ma condivisa anche dai partiti di sinistra, allo scopo “auspicato” di indurre le imprese a preferire le modalità di trasporto meno inquinanti, il treno e i canali. La legge è stata definitivamente approvata dal parlamento nell’aprile scorso, con il sostegno di socialisti, ecologisti e radicali di sinistra; la destra ne è divenuta all’improvviso meno entusiasta; il Fronte delle Sinistre (Partito Comunista e Mélenchon) si sono dichiarati contro.

Prevede che ogni autocarro pesante si attrezzi con un GPS, si registri presso una società privata delegata dallo Stato, la quale provveda all’installazione delle porte di tele-rilevamento su una rete stradale, scelta con criteri non chiari e con esclusione di alcune regioni, su 10.000 chilometri di strade ed autostrade e su 5.000 chilometri di dipartimentali e comunali, raccolga i dati sui transiti e riscuota la tassa. Attualmente il costo di trasporto su strada varia da 1,20 a 1,30 euro al chilometro, al quale si aggiungerebbe l’ecotassa di 13 centesimi. Questa dovrebbe fruttare 1,2 miliardi all’anno, ma, ed è qui che più alte si alzano le grida, 250 milioni rimarrebbero nelle casse della società di rilevamento, il 20%! Per di più, la società prescelta non è “francese” – il contratto fu firmato dal precedente governo nel 2011 per la durata di 13 anni – ma un consorzio europeo del quale il 70% è detenuto dalla italiana Società Autostrade, i cui principali azionisti sono il gruppo Benetton e la banca americana Goldman Sachs.

L’ecotassa c’è anche in altri paesi, come la Germania; la Slovacchia l’ha data in gestione, invece, ad una società privata francese: un vero internazionalismo daziario, l’informatica applicata ad antichi-moderni balzelli!

Operai e padroni bretoni sono quindi scesi nelle strade, ma non certo per le stesse ragioni: gli operai hanno perduto il lavoro o vedono peggiorare le loro condizioni, i padroni delle piccole e medie imprese si battono per la loro sopravvivenza di classe. Le manifestazioni si succedono fin dal 2009 ma il ritmo si è accelerato con i ripetuti annunci di chiusure da giugno scorso: occupazione dell’aeroporto di Brest e blocchi stradali; scontri anche violenti con la gendarmeria e i CRS; incendi di portali telematici; dispersione di verdure e uova; grida antigovernative.

Il 29 ottobre il governo fa un gesto: l’ecotassa è sospesa, ma non abolita. A 5 mesi dalle elezioni municipali e a 7 dalle europee i social democratici vogliono parer conciliatori!

Sabato 2 novembre è organizzata a Quimper una manifestazione dalla Federazione Agricoltori, dai sindacati operai FO e Medef, dal Fronte Nazionale di Marine Le Pen e da UMP: rispondono in 30.000, operai, padroni, parlamentari di destra, trotzkisti, associazioni culturali bretone, indipendentisti di estrema destra e alternativi vari. Lo stesso giorno la CGT, cercando di riprendere la cosa in mano in concorrenza col fronte condotto dai padroni, organizza in una città vicina, Carhaix, un’altra manifestazione “senza i padroni” sostenuta da altri sindacati come FSU, Gauche, la CNT anarchica, LO trotzkista, ma con minor successo. Il CFDT, l’UNSA, la Confederazione contadina, i militanti del PS e gli ecologisti bretoni, tutti intruppati nella maggioranza parlamentare, hanno dato la direttiva di non manifestare.

Ma cosa sta succedendo in Francia, e in Bretagna in particolare?

L’agro-alimentare è il primo settore industriale francese come cifra d’affari e come occupati; nel 2012 ne contava 495.000 in 13.500 imprese, delle quali il 90% con meno di 20 dipendenti, e contribuiva al 20% delle esportazioni nazionali.

Il settore in Bretagna, che già negli anni ‘60 dava lavoro ad un terzo degli addetti in Francia, oggi ne produce il 58% dei suini, il 39% delle uova ed il 21% del latte. Contribuisce all’11% del prodotto della regione.

Ma ormai la crisi impone ogni anno la chiusura di centinaia di imprese (220 nel 2011, 320 nel 2013). Se all’inizio del millennio la Francia condivideva con gli Usa il primo posto come esportatore del settore, oggi si trova al quinto, dopo Usa, Olanda, Germania e Brasile.

L’allevamento e la lavorazione dei suini sono entrati in crisi già nel 1990; dopo il 2007 i costi di produzione sono talmente aumentati che spesso superano i prezzi di vendita. In Francia si contano 12.000 allevamenti dei quali un terzo è in Bretagna. Le sovvenzioni europee, che permettevano agli allevatori di riuscire ad accedere alle esportazioni, sono stati soppresse accelerando l’ecatombe. Più del 70% dei costi vanno per l’alimentazione degli animali, e il prezzo dei cereali non fa che aumentare, senza parlare delle multinazionali dei fertilizzanti e degli altri prodotti chimici utilizzati nell’allevamento che impongono i loro prezzi, e quelli della distribuzione, con le multinazionali della carne che acquistano a prezzi sempre minori: il suino tedesco e il pollo brasiliano costano di meno. In Germania i grandi produttori di carne come la danese Danish Crown, l’olandese Vion, la tedesca Westfleisch, si sono impiantate in Bassa Sassonia e vi fanno lavorare ad alta produttività 142.000 operai ed altri 60.000 presi “in affitto” da altri paesi. Infatti, fra le misure di “risanamento” sociale promulgate per il “bene” dell’economia tedesca dieci anni fa dal governo socialdemocratico, notoriamente amico dei lavoratori, il pezzo migliore fu la legislazione sul lavoro preso “in prestito” dai paesi vicini: le aziende possono ingaggiare mano d’opera straniera alle condizioni del paese di origine. E certo non se ne sono private: romeni, bulgari, spagnoli hanno così lasciato i loro paesi di miseria (la chiamano emigrazione “volontaria”!) per andare a lavorare nelle grandi industrie della lavorazione carni in condizioni terribili, alloggiati in tuguri, con paghe da 2 a 5 euro l’ora. Questa la prosperità tedesca della quale si vantano i governanti! Devono far dimenticare quel 20% della popolazione attiva, di “razza” tedesca, che si trova precarizzata, pauperizzata e pagata con una elemosina.

L’agro-alimentare è ormai il settore chiave anche dell’economia brasiliana. I macelli di JBS Fribol sono divenuti i maggiori del mondo a seguito di fusioni e acquisizioni internazionali, negli Usa, in America Latina, in Europa; la consorella Marfrig Alimento, divenuta quarta per la produzione di carne bovina, ha forte presenza in Europa (primo produttore di pollame in Gran Bretagna). Ormai i primi cinque produttori mondiali di carne sono in Usa e in Brasile.

I proletari, bretoni, francesi e di tutto il mondo, non hanno niente da attendersi da questa guerra fra capitali e fra borghesi, se non licenziamenti, riduzioni del salario e serio peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro.

Quanto ai piccoli padroni, noi marxisti sappiamo molto bene che la loro lotta è senza speranza e che la marcia della concentrazione del capitale verso i monopoli è inesorabile.

I lavoratori devono ritrovare il cammino della lotta di classe, ben distinto da quello dei loro padroni, armarsi di una vera organizzazione sindacale e ricongiungersi al loro partito comunista rivoluzionario.

 

 

 

 


Per la difesa degli interessi della classe lavoratrice

In Italia a settembre si è registrato il 25° mese consecutivo di calo della produzione. Il padronato per “rimanere sul mercato”, continua a ridurre la forza lavoro, licenzia e chiude le fabbriche o le sposta in altri Paesi dove i salari sono ancora più bassi. Nel settore pubblico è previsto un nuovo blocco degli stipendi, tagli alla scuola, sanità etc. A questo durissimo attacco coordinato ed unitario i lavoratori arrivano passivi e disorganizzati.

Lavoratori !

Oggi, CGIL CISL e UIL, vi chiamano a scioperare per cambiare la Legge di stabilità. Questi sindacati dispensano consigli per migliorare la competitività aziendale che vuol dire maggior sfruttamento dei lavoratori.

Il sindacalismo di regime in questi ultimi 40 anni ha sempre giustificato le misure antioperaie allo stesso modo: “stare peggio oggi per stare meglio domani”. È evidente invece che ogni nuovo sacrificio è stato la premessa per un arretramento ancora peggiore e che la crisi è stata rimandata ma non risolta: è esplosa cinque anni fa e continuerà fino al tracollo dell’intero sistema economico capitalistico. La crisi attuale infatti non è un fenomeno passeggero ma storico, a generarla non sono stati una “cattiva politica”, gli “sprechi” o la “corruzione”: le vere cause della crisi sono la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto e risiedono nella produzione, là dove il lavoro operaio crea il plusvalore.

Compagni, lavoratori !

La via di uscita da questa tragica situazione va ritrovata nella secolare tradizione di lotta del proletariato che ha dimostrato come esso non possa sperare nell’aiuto delle altre classi ma debba lottare per la sua emancipazione, in primo luogo ricostituendo l’unità dei lavoratori delle diverse fabbriche e categorie nel suo tradizionale organo di combattimento, il sindacato di classe.

Non si può affrontare la situazione attuale con una miriade di vertenze aziendali, lotte di fabbrica o scioperi rituali come quello odierno. È all’intera borghesia, industriale e finanziaria, non alla singola azienda, che la classe lavoratrice può e deve imporre il soddisfacimento dei propri bisogni.

Questo è il compito primario di un vero sindacato di classe che deve essere ricostruito rigettando tutto il bagaglio del sindacalismo di regime e facendo propri i principi e i metodi dell’originario movimento sindacale proletario:
Difesa intransigente dei lavoratori, rifiutando ogni subordinazione a quelli dell’azienda e del paese, dell’economia nazionale, ossia del capitalismo;
Utilizzo dei metodi propri della lotta di classe: scioperi ad oltranza, senza preavviso, cercando di estenderli sempre agli altri lavoratori al di sopra delle aziende, delle categorie e delle nazionalità, con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri;
– Sforzo continuo, in ogni lotta parziale e contingente, di dimostrare ai lavoratori la necessità di unire ed estendere il fronte della lotta, rompendo i limiti di azienda e categoria.

Operai !

Un sincero sindacato di classe è sempre più necessario, sindacato che dovrà privilegiare l’organizzazione territoriale dei lavoratori rispetto a quella aziendale e di categoria, per unire occupati, precari e disoccupati, lavoratori delle piccole aziende con quelli delle grandi, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del lavoro.

Il sindacato di classe oggi non può rinascere che fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), definitivamente votati alla difesa dell’economia nazionale e dovrà lottare in primo luogo per:
– Salario pieno ai lavoratori licenziati, a carico di industriali e banchieri, pagato dallo Stato borghese.
– Riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, in modo da far rientrare al lavoro i compagni licenziati.
– Difesa intransigente del salario, con aumenti maggiori per le categorie peggio pagate.

 

 

 

 


Facchini in lotta contro Stato, padroni e Sindacati di regime

Gli scioperi degli operai della logistica si van­no estendendo e si rafforza la loro organizzazione, il Sindacato Intercategoriale Cobas, che così giustamente si autodefinisce.

Se queste lotte appaiono una eccezione nel mare del controllo corporativo e burocratico dei sindacati confederali, fedeli alla difesa degli interessi della borghesia e del capitalismo, gli operai della logistica rappresentano attualmente l’avanguardia della classe operaia e le mostrano il necessario destino a cui sta andando incontro: riprendersi la propria indipendenza di movimento nella coscienza di potere e dovere resistere all’attacco capitalistico, organizzandosi, nei luoghi di lavoro, in modo autonomo dalle esigenze di fabbrica, per tendere a costruire una rete che nazionalmente incanali la forza di tutta la classe.

Perché l’attacco della borghesia non si limita alle condizioni di vita e di lavoro, ma alle condizioni stesse della lotta operaia. Non è più sufficiente per lo Stato borghese controllarla e lasciarla sfogare nei pacifici cortei/passeggiata, ma è necessario colpire l’organizzazione sindacale, dimostrando la inconsistenza dei cosiddetti “diritti” e “libertà” democratici. Ecco che contro il SI.Cobas fioccano centinaia di denunce, i licenziamenti punitivi, i fogli di via e gli arresti domiciliari, le multe, oltre a vili attacchi di aggressione personale ai militanti. L’azione repressiva degli organi padronali e dello Stato tende ad intimorire, spezzare l’unità conquistata, cerca di impedire o almeno rallentare lo sviluppo dell’organizzazione e della lotta.

A questo bisogna rispondere mantenendo, proclamando e praticando i caratteri di classe del movimento, che sono la nostra prima e vera forza e difesa, anche materiale: l’azione diretta, gli obbiettivi della solidarietà proletaria, i metodi propri ed originali della lotta e della organizzazione operaia. La difesa di classe consiste nell’organica esplicazione di questi compiti, essenza del movimento. Si può resistere e rafforzarsi solo se le vene del corpo proletario organizzato sono libere da ostacoli e compromessi politici ed organizzativi.

Un movimento sindacale dalle solide basi di classe, che dimostri di sapersi dare una continuità organizzativa e chiari obbiettivi e metodi di lotta, avrà certo anche i suoi propri canali, centri e reti di solidarietà economica e convergenti nella mobilitazione. Ma anche nel campo sindacale sono da respingere compartecipazioni di qualsiasi natura con la classe nemica, sul piano degli obbiettivi prima di tutto, ma anche dei metodi: casse di solidarietà certamente e, per esempio, raccolta diretta delle quote e non con delega al padrone e consegna della lista degli iscritti.

Questo significa dare senso e forza al sindacato, costruito dagli stessi operai con i loro sforzi ed i loro sacrifici, in un ambiente borghese ostile e nemico, morente ma che sappiamo sarà pronto a tutto per difendere i suoi privilegi.

 

 

 

 


Riunione generale del partito a Sarzana

21-22 settembre [RG117]


 - Corso dell’economia mondiale
 - Attività sindacale del partito in Italia
 - Scioper fuori dai sindacati in Gran Bretagna
 - La questione militare: la Comune di Parigi
 - Economia marxista: Il comunismo nei Grundrisse di Marx
 - I concetti di Stato e di Rivoluzione nel pensiero borghese
 - Evoluzione della crisi in Siria
 - Storia del movimento operaio in Usa: gli I.W.W. [ resoconto esteso ]
 - Per una storia dei sindacati in America Latina
 - Democrazia e origine del movimento operaio in Italia
 

Siamo tornati a Sarzana nella comoda ed ampia sala affittata da un consiglio di quartiere. Dei nostri gruppi presenti da Torino, Cortona, Genova, Firenze, Parma, Pordenone, Sarzana e dall’estero Francia, Gran Bretagna, Danimarca e America latina.

I lavori si sono svolti nel nostro fare improntato alla massima intesa ed abitudine alla collaborazione fra compagni, metodo che una prova ormai annosa dimostra corrispondere appieno ai difficili compiti che al partito incombono. Metodo questo, siamo certi, pienamente adeguato sia alla attuale “situazione sfavorevole”, sia a quando, domani, avremo un vero, forte e lanciato alla vittoria “partito comunista mondiale”.

I primi arrivi dei compagni sono avvenuti già il venerdì pomeriggio. Anticipati gli argomenti con la nostra fitta corrispondenza, alla riunione del sabato mattina il centro, come al solito, ha elencato e fatto un bilancio delle numerose sfaccettature dei corposi e numerosi impegni dei nostri gruppi e ne è stato aggiornato e messo a punto il programma futuro. Un davvero complesso operare che tende ad impegnare tutti i nostri militanti, ai quali ovviamente non si chiedono opinioni o il voto, ma lavoro.

Questi contributi, salvo inevitabili piccole correzioni di tiro, in un partito sano e allenato, spontaneamente convergono in una severa disciplina, nei modi e nei contenuti programmatici, che non è nemmeno necessario dover nominare o richiamare.

Qui una prima metà dei riassunti delle numerose relazioni; il resoconto sull’attività sindacale è qui accanto; i restanti nel prossimo numero, e tutti, per esteso, nella rivista Comunismo.

 

Storia del movimento operaio negli Usa: gli I.W.W.

Nella storia del movimento operaio americano hanno avuto, dal 1905 al 1920 almeno, un posto di grande rilievo gli Industrial Workers of the World (I.W.W., popolarmente detti gli "wobblies"). A questa organizzazione, sorta specialmente per iniziativa della Federazione dei Minatori dell’Ovest, si deve se gli operai del West, dove il capitalismo si era impiantato nelle sue forme più moderne e più ferocemente sfruttatrici, poterono finalmente opporre alle grandi compagnie dilaganti verso la costa del Pacifico un fronte compatto in cui, diversamente dalla ormai corrotta A.F.L. ultrariformista, non v’erano distinzioni di razza, di nazionalità e di colore, e primeggiavano i lavoratori non qualificati, i più oppressi e i più combattivi.

Ad essa si devono i grandi scioperi del 1907 nelle acciaierie, del 1911 nell’industria forestale, del 1912 nell’industria tessile (Lawrence) e del 1913 particolarmente nei setifici, e, durante la Prima Guerra mondiale, i poderosi movimenti nelle industrie del rame, forestale e siderurgica, durante i quali la prassi della generalizzazione delle lotte rivendicative, della solidarietà militante fra categorie diverse, dell’astensione dal lavoro senza limiti preventivi di tempo (lo sciopero di Patterson durò 7 mesi!), la ferma decisione di non arretrare di fronte alla polizia ed eventualmente all’esercito, né in pace né in guerra, fecero tremare i democraticissimi governanti USA, schiumare di rabbia i borghesi e piccoli borghesi, tuonare dalle tribune gli oratori ufficiali della classe dominante e i loro lacché opportunisti e dai pulpiti i preti delle mille chiese e sette americane, mentre il piombo degli sbirri falciava centinaia di militanti e le porte delle prigioni si aprivano per incarcerarne a migliaia. È un albo d’oro, sotto tutti questi aspetti, quello che gli I.W.W. hanno riempito di nomi oscuri di proletari ardenti, che osavano scrivere sulle loro bandiere: Abolizione del lavoro salariato!

Il movimento degli I.W.W., decimato dalla repressione delle forze dell’ordine, sconfessato dal bonzume sindacale e politico, minato dalle sue insufficienze teoriche e programmatiche (che si riflettevano in gravi debolezze organizzative), entrò in declino dopo la Prima Guerra mondiale. Ma, nella pesante atmosfera della Repubblica delle stelle e strisce, la sua voce, pur flebile, è uno dei pochi segni di vera combattività di classe. E non si possono leggere senza condivisione le prime righe del Preambolo degli I.W.W., riprodotto in ogni numero dell’IndustriaI Worker edito a Chicago:

«La classe operaia e la classe imprenditrice non hanno nulla in comune. Non può esservi pace finché fame e bisogno regnano fra i milioni che lavorano, e finché i pochi che compongono la classe imprenditrice possiedono tutti i beni della vita. Fra le due classi la lotta non può cessare prima che gli operai del mondo si organizzino in quanto classe, prendano possesso della terra e del macchinario produttivo, e aboliscano il sistema salariale (...) Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario giornaliero per un’equa giornata di lavoro”, dobbiamo scrivere sulla nostra bandiera la parola d’ordine rivoluzionaria: “Abolizione del lavoro salariato” (...) La missione storica della classe lavoratrice è di spazzar via il capitalismo».

Ma il riconoscimento di una tradizione di grandi ed eroiche lotte, di una continuità caparbia nel grigio mondo del dollaro, di una così aperta professione di fede nel compito rivoluzionario della classe operaia, di una martellante critica dei sindacati opportunisti che «mettono un gruppo di operai contro l’altro nella stessa Industria» e alimentano in essi «la falsa credenza che la classe operaia abbia interessi comuni con la classe degli imprenditori», non deve tuttavia velare ai nostri occhi l’inconsistenza delle basi teoriche e programmatiche degli I.W.W., sostanzialmente analoghe a quelle dell’anarco-sindacalismo europeo e, per certi riguardi, del nostrano ordinovismo.

Fu questa inconsistenza che già nel 1920-1921 vietò a quei battaglieri organizzatori operai non solo di trovare la via del comunismo, di darsi cioè un partito che aderisse alla III Internazionale, ma neppure aderirono all’Internazionale dei Sindacati Rossi. Sono per “l’azione diretta” e per lo “sciopero generale”, ma rifiutano la lotta politica e il suo organo, il partito di classe. Vedono nello sciopero generale il mezzo taumaturgico capace di operare da solo, col peso bruto della paralisi produttiva, il crollo del “sistema”. Sono degli immediatisti: rifiutano la mediazione della forma-partito, e quindi della forma-Stato (la dittatura), come “sovrapposizione” dei “capi” alle “masse”, come “sostituzione” di una “volontà” estranea alla volontà immediata della classe, nella sua generalità indistinta e, diciamo pure, informe.

«Organizzandoci per industria noi formiamo la struttura della nuova società nel guscio della vecchia». Rifiutano la “violenza”, e quindi il terrore rivoluzionario, perché «distruggono i mezzi di produzione», mentre l’azione diretta mira «a rendere inutili i mezzi di produzione per gli sfruttatori, conservandoli ad uso dei lavoratori una volta che i padroni saranno privati del loro controllo». Cadono quindi, contro ogni migliore intenzione, in un’altra specie di gradualismo e riformismo: teniamo efficienti le macchine che un gior2no saranno nostre! È logico che gli I.W.W. considerino non solo i sindacati d’industria ma persino le cooperative esistenti come cellule della nuova società entro la vecchia.

Come gli anarcosindacalisti, gli I.W.W. reagiscono alla degenerazione parlamentare e all’opportunismo dei vecchi partiti “operai” e dei sindacati – spinto fino all’aperto crumiraggio e all’appoggio delle istituzioni borghesi – rifiutando ogni organizzazione in partito, ogni forma di Stato. Non capiscono (come osservava la III Internazionale in una sua lettera del gennaio 1920) che «distruggere l’edificio dello Stato capitalista, spezzare la resistenza della classe capitalista e disarmarla, confiscare le proprietà e trasmetterle ai lavoratori; questi compiti, per essere realizzati, hanno bisogno di un governo, di uno Stato, della dittatura del proletariato mediante la quale i proletari possano spezzare la classe nemica con un pugno di ferro», e tutto ciò, anzi, prima ancora dello stesso abbattimento del regime borghese, presuppone l’organizzazione in partito politico. Non capiscono che lo sciopero generale o si trasforma in insurrezione armata o si esaurisce in se stesso; che non si può costruire la società nuova all’interno della vecchia, perché nulla può essere “costruito” di nuovo se non si conquista il potere e lo si esercita per schiacciare le resistenze di una classe imprenditrice, che non si volatilizzerà solo perché noi avremo incrociato le braccia.

E, come gli anarco-sindacalisti, credono che una certa forma di organizzazione economica – nel loro caso, quella basata sull’industria invece che sul mestiere – sia di per sé rivoluzionaria; scambiano quello che è un problema di forza e di contenuto per un problema di forma, e non si avvedono che qualunque forma organizzativa immediata può essere volta a fini rivoluzionari o ad obiettivi riformisti e quindi controrivoluzionari a seconda del prevalere in essa di forze politiche e di contenuti programmatici rivoluzionari o riformisti. Questo è dimostrato proprio in America quando il principio della organizzazione per industria anziché per mestiere venne poi fatto proprio dal C.I.O., che finì per allinearsi in pieno col conservatorismo riformista dell’A.F.L.

Lotte intestine agli I.W.W. ne provocarono ripetutamente la lacerazione, fra “politici” e “apolitici”, fra “accentratori” e “decentratori”, senza però mai raggiungere la maturità del marxismo. I sentimenti di solidarietà, il rifiuto di ogni distinzione di razza e di nazione, il richiamo ai mezzi dell’azione diretta fino allo sciopero generale sono i meriti degli I.W.W. Il suo limite è il pre-marxismo che li ispira.

Nelle poderose battaglie di classe che torneranno a divampare in quello che oggi sembra l’inattaccabile tempio di Mammona – come inattaccabile sembrava allorché i wobblies di 65 anni fa lanciarono al sistema salariale il loro grido di guerra – una minoranza di quei proletari dovrà aver appreso che il partito di classe, la dittatura rivoluzionaria, il terrore rosso, sono gli anelli dell’unica catena che lega le prime, istintive reazioni della classe lavoratrice all’oppressione salariale all’obiettivo finale della propria emancipazione. Sentirà che «ogni lotta economica è lotta politica», e che «la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato», passaggio obbligato «alla soppressione di tutte le classi e ad una società senza classi».

 

I rapporti con la democrazia alle origini del movimento operaio in Italia

Questa serie di rapporti ha avuto inizio per dimostrare un concetto fondamentale della nostra dottrina: democrazia e comunismo sono inconciliabili.

I primi rapporti si sono basati sui testi classici, a partire dal Manifesto del 1848, che in modo chiaro attestano come fin dal suo primo sorgere il movimento comunista abbia rigettato l’ideologia democratica, che pretenderebbe accomunare tutti quanti gli individui, a qualunque classe sociale essi appartengano, per una finalità ed un metodo di ipotetico interesse di tutta la collettività.

Successivamente si è passati a ripercorrere le tappe della organizzazione proletaria in Italia. Se avessimo preso in esame qualsiasi altro paese avremmo trovato differenze di dettaglio, ma la sostanza non sarebbe cambiata.

Le prime organizzazioni, quando non si poteva parlare ancora di una classe operaia diffusa, nacquero addirittura per iniziativa di preti, nobili, borghesi che, con atteggiamento paternalista e filantropico, a volte sincero, si ripromettevano di alleviare le misere condizioni del proletariato, mantenendo le rivendicazioni operaie all’interno delle compatibilità con il regime borghese.

Anche se in questi limiti, si ebbe una evoluzione, determinata soprattutto dal fatto che in Italia la stessa borghesia era costretta ad assumere un ruolo rivoluzionario per la costituzione dell’unità nazionale.

Fu relativamente facile a Mazzini organizzare a livello nazionale le varie organizzazioni operaie ed imprimere loro una impostazione radicale antimonarchica, ma non certo antiborghese. Gli operai avrebbero dovuto rappresentare la punta avanzata della rivoluzione repubblicana ma, una volta abbattuta la monarchia, si sarebbe dovuta realizzare la piena collaborazione di classe instaurando il regno della democrazia.

Però, fin dalla nascita della I Internazionale alcune società operaie cominciarono a comprendere l’impossibilità della collaborazione di classe, accostandosi al Consiglio Generale di Londra.

Da parte sua l’Internazionale seguì molto da vicino l’evolversi dell’organizzazione operaia in Italia e, tramite il suo inviato, Carlo Cafiero, organizzò una considerevole rete di associazioni dotate di battaglieri organi di stampa.

Senonché questa rete improvvisamente abbandonò l’Internazionale per aderire, quasi in blocco, all’anarchismo. Il motivo di questo repentino mutamento è molto semplice da spiegare: in Italia non esisteva ancora un capitalismo sviluppato e, di conseguenza, nemmeno un proletariato sviluppato. Le teorie di Bakunin, che predicava la rivolta immediata, erano quelle che meglio rispondevano ai sentimenti di odio nutriti istintivamente dagli sfruttati, consci dell’impossibilità di darsi una solida organizzazione rivoluzionaria.

Dagli insegnamenti sia degli sciagurati tentativi insurrezionali anarchici, sia della grandiosa Comune di Parigi, sia del procedere del capitalismo, in Italia una considerevole parte del movimento anarchico cominciò una progressiva opera di riflessione traendone la lezione della assoluta necessità della organizzazione in partito.

Per iniziativa di Andrea Costa, il 30 aprile 1881, ad Imola, usciva l’“Avanti!...”, “periodico socialistico settimanale”; significativa è la scelta del nome, traduzione della testata socialdemocratica tedesca “Vorwärts”. Nel suo primo numero veniva affermato che «la borghesia ha ormai compiuto il suo ufficio secolare: essa abbatté energicamente le tirannidi politiche, interne ed esterne, e i pregiudizi religiosi, concentrò i capitali e le forze di lavoro, inaugurò lo sfruttamento colossale della natura e riuscì a sottometterla all’uomo; ma nel tempo stesso preparò gli strumenti della propria rovina». Questa breve citazione è sufficiente per affermare che Costa è ormai approdato nel campo del marxismo.

Pochi mesi dopo a Rimini si riunisce un congresso clandestino a cui partecipano circa quaranta delegati, rappresentanti di circoli o sezioni romagnole e marchigiane: nasceva così il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, prima tappa per la costituzione del Partito socialista rivoluzionario italiano. Al nuovo partito, distaccatosi definitivamente dall’anarchismo, va il merito di avere introdotto nel movimento socialista italiano il concetto della necessità della dittatura di classe allo scopo di «trionfare della resistenza dei nemici e d’instaurare il nuovo ordine sociale».

Da parte anarchica partì una feroce campagna polemica contro i “traditori”, ma ciò non impedì al PSR di raccogliere immediate adesioni di organizzazioni operaie di tutt’Italia. Il PSR ebbe anche una penetrazione nelle campagne; fino ad allora in Italia il proletariato rurale non era mai stato organizzato e chiamato alla lotta in unione con gli operai.

Nel 1882 il parlamento italiano approvò un pseudo riforma elettorale che concedeva il diritto di voto a chi possedesse una licenza di scuola elementare o l’attestato notarile di saper leggere e scrivere. Oltre al fatto che dal voto erano escluse le donne, la nuova legge non interessava che il 6,9% della popolazione. Zanardelli, il presentatore della legge, giustificò questo così limitato allargamento del diritto di voto «per non mettere in cimento le sorti stesse della libertà». I governanti italiani sapevano bene che la maggioranza della popolazione era ostile allo Stato monarchico, che il proletariato esprimeva una ferma volontà rivoluzionaria e che il suffragio universale avrebbe permesso ai partiti rivoluzionari di portare in parlamento delle forti rappresentanze.

Così una parte della classe operaia otteneva il diritto di voto. Il PSR affermò immediatamente che avrebbe presentato candidature di protesta per sfruttare le occasioni di propaganda offerte dai comizi elettorali e spiegare che l’utilizzo della campagna elettorale non significava l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per l’adesione a quella legalitaria.

Anche a Milano il Circolo Operaio, che raccoglieva la parte più colta ed evoluta del proletariato cittadino, aveva creato una sezione elettorale. Questa lanciò un manifesto in cui faceva appello ai lavoratori salariati perché costituissero un Partito Operaio che, indipendente da tutti gli altri partiti, sostenesse gli interessi di classe e partecipasse alla lotta elettorale. Furono così due i partiti, dichiaratamente di classe, che parteciparono alla campagna elettorale del 1882.

I programmi elettorali da essi presentati non si differenziavano molto da quelli della democrazia radicale. Questo non meravigli perché, con la nuova legge elettorale, ai radicali si apriva la possibilità di attingere voti all’interno delle schiere proletarie e quindi, demagogicamente, il loro programma si radicalizzava, nei toni. Unico elemento che distingueva i partiti di classe dal radicalismo democratico era la rivendicazione della libertà di sciopero e l’uso dello sciopero come arma per la difesa dei diritti operai. Questa rivendicazione rappresentava la coscienza del proletariato di perseguire direttamente, come classe e con i propri sistemi di lotta, le sue specifiche rivendicazioni senza attendersi concessioni paternalistiche dall’alto.

Mentre al Nord il Partito Operaio ebbe risultati insignificanti, tanto che dopo le elezioni si disgregò, nel P.S.R. i risultati elettorali rappresentarono delle grandi affermazioni per Andrea Costa ad Imola e a Ravenna divenendo così il primo deputato socialista italiano. Altri candidati socialisti, pur non eletti, ottennero notevoli affermazioni; tra questi ricordiamo Amilcare Cipriani la cui elezione venne annullata in quanto stava scontando una pena di 25 anni di lavori forzati.

Andrea Costa era stato eletto, ma ora c’era da risolvere la questione dello statutario giuramento al re. In una conferenza del partito fu stabilito che Costa avrebbe dovuto giurare «subendo, come l’aggredito la volontà dell’aggressore [...] protestare e rimanere per provocare là dentro – fortezza del privilegio – affermazioni di principi finora mai avvenute e servirsi della posizione di inviolabile e di libero transito per tutta Italia, ad esclusivo interesse del partito nostro e della causa popolare». Andrea Costa pronunciava, senza alcun commento la risposta di rito: “giuro”, il giorno stesso inviava ai giornali una lettera in cui ne spiegava le ragioni. Per contro la polizia fece sequestrare tutti i giornali che l’avevano pubblicata.

La repressione poliziesca scatenata dai governi borghesi di sinistra contro i partiti proletari e le loro organizzazioni fu di una violenza come mai fino ad allora: giornali regolarmente sequestrati, comizi sciolti di autorità e con l’uso delle armi; i socialisti arrestati subivano lunghissimi periodi di carcerazione preventiva in attesa di giudizio.

Il 5 agosto 1883 si sarebbe dovuto tenere a Ravenna il II congresso del P.S.R. al quale, per evitare l’intervento della polizia, fu dato carattere di riunione privata. Quando stavano per iniziare i lavori, la porta venne abbattuta e una intera compagnia di granatieri fece irruzione con le baionette in canna per disperdere l’assemblea. Questo l’ambiente in cui i socialisti rivoluzionari erano costretti ad agire.

Nel gennaio del 1884, quando a Parma vennero indette elezioni suppletive, il P.S.R. presentò come proprio candidato il medico condotto Luigi Musini che nel corso delle agitazioni bracciantili si era schierato apertamente dalla parte degli scioperanti. Dagli atti parlamentari risulta come i due deputati socialisti svolgessero una vera opera di parlamentarismo rivoluzionario. Nel tempio della conservazione i due deputati socialisti propugnavano a chiare lettere la tesi della inevitabilità della rivoluzione, con dichiarazioni di sfida o di principio rivolte non certo alle mummie sedute ai banchi della maggioranza (e dell’opposizione), ma ai proletari di tutta Italia, con il Parlamento usato come cassa di risonanza per la propaganda di partito.

Ma gli interventi parlamentari di Andrea Costa furono veramente pochi, soprattutto nei primi anni della sua carriera parlamentare, non perché fosse un parlamentare assenteista, ma perché si serviva delle prerogative di deputato, quali la circolazione ferroviaria gratuita e libertà di movimento, per un capillare lavoro di diffusione dei princìpi socialisti in luoghi che non potevano essere toccati dalla normale propaganda del partito: senza posa si spostava da un punto all’altro d’Italia tenendo conferenze, comizi, dibattiti, tanto nelle città che nei minuscoli centri rurali.

Malgrado le persecuzioni subite il P.S.R. procedeva nel suo sviluppo; dal 1884 aveva superato i limiti della Romagna ed aveva sezioni in varie parti d’Italia, quindi il nome non rispondeva più né alle aspettative né alla realtà. La questione del cambio del nome venne quindi posta al III congresso del partito che si tenne a Forlì il 20 luglio 1884 dove, per acclamazione, fu stabilito che la nuova denominazione fosse Partito Socialista Rivoluzionario Italiano.

Intanto a Milano, all’inizio del 1885, rinasceva il Partito Operaio Italiano e, nell’aprile/maggio, teneva il suo primo congresso. Sulla costituzione di questo nuovo partito Andrea Costa aveva subito espresso un entusiastico giudizio definendolo un «fatto storico inevitabile importantissimo [...] Dove sorge il Partito Operaio? Sorge in Lombardia, a Milano, dove l’industria moderna è penetrata più che altrove, dove il livello politico e morale della classe operaia è certamente più elevato che in altre regioni». Il P.S.R. non mancò di inviare il suo saluto al congresso esprimendo l’augurio che «in un prossimo avvenire il partito operaio ed il partito socialista rivoluzionario italiano facciano una cosa sola, uno solo essendo l’oggetto pel quale combattiamo: l’emancipazione del lavoro».

(Fine del resoconto al prossimo numero)

 
 
 
 
 

PAGINA 3

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

 


In Sud Africa si afferma una robusta e moderna classe operaia che cerca la sua strada contro i tanti falsi amici

Sono passati sedici mesi dal massacro di Marikana, ma le lotte operaie non hanno mai accennato a diminuire; al contrario si sono estese al di là del settore minerario toccando servizi ed industria.

Si è per altro accentuato lo scontro tra l’Associazione Minatori (Amcu) ed il Sindacato Minatori (Num) affiliato al Sindacato Nazionale Cosatu. La prima è nata a Mpumalanga nel 1998 ed è stata poi formalmente registrata soltanto nel 2001; è frutto di una secessione del sindacato filo governativo e si considera “apolitica e non comunista”, il che si spiega con la connotazione “di sinistra” del governo, dove prevale il partito stalinista. L’Amcu rappresenta ormai oltre il 70% dei dipendenti della grande azienda mineraria Lonmin ed è anche il sindacato di maggioranza nelle miniere della Amplats ed in quelle della Impala Platinum.

L’accusa principale rivoltagli dalla Cosatu è che l’Amcu sarebbe un’invenzione della classe padronale, utile per indebolire i sindacati maggioritari. Il modo migliore per dimostrare che si tratta di calunnie rimane la parola d’ordine della difesa ad oltranza dei soli interessi dei lavoratori ed il loro affasciamento in lotte che li uniscano invece di dividerli. Di fatto in Sudafrica la veloce espansione del nuovo sindacato, svincolato dalle politiche statali, ha portato a scontri durissimi, specialmente in questi mesi nei quali si sta prepotentemente facendo strada nell’industria dell’auto, dove il potere della Cosatu era sinora incontrastato. Anche le accuse di occuparsi del solo bene immediato dei lavoratori a sfavore delle politiche di “ampio respiro” ci riportano facilmente alle false parole dei nostri Confederali.

Questa situazione va avanti sin dal 2012, via via incancrenendosi sino ad arrivare agli scontri di maggio di quest’anno, quando migliaia di minatori hanno incrociato le braccia rifiutandosi di scendere nei pozzi della britannica Lonmin, terzo produttore mondiale di platino. Al grido «abbasso il Num» e armati di bastoni hanno marciato verso la collina nei pressi di Marikana, prima di riunirsi nello stadio vicino in attesa dei rappresentanti sindacali.

Come si ricorda Marikana fu teatro lo scorso anno di scioperi selvaggi, sfociati nel più brutale scontro con la polizia dalla fine dell’apartheid. Almeno 34 furono i morti in quello noto come massacro di Marikana. A scatenare la rabbia è stato questa volta l’uccisione di un sindacalista della Amcu che avrebbe dovuto essere ascoltato come testimone dalla commissione governativa d’inchiesta sulle violenze di Marikana.

In aggiunta ai lavoratori uccisi l’anno scorso, altri dieci sono stati assassinati a sangue freddo quest’anno, tra cui diversi delegati sindacali appartenenti al Num. L’ultima è stata del rappresentante della sezione sindacale femminile del Num, Nobongile Norah Madolo, ucciso vicino al pozzo Roland della Lonmin. Dal mese di agosto dello scorso anno si è registrato un aumento di omicidi a Marikana e in tutta Rustenburg. I lavoratori sono assassinati per la loro associazione ad un dato sindacato. E proprio contro i sostenitori del Num si sono scagliate nei giorni scorsi le accuse dei vertici dell’Amcu per l’omicidio del suo rappresentante sindacale.

Lo sciopero e il taglio di 6.000 posti di la­voro annunciato dall’Anglo American Platinum evidenziano gli errori della politica dell’Anc, già al centro di pesanti critiche per la gestione della crisi lo scorso anno.

Sospinti dall’azione dei lavoratori, anche i sindacati di regime sono spesso costretti a firmare accordi migliorativi sui salari e sulle condizioni di lavoro, a partire proprio dal settore minerario, dove le condizioni di vita permangono ben al di sotto di una dignitosa sopravvivenza. Le condizioni di vita dei minatori, già particolarmente difficili, negli ultimi ventiquattro mesi, a causa della crisi mondiale, si sono fortemente degradate: retribuiti con paghe miserabili (circa 400 euro al mese), alloggiati in baracche, chiusi anche per nove ore nel fondo di una miniera surriscaldata e soffocante, stanno ora subendo licenziamenti e disoccupazione.

Per questo quando le lotte risultano vincenti creano per tutta la classe lavoratrice ulteriore determinazione a proseguire sulla strada intrapresa. È questo il caso della Aim-e JSE, proprietaria delle miniere di oro e platino di Barberton, dove il salario medio, dopo dure lotte, è stato aumentato mediamente dell’8%.

Ma anche dello sciopero che coinvolge i lavoratori della Allied Workers Union a South African Breweries, una delle più grandi fabbriche di birra del Sudafrica, dove si chiede un aumento del salario del 9%; qui la lotta prosegue dall’inizio di ottobre nonostante le minacce padronali di disdettare il contratto e di non pagare premi di produttività ed incentivi. L’adesione, partita col 75%, ha raggiunto presto il 100%.

Addirittura nelle forze armate, 225 soldati di stanza a Zeerust nel Nord Ovest e a Thohoyandou sono stati messi sotto processo per una marcia di protesta non autorizzata per chiedere aumenti salariali.

Un segnale evidente dello stato di crisi in cui versa anche il ricco Sudafrica. Infatti, nonostante l’investimento di centinaia di miliardi di euro per sostenere l’economia, la crescita rimane minima e la disoccupazione è di massa. Il paese ha basato una parte eccessiva della sua ricchezza sull’esportazione di minerali, platino, cromo, oro e diamanti, tuttavia questo settore, che rappresenta quasi il 10% del Pil nazionale, il 15% delle esportazioni e più di 800.000 posti di lavoro, ha subito una grave recessione nel 2012 continuata poi in tutto quest’anno.

Prosegue poi dal 27 settembre lo sciopero alla Anglo American Platinum, che rappresenta da sola il 40% della produzione mondiale del prezioso metallo; la direzione ha detto che sta perdendo 3.100 once al giorno di produzione a causa dell’astensione dal lavoro. L’Amcu contesta la decisione aziendale presa nel mese di agosto, di ridurre da cinque a tre le miniere nel complesso di Rustenburg per contenere i costi, con conseguenti 3.300 tagli di posti di lavoro. Tra i punti della contesa sindacale vi è il ricorso a esternalizzazioni, invece di mantenere il lavoro ai propri dipendenti.

Il Fmi nel rapporto annuale sul paese dice che l’aumento della crescita dei poveri non può essere imputato solo alle deboli condizioni globali ma a scioperi e incertezza politica che frenerebbero gli investimenti: «Il Paese ha bisogno di andare avanti con le riforme strutturali per rilanciare la crescita e creare posti di lavoro». Il Fmi fa riferimento ai quotidiani disordini nelle fabbriche e alla necessità di una riforma del mercato del lavoro e alla “moderazione salariale”.

L’ondata di mobilitazioni iniziata ad agosto 2012 nel settore minerario si è poi allargata a quello agricolo, con manifestazioni, scioperi e duri scontri con la polizia, dapprima nelle aziende che producono uva da tavola destinata al mercato estero poi in quelle della frutta e del vino, settore che registra i più alti fatturati in valuta. I proprietari agricoli hanno respinto le richieste di aumenti salariali, lamentando il calo delle esportazioni nel 2012 e nel 2013 e l’abbassamento dei prezzi di circa il 25%. Stando a quanto riportato da Fairtrade Label South Africa, i lavoratori agricoli sarebbero tra i peggio retribuiti del paese, con peggiori condizioni di vita, relegati in alloggi inadatti, esposti ai pesticidi.

A questo vanno aggiunte le continue intimidazioni ed i tentativi, spesso violenti, di scoraggiare la formazione di sindacati.

Scontri e scioperi sono proseguiti nel 2013 in diverse località, a De Doors, 100 chilometri a est di Cape Town, una delle aree a più alta produzione viticola del Paese, dove sono stati arrestati 44 lavoratori, e soprattutto nella regione del Western Cape dove i dimostranti, molti dei quali stagionali impiegati nella raccolta e nel confezionamento della frutta in aziende agricole di proprietà della minoranza bianca, sono stati attaccati dalle forze di polizia con idranti e pallottole di gomma. I lavoratori chiedevano l’aumento della paga minima giornaliera da 69 a 150 Rand (1 Euro = 11,74 Rand).

Molti stagionali vengono dall’Eastern Cape, dallo Zimbabwe, dal Mozambico e dalla Somalia e sono visti come una minaccia dai lavoratori a tempo indeterminato. I proprietari agricoli, di fronte al rifiuto di questi loro dipendenti di concedersi al minimo salariale attuale, possono rivolgersi ai lavoratori non sudafricani, privi spesso di permesso di lavoro e di passaporto e costretti in alloggi abusivi. Il Presidente provinciale della Cosatu, Tony Ehrenreich, descrive la situazione dei lavoratori agricoli «una bomba a orologeria che potrebbe esplodere da un momento all’altro».

Ma gli scioperi sono per lo più spontanei, mancano di una direzione e non sono organizzati dai sindacati, ai quali è iscritto solo il 6% dei lavoratori agricoli. Per altro i sindacati di regime non vi possono esercitare nessun controllo e limitazione.

La volontà di mobilitarsi espressa dal proletariato sudafricano non potrà essere contenuta ed incanalata nelle rivendicazioni di diritti civili dell’epoca del vecchio Mandela. Il democratico Sudafrica non può più nascondere l’oppressione di classe sotto specie di discriminazione razziale: un Governo nero con una polizia nera si distingue da tempo nella repressione delle masse operaie nere. Caduta anche questo schermo rimane soltanto lo scontro tra capitale e classe operaia. Ci auguriamo – e per questo lavoriamo – che anche in questo non tanto lontano paese ci si avvii presto verso la rinascita di vaste organizzazioni di classe, che operino per la difesa ad oltranza dei soli interessi operai, unico strumento questo e per la difesa immediata della classe e per porre le basi del futuro assalto al potere del capitale.

 

 

 

 


Sciopero duro alla 3M di Orbassano

Nel numero scorso abbiamo riferito dello sciopero, organizzato dal Si Cobas, alla Battaglio di Orbassano, nella cintura di Torino. Sempre nella stessa area industriale, ancora organizzati dal SI Cobas, martedì 17 settembre sono entrati in sciopero i lavoratori della 3M, cooperativa che detiene l’appalto per la distribuzione di merci per conto TNT. Su una forza lavoro di sessanta operai hanno scioperato in quaranta.

Non era la loro prima mobilitazione, altre ve ne sono state nei mesi scorsi contro la pressione padronale sui ritmi di lavoro, per un miglioramento salariale e per il rispetto del contratto nazionale della logistica e trasporti. Questo ultimo sciopero era dovuto al mancato pagamento di dieci giorni di ferie nella busta paga di settembre.

Lo sciopero è stato organizzato senza dar alcun preavviso all’azienda, così da essere il più efficace possibile, e senza un termine preordinato, ossia ad oltranza. Un vero sciopero insomma. Dopo quattro giorni, venerdì 20, si è arrivati ad un accordo, per cui l’azienda si è impegnata a garantire entro il giorno dopo una busta paga di almeno 900 euro complessivi a tutti. I lavoratori volevano il salario pieno ma, ormai provati, hanno infine accettato. Una vittoria parziale quindi.

Va ricordato che i salari medi sono di circa 1.000 euro per dodici ore di lavoro al giorno per gli autisti, mentre i magazzinieri non arrivano a fare sei ore di lavoro, spesso divise tra il mattino e il pomeriggio, per un salario ancora più basso. Nel mese di agosto, visto il calo di lavoro, il salario di quasi tutti non ha superato i 400 euro.

Durante lo sciopero gli operai sono stati determinati e uniti. Il mattino di venerdì, dopo una breve assemblea con il responsabile dei SI Cobas, hanno deciso di passare ad una forma di lotta più determinata, organizzando un picchetto per impedire ai furgoni di uscire. Questo ha irritato alquanto i responsabili della cooperativa, già tesi per il disservizio dei giorni precedenti. Complessivamente lo sciopero ha provocato un ritardo per ben 7.000 spedizioni! Alcuni capetti, seguiti da un manipolo di lacchè e crumiri, hanno provocato con insulti i lavoratori arrivando quasi allo scontro. Sono intervenute le forze dell’ordine che, dopo aver formato un cordone per permettere ai furgoni di uscire, hanno preso le generalità a chi scioperava. A crumiri e provocatori naturalmente non è stato riservato lo stesso trattamento.

Due settimane dopo la fine dello sciopero, il lavoratore delegato del SI Cobas ha riferito che il clima interno all’azienda resta molto teso, tra chi ha scioperato da un lato, i capetti e una decina di crumiri dall’altro. I lavoratori della TNT dell’interporto di Orbassano devono prepararsi a nuove e più dure lotte. La multinazionale ha intenzione di attuare in Italia un progetto di ristrutturazione. Si parla di esuberi sia tra i dipendenti diretti TNT sia tra i facchini delle cooperative.

Il 18 ottobre, in occasione dello sciopero generale proclamato dai sindacati di base, gli operai della 3M hanno di nuovo scioperato mostrando ancora compattezza e disponibilità a mobilitarsi per ragioni che riguardano tutti i lavoratori.

 

 

 

 


Riunione di Sarzana
Sintesi del rapporto sull’attività sindacale

La necessità e l’importanza del lavoro sindacale del partito risiedono nel fatto che, come da tradizione e tesi della sinistra comunista, è in questo ambito che prevediamo il formarsi del principale tramite fra la classe e il partito.

È possibile arrivare a dominare la materia, nella sua complessità e mutevolezza di situazioni, solo con un continuo lavoro ed allenamento fondati su: 1) un solido inquadramento teorico basato sul materialismo marxista; 2) una coerente e robusta tradizione di valutazioni e di intervento pratico del partito sul campo, rintracciabile sulla nostra stampa antica e recente; 3) uno studio delle condizioni presenti della lotta sociale e delle forze in atto.

Lavoro pratico e teorico sono parti complementari e inscindibili dell’attività sindacale comunista, la cui proporzione varia in funzione della combattività della classe lavoratrice.

* * *

In questi ultimi mesi il partito è intervenuto a Bologna il 1° giugno alla manifestazione nazionale del SI Cobas contro i licenziamenti per ritorsione aziendale, a seguito di uno sciopero; alle manifestazioni dei lavoratori della Ideal Standard di Pordenone contro la chiusura dello stabilimento, con una presenza quasi quotidiana al presidio; allo sciopero degli operai delle cooperative di facchinaggio a Orbassano, nella cintura torinese; allo sciopero generale del sindacalismo di base del 18 ottobre. Abbiamo inoltre seguito con attenzione la lotta svoltasi a luglio alla Fincantieri di Marghera e reso conto analiticamente della crescita del movimento proletario organizzato in Egitto.

Abbiamo continuato a seguire l’attività del SI Cobas e, laddove e quando possibile, vi siamo intervenuti.

Da quando questo piccolo sindacato ha iniziato a rafforzarsi i nostri interventi sono stati: nel 2012 ad un’assemblea a Torino il 21 aprile, alla manifestazione il 1° maggio a Pioltello (Milano), alla manifestazione a Piacenza l’8 novembre a sostegno dello sciopero dei facchini del polo logistico dell’Ikea; nel 2013 alla manifestazione del 6 aprile a Piacenza contro il “foglio di via” al dirigente del SI Cobas, il 1° maggio all’assemblea presso la sede milanese del sindacato, a Bologna il 1° giugno, ad agosto, settembre ed ottobre agli scioperi alla Battaglio e alla TNT di Orbassano.

Ogni nostro intervento ha sostenuto gli operai nelle loro lotte coraggiose e il SI Cobas che le ha organizzate, e ha riproposto i cardini fondamentali dell’indirizzo sindacale comunista. In particolare ha sottolineato la necessità di mantenere distinte le strutture organizzative e le funzioni del sindacato da quelle dell’organo politico della classe lavoratrice.

Il SI Cobas ha potuto rafforzarsi in virtù della battaglie condotte, non sempre vincenti e spesso molto dure, con picchetti, licenziamenti, scontri, arresti e denunce. Nel panorama delle organizzazioni economiche dei lavoratori in Italia si distingue per adottare metodi propri del sindacalismo di classe. Di ciò va il merito anche alla disponibilità alla lotta di lavoratori, per lo più immigrati, con un grado di sfruttamento di solito superiore a quello dei proletari italiani, i quali, anche quando vedono peggiorate le loro condizioni, spesso contano ancora su piccole riserve accantonate negli anni della forte crescita economica.

Anche sul SI Cobas grava naturalmente la generale condizione della classe lavoratrice internazionale, col peso della lunga controrivoluzione e con due generazioni proletarie dei cosiddetti paesi occidentali narcotizzate dall’effimero quanto tossico benessere capitalistico.

Sinora l’azione del SI Cobas si è correttamente sviluppata sul terreno sindacale. Dai primi scioperi del 2010 nel milanese, la lotta e l’organizzazione si sono estese nel lodigiano, a Brescia, nell’Emilia, a Piacenza, Parma, Modena, Bologna, fino ad Ancona e Roma, e poi a Torino. Lo sforzo compiuto, con apprezzabile successo, è stato ricercare l’unità dei lavoratori, richiedendo una solidarietà nei picchetti, rompendo con la pratica di lottare solo sul proprio posto di lavoro.

Sulla base di tante lotte in singole aziende, che hanno esteso e rafforzato la maglia organizzativa, quest’anno il SI Cobas ha tentato il salto verso una mobilitazione più estesa, organizzando un primo sciopero generale dei lavoratori della categoria il 22 marzo. Stringendo un’alleanza con un’altra organizzazione sindacale presente nel Veneto, l’ADL Cobas (Associazione per i Diritti dei Lavoratori), lo sciopero si è esteso anche a Verona e Padova. La mobilitazione è riuscita tant’è che è stata ripetuta altre due volte, il 15 aprile e il 12 luglio.

Da agosto a Torino i nostri compagni hanno iniziato a collaborare al lavoro della sede locale del SI Cobas, partecipando alle assemblee e agli scioperi presso la Battaglio e la TNT di Orbassano.

A fine settembre, nel tentativo di estendere l’organizzazione verso il Sud Italia e superare i confini di categoria, il SI Cobas ha organizzato una manifestazione davanti ai cancelli della Fiat di Pomigliano. L’intento era organizzare un picchetto a sostegno dello sciopero proclamato dalla Confederazione Cobas Lavoro Privato. A giugno scorso vi erano stati due tentativi da parte della Fiom, dello Slai Cobas e del Comitato Cassintegrati e Licenziati Fiat di impedire con lo sciopero i sabati lavorativi, a fronte di tanti lavoratori in cassa integrazione. Entrambi erano falliti per la debolezza dei picchetti, facilmente sgombrati dalla polizia, per il prevedibile tradimento della Fiom, che non appena si è paventato il confronto con le forze dell’ordine ha ritirato i suoi militanti, e per la indecisione degli operai della Fiat che, appena i picchetti sono stati sgombrati, sono entrati tutti a lavorare. Ai picchetti gli stessi iscritti Fiom erano tutti o quasi cassaintegrati.

Il 27 settembre il SI Cobas è riuscito a portare a Pomigliano, dal Nord Italia e da Roma, un’ottantina di operai. Ma nemmeno quel picchettaggio e quello sciopero sono riusciti, sia per la nessuna influenza della Confederazione Cobas Lavoro Privato dentro la Fiat di Pomigliano, sia del Comitato Cassintegrati e Licenziati Fiat, organismo questo a carattere politico e non sindacale.

Allo sciopero generale promosso dal sindacalismo di base il 18 ottobre il SI Cobas ha dato la sua adesione, ma si è distinto per organizzare quel giorno, là dove presente, scioperi veri, non di “testimonianza”, sui posti di lavoro. Ha così scioperato a Torino alla TNT di Orbassano; a Bologna ai magazzini Dhl, Tnt, Bartolini, Sda, portando 500 lavoratori davanti alla Granarolo. Nel milanese ha scioperato alla SDA di Carpiano, alla Bartolini di Sedriano, alla Dhl di Carpiano, Liscate e Settala, alla Number One e alla Jet Air Service di Segrate, alla Ortofin di Settala, alla Zingali di Cerro al Lambro. Gli operai in sciopero nel milanese in circa 400 sono confluiti nel capoluogo lombardo nel corteo dei sindacati di base costituendone lo spezzone più numeroso, oltre che quello più combattivo.

 

 

 
 

 

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Alla Fincantieri di Marghera cade la maschera della Fiom

 
Delle vicende in Fincantieri abbiamo riferito dettagliatamente nel numero di maggio-giugno di questo giornale.

Quando, il 23 maggio 2011, l’azienda annunciò 1.500 esuberi e la chiusura degli stabilimenti di Castellammare di Stabia e Sestri Ponente, la Fiom proclamò di voler lottare conducendo una unica trattativa per tutti i siti produttivi. Dal principio invece fece scioperare i lavoratori divisi per stabilimento. Scrivemmo: «Gli operai dei cantieri da chiudere si impegnavano in molte ore di sciopero, ma restavano isolati rispetto ai cantieri più produttivi (Marghera e Monfalcone) dove si facevano scioperi simbolici di poche ore e dove più efficace sarebbe stato lo sciopero per il maggiore danno all’azienda. In questo modo i delegati Fiom facevano bella figura là dove gli operai lottavano di fronte alla minaccia del licenziamento, mentre laddove il cantiere risultava “sicuro” assecondavano l’interesse egoistico e miope dei lavoratori meno coscienti a non perdere salario scioperando».

Al solito la Fiom giustifica questa condotta scaricandone la responsabilità sui lavoratori che – secondo quanto dicono i suoi delegati – nei cantieri più redditizi non sarebbero disposti a scioperare in solidarietà coi loro compagni minacciati dalla chiusura. È il solito trucco di nascondersi dietro i pregiudizi degli operai più arretrati per demoralizzare gli altri. Per altro la responsabilità della grave inconsapevolezza della necessità dell’unione di classe – non certo una novità ma un dato che si trascina ed aggrava da decenni – va imputata innanzitutto alla dirigenza dei sindacati di regime. Cosa fa la Fiom per combattere gli atteggiamenti dei lavoratori più arretrati? Nulla, perché le serve a giustificare la sua inazione ed il suo collaborazionismo.

Ad esempio, nella vicenda Fincantieri, la Fiom nazionale avrebbe dovuto proclamare soprattutto scioperi di tutto il gruppo, lasciando minimo spazio all’autonomia dei suoi delegati nei singoli cantieri. Ha agito invece in modo opposto e in tal modo non ha contrastato ma assecondato la propensione dei lavoratori più arretrati a chiudersi dentro il cantiere.

Una trattativa unitaria è possibile solo sulla base di una lotta unitaria. Il risultato dell’azione lasciata in mano alle Rsu è stata quindi una sequenza di accordi stabilimento per stabilimento: Monfalcone (20 settembre 2011), Muggiano e Riva Trigoso (5 ottobre), Palermo e Ancona (17 gennaio 2012), Sestri Ponente (15 febbraio), Castellammare (1 gennaio 2013) e di nuovo a Sestri Ponente (5 aprile).

Gli ultimi due accordi hanno peggiorato le condizioni di lavoro in modo particolarmente grave:
     - hanno esteso la base di calcolo dell’orario plurisettimanale da 12 mesi – stabilita sia dal Ccnl unitario del 2008 sia da quello separato del 2012 – a 24 mesi. Ciò determina una riduzione salariale venendo computate come orario normale quelle di straordinario;
     - è stata rafforzata la polivalenza delle prestazioni (lo stesso lavoratore svolge più mansioni oltre quella cui era assegnato), con la massima mobilità all’interno delle officine e la riconversione del personale;
     - è stata introdotta la turnazione 6x6 (sei ore al giorno per sei giorni fino al sabato, pagato non più come straordinario) con la mensa a fine turno;
     - è stata introdotta la misurazione individuale della produttività.

Gli accordi, firmati senza un’ora di sciopero, hanno mostrato bene la pasta di cui sono fatte le opposizioni “di sinistra” interne alla Cgil:
     - a Castellammare l’accordo è stato firmato dal delegato Rsu, segretario provinciale e membro del Comitato centrale Fiom, appartenente alla Rete 28 Aprile;
     - a Sestri Ponente dal delegato Fiom appartenente a Lotta Comunista, gruppo politico che si dichiara rivoluzionario e a sinistra della corrente riformista e socialdemocratica dei dirigenti della Rete 28 Aprile, ma che in pratico, nel campo sindacale, si schiera alla sua destra, alleato nella Fiom con la maggioranza di centro del segretario generale Landini.

 
A Marghera

Marghera e Monfalcone sono i cantieri più attivi dell’azienda, in cui – al contrario di Castellammare, Sestri Ponente, Palermo ed Ancona – non vi sono stati vuoti produttivi. Da metà giugno a Marghera sono in lavorazione due navi, la Costa Diadema, con consegna prevista a ottobre 2014, e una nuova commessa per la Viking. Gli operai sono perciò in posizione di maggior forza rispetto a quelli degli altri stabilimenti, ma sono ormai isolati da quelli in cui l’accordo peggiorativo è già passato. Non è un caso che l’azienda, nel procedere a imporre i peggioramenti, abbia lasciato quei due cantieri per ultimi, assecondata dalla firma della Fiom per gli altri.

Così il 6 giugno Fincantieri comunica di voler applicare a Marghera, a partire dal 1° luglio, i contenuti degli accordi di Castellammare e Sestri Ponente, di non pagare il premio di programma (circa 600 euro) e di non riconoscere la nuova Rsu, prendendo a pretesto una diatriba aperta da Fim e Uilm, presumibilmente a questo scopo, sul numero di delegati spettanti a ciascun sindacato.

Infatti nel cantiere di Marghera il 22, 23 e 24 aprile si erano svolte le elezioni per il rinnovo della Rsu. La Fiom aveva conseguito, con l’86,3% di votanti sui 1.000 dipendenti diretti, il 64,9% dei voti (il 77,7% fra gli operai) con un miglioramento del 12% rispetto alle precedenti elezioni. Essendo le Rsu un organismo aziendale non avevano diritto al voto i lavoratori delle ditte in appalto, che sono la maggioranza della forza lavoro del cantiere. I candidati Fiom si erano affermati facendo leva proprio sul loro rifiuto ad accettare a Marghera accordi analoghi a quelli di Castellammare e Sestri Ponente. La Fiom rivendicava cinque delegati nella Rsu – di cui i tre maggiormente votati appartenenti alla Rete 28 Aprile – il che le avrebbe dato la maggioranza assoluta nella Rsu. L’azienda si è appoggiata alla disputa di Fim e Uilm – e Fim e Uilm all’azienda – per non riconoscere la nuova Rsu. Fincantieri ha infine riconosciuto una Rsu con un numero inferiore di delegati Fiom, con una maggioranza Fim e Uilm. Questo aspetto è importante in ragione dell’accordo del 31 maggio scorso fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il quale prevede che un accordo approvato dalla maggioranza Rsu obbliga anche la minoranza a non promuovere azioni di lotta contro i contenuti dell’accordo.

L’11 giugno la Rsu Fiom proclama un primo sciopero di poche ore per tenere un’assemblea interna allo stabilimento cui seguiranno alcune brevi fermate produttive organizzate unitariamente da Fim, Fiom e Uilm per un totale, al 26 giugno, di circa 20 ore di sciopero, due giornate e mezza, in 12 giorni lavorativi e due sabati.

Già in questi brevi scioperi – ed anche sulla base dell’andamento delle elezioni Rsu – azienda e sindacati di regime registrano un clima più caldo fra gli operai e mettono in moto tutto il sofisticato meccanismo volto a soffocare ogni loro reazione: repressione aziendale, pressione delle strutture dei sindacati di categoria (Fim, Fiom, Uilm), finte divisioni fra i tre sindacati, propaganda della stampa borghese.

Il 14 giugno Fincantieri ricatta gli operai dicendosi pronta a spostare le lavorazioni per la Viking a Monfalcone nel caso di altri scioperi. La Fiom nazionale proclama allora due ore di fermata dei lavoratori di tutto il gruppo. Questa parodia di sciopero non serve certo a sostenere gli operai di Marghera con la mobilitazione a loro sostegno gli altri cantieri – cosa che, non essendo stata fatta prima per Palermo, Castellammare, Muggiano, Riva Trigoso, Sestri Ponente ed Ancona, non si vede come potrebbe ottenere ora – ma a nascondere la sua azione di isolamento della lotta a Marghera.

Infatti a queste due misere ore di sciopero nazionale non ne seguono altre. Basterebbe questo dato, a fronte dell’incrudirsi della lotta nelle settimane seguenti, a dimostrare il reale significato dell’azione della Fiom. Ma questo sindacato di regime, degno compare di Fim e Uilm, fa di più:
     - il 25 giugno sigla ad Ancona un accordo fotocopia di quelli di Castellammare e Sestri Ponente, aumentando così l’isolamento di Marghera;
     - il 10 luglio, a Roma, sottoscrive con Fim, Uilm, Uglm e Failms, un accordo nazionale che proroga la cassa integrazione straordinaria per 12 mesi, stabilendo per ciascun cantiere il numero di lavoratori in cassa.

Così, mentre a parole la Fiom sostiene gli operai di Marghera in lotta, nei fatti lavora per isolare loro e gli stessi delegati Fiom e sottoscrive la cassa integrazione per 325 lavoratori e 115 esuberi, a fronte di due navi in costruzione e della maggior produttività richiesta.

Il 14 luglio – quattro giorni dopo l’accordo nazionale con Fim, Uilm e Fiom – l’azienda passa alle vie di fatto: fa entrare nel cantiere agenti della digos per “assistere” al trasporto di alcune lamiere a ditte esterne. Questa azione non intimidisce i lavoratori che scendono in sciopero e per due giorni, picchettando lo stabilimento, impediscono l’uscita dei camion.

I delegati Fiom partecipano attivamente ai picchetti ma il 17 luglio, al Comitato Centrale Fiom, il segretario generale Landini e l’ex segretario provinciale di Genova, di Lotta Comunista, attaccano la lotta di Marghera presentandola come una azione voluta dalla Rete 28 Aprile per strumentalizzare gli operai ai fini della sua battaglia di minoranza interna alla Cgil e alla Fiom.

Il 19 luglio scende in campo contro i lavoratori il “Corriere della Sera”, quotidiano per eccellenza della borghesia italiana, reclamizzando l’iniziativa di Fincantieri di far sottoscrivere a 132 fra dirigenti, capisquadra, tecnici e impiegati, una lettera in cui si attaccano gli operai e la Rsu descrivendo «uno stabilimento ripiombato all’improvviso nelle tensioni degli anni settanta quando l’essere in disaccordo con la classe operaia e il comportarsi da crumiri poteva essere punito anche con azioni violente».

Il 25 luglio si scioglie l’unità della Rsu. Fim e Uilm firmano un accordo che accoglie le richieste aziendali, i delegati Fiom non lo firmano.

Lunedì 29 luglio l’azienda mette in cassa integrazione 31 lavoratori. Questo scatena la accesa reazione degli operai che scendono finalmente in sciopero compatto e a oltranza per tre giorni, abbandonando le deboli azioni articolate di poche ore organizzate da Fim e Uilm ma anche dalla Fiom. La lotta degli operai travalica le intenzioni degli stessi delegati Fiom, che però vi partecipano. Martedì 30 luglio un corteo di 400 operai marcia fino al centro di Mestre.

Invece di dar forza agli operai finalmente mobilitatisi e disposti alla lotta, la Cgil conferma il suo ruolo di sindacato di regime e accorre in soccorso dell’azienda proponendo il 1° agosto una tregua di 48 ore. Questo è quanto appare dall’esterno, mentre dietro le quinte si può ben immaginare l’intenso lavorio teso a spezzare lo sciopero.

Alla fine il 2 agosto, ultimo giorno lavorativo prima della chiusura estiva del cantiere, si giunge all’accordo con la firma dei delegati e della struttura provinciale Fiom. La pausa estiva avrebbe potuto essere utilizzata per preparare la ripresa con più vigore della lotta alla riapertura del cantiere. Probabilmente i delegati Fiom temevano il trasferimento all’esterno delle lavorazioni per la nuova commessa, possibile visti i precedenti tentativi. Tuttavia restava in cantiere la Costa Diadema, quindi un’arma potente in mano ai lavoratori, se si fosse stati disposti e determinati ad utilizzarla, cioè a interromperne la costruzione.

Ma qui subentrano i limiti dei delegati Fiom che, anche quando combattivi, non possono non subire le conseguenze dell’appartenenza a questo sindacato di regime, siano essi persuasi dei suoi principi anti-classisti, ovvero costretti con intimidazioni organizzative tendenti ad isolarli. La Rsu Fiom di Marghera, infatti, non si è distinta da quelle degli altri cantieri sui principi messi a base della sua azione: ha rigettato il peggioramento delle condizioni di lavoro non in quanto tale, ma perché non concordato con la Rsu e perché «non risponde a specifiche esigenze produttive del cantiere» (Comunicato Fiom provinciale e Rsu Fiom del 10 giugno). Una posizione debole perché non è il riconoscimento del diritto alla trattativa della Rsu a garantire la difesa dei lavoratori, ma la loro forza, che si misura nella capacità di scioperare a lungo, unitamente ed estesamente.

Ma che la Rsu Fiom così argomenti la sua opposizione alle pretese aziendali vuol dire che se si dimostrassero «rispondenti alle esigenze produttive del cantiere» sarebbe pronta ad accettarle. Ciò significa abbracciare l’idea che il bene dei lavoratori coincide con quello dell’azienda, cioè del Capitale. Cioè legare gli operai al carro dei loro sfruttatori, avallare la concorrenza fra lavoratori che divide la loro classe e garantisce il suo assoggettamento. Significa inculcare nei lavoratori idee e principi che li conducono alla rassegnazione ed alla sconfitta.

Ma all’unità dei lavoratori non basta il perimetro della fabbrica, al contrario vi trova il suo più grave ostacolo! La forza operaia si moltiplica solo se trova la solidarietà fattiva dei lavoratori delle altre aziende, non a parole ma con lo sciopero e la partecipazione ai picchetti. Il “ruolo negoziale della Rsu” è una duplice truffa: perché è un guanto vuoto senza gli operai che lo riempiono col pugno della loro forza, e perché la Rsu, organismo aziendale, chiude i lavoratori entro quei limiti che garantiscono la loro debolezza. La Rsu Fiom della Fincantieri di Marghera ha ottenuto, come vedremo, un risultato migliore rispetto alle Rsu Fiom di Castellammare e Sestri Ponente proprio sulla base della forza degli operai, che si è dispiegata a prescindere dal riconoscimento della Rsu da parte dell’azienda!

La Rsu Fiom di Marghera persegue la “unità sindacale” con Fim e Uilm, esattamente come la Fiom nazionale. Parte dei suoi cedimenti sono giustificati per addivenire a documenti ed azioni unitarie con Fim e Uilm. Queste “trattative”, dalle quali i lavoratori niente hanno da attendersi, costituiscono un altro imbroglio, una divisione del lavoro all’interno del sindacalismo di regime, con la Fiom che si atteggia a “meno peggio” per inseguire e riportare all’ordine le spontanee mobilitazioni operaie, come nel caso dello sciopero a oltranza di tre giorni a cavallo fra luglio e agosto.

L’azione sindacale classista persegue l’unità del movimento e denuncia la pratica degli scioperi separati fra diverse organizzazioni in concorrenza, che dividono e indeboliscono la lotta. È una prassi adottata invece – con grave danno – anche dalla maggior parte dei sindacati di base. In senso diametralmente opposto a quello della unità nella lotta va la prassi della unità sindacale fra Fim, Uilm e Fiom.

Un comunicato unitario della Rsu della Fincantieri di Marghera del 15 luglio recitava: «La Rsu e il sindacato, per superare le difficoltà del cantiere di Marghera, hanno dato ampia disponibilità ad affrontare tutti i problemi produttivi e di programmazione del lavoro per consentire lo sviluppo delle commesse e la consegna dei prodotti secondo le date e i tempi stabiliti nei piani». Come dovrebbe conciliarsi questa affermazione con lo sciopero contro il piano aziendale!? Ancora: «Per utilizzare maggiormente gli impianti ed accelerare le operazioni di taglio delle lamiere delle nuove navi, i lavoratori sono disponibili ad introdurre il 3° turno notturno alle macchine con un miglioramento della prestazione settimanale fino a 12 ore per addetto, a concordare di fronte ad esigenze verificabili, l’orario plurisettimanale e i relativi recuperi, a rafforzare la turnistica in atto, a concordare le eventuali prestazioni straordinarie». Cioè la Rsu, unitariamente, è disponibile a permettere sacrifici per i lavoratori se questi sono utili a migliorare la competitività del cantiere, cioè a renderlo più efficiente rispetto agli altri stabilimenti navalmeccanici, naturalmente a discapito dei loro operai!

Su queste basi sindacali non classiste ma collaborazioniste, cui si aggiunge il lavoro della Fiom e della Cgil teso a isolare e indebolire i suoi delegati più combattivi, è scaturito un accordo un poco migliore di quello firmato il 25 luglio dalle sole Fim e Uilm, nonché di quelli di Castellammare e Sestri Ponente, ma che segna comunque un ulteriore arretramento delle condizioni di lavoro degli operai e che non corrisponde alle forze messe in campo nella lotta. Non a caso, al referendum sull’accordo svoltosi il 29 agosto, in cui non hanno votato circa 250 lavoratori perché in ferie, 202 hanno dato parere negativo e 228 positivo.

I delegati Fiom, che si erano affermati alle elezioni Rsu col rifiuto intransigente dei contenuti del nuovo accordo e che su questa base avevano costruito un rapporto di fiducia con gli operai più combattivi, hanno così indebolito sia questo rapporto sia soprattutto la combattività degli operai.

Questo risultato è più importante dei risultati parziali ottenuti, che non vanno negati, perché è foriero di conseguenze. Come sempre in ogni lotta ciò che più conta non è il risultato contingente sul piano normativo e salariale, positivo o negativo, bensì il maggior grado di forza, unità e fiducia dei lavoratori che ne scaturisce.

Rispetto a quello inizialmente siglato da Fim e Uilm il 25 luglio l’accordo del 2 agosto limita il 6x6 e l’orario plurisettimanale ad alcuni reparti e non a tutto il cantiere, pone come base di calcolo 12 mesi e non 24, il che limita la riduzione salariale, elimina il controllo individuale della produttività. Inoltre sono state ritirate le lettere di cassa integrazione. È stata invece confermata la perdita del premio di programma.

Anche questo ultimo episodio della vicenda Fincantieri conferma, come l’intero corso precedente, la necessità che i lavoratori, intanto i più combattivi, si organizzino fuori e contro la Fiom, e la Cgil tutta, che rappresentano il maggior ostacolo alla unificazione dei salariati al di sopra dei confini di cantiere e di azienda.

Gli operai, alla Fincantieri di Marghera, come ovunque, quando intraprendono una battaglia devono innanzitutto cercare il contatto con gli altri lavoratori, nelle aziende limitrofe, negli appalti dentro il cantiere, negli altri stabilimenti della stessa azienda, per stabilire organismi di battaglia comuni e permanenti e organizzare insieme la lotta: tornare alla partecipazione reciproca nei picchetti davanti le aziende e fino a scioperi comuni. Finché questa strada non sarà intrapresa non potremo parlare di un ricostituito sindacato di classe.

 

 

 


Bangladesh-Qatar
La internazionale classe operaia in lotta contro il Capitale

Cala il silenzio della propaganda borghese sulle lotte e le proteste operie.

In Bangladesh 200.000 operai del settore tessile sono in uno sciopero che ha fermato centinaia di fabbriche di abbigliamento. Centro delle lotte la capitale Dacca, passata alle cronache ad aprile scorso per l’eccidio di oltre 1.000 proletari sotto le macerie della fatiscente fabbrica in cui erano costretti a lavorare. La polizia, braccio armato della borghesia, non risparmia gas lacrimogeni e proiettili di gomma, per ora, contro i proletari in sciopero, per la maggioranza donne, che rivendicano un misero salario di 100 dollari al mese contro l’elemosina dei 38 attuali. Gli oltre 2 milioni di operai del tessile sono i meno pagati al mondo, sfruttati anche per 80 ore alla settimana e 16 al giorno!

Si cambia regione ma non cambiano i rapporti sociali. In Qatar il 90% della forza lavoro è composta da immigrati e di questi il 40% sono nepalesi. Per costruire tutto il baraccone per i Mondiali, stadi, strade, ferrovie, alberghi ecc. che ospiteranno quel circo mediatico, utile a rincoglionire i proletari di tutte le latitudini, arriveranno 1,5 milioni di immigrati, ai quali il capitale riserverà un infernale sfruttamento in cambio di minime briciole degli oltre 100 miliardi di dollari che il Qatar spenderà per l’ “evento”.

A Doha la scorsa estate, quando la temperatura si avvicina ai 50 gradi, nei cantieri sono morti almeno 44 edili nepalesi, 1 al giorno, per attacchi di cuore. Scrive il “Guardian”: «Molti operai nepalesi non sono pagati per mesi; confiscano loro il passaporto, riducendoli nella condizione di clandestini». Dopo che in una trentina si sono rifugiati nell’ambasciata del loro paese, l’ambasciatore, dal suo comodo ufficio climatizzato, ha dovuto descrivere l’emirato come un “carcere all’aperto”!

Paesi lontani fra di loro ma pur sempre due storie comuni che vedono gli schieramenti contrapposti: da una parte il capitale che sfrutta, schiavizza e massacra con ogni mezzo il proletariato, dall’altra questo costretto a subire soprusi di ogni genere e a versare quotidianamente il proprio sangue in nome dello sporco profitto di questo lurido sistema sociale, anche quando “democratico”, che è il capitalismo!

In ogni parte del mondo il proletariato dispone di un’arma affilata, la lotta di classe contro il suo storico nemico, il capitalismo, lotta che lo condurrà fino all’abbattimento di questa società putrefatta. Ancora una volta il Manifesto di Marx ed Engels è più attuale che mai: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”

 

 

 

 

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Le Tesi e Valutazioni classiche del Partito di fronte alle Guerre imperialiste del 1989
Contro la pace e contro la guerra così come contro il benessere e contro la crisi del capitale

Nel 1989, risultato di un intenso ed appassionato lavoro cui collaborarono numerosi compagni di tutta la nostra rete, addivenimmo alla unificazione in un corpo di tesi delle “Valutazioni classiche del partito di fronte alle guerre imperialiste”. Pubblicate allora sui nostri organi di stampa sono ora reperibili integralmente in opuscolo e sul nostro sito internet. Scopo di quel lavoro era raccogliere ed ordinare un materiale, già completo e coerente, ma con delicate, aspre e tuttavia fondamentali implicazioni e che si presentava sparso in testi ed articoli del nostro secolare movimento, da Marx fino alla attuale, ormai cinquantennale, compagine di partito.

I gravi avvenimenti in corso, segnati dal precipitare della recessione e dall’infrangersi di ogni pudore pacifista anche nel parlare dei rappresentanti del Capitale, vengono a confermare le previsioni di queste nostre impietose tesi.

La classe operaia oggi, incalzata dal nemico borghese su tutti i lati, dal posto di lavoro in su, resta attonita di fronte al terrorismo degli Stati che rintrona arrogante e sfacciato, con accenti anche volutamente spropositati. Priva del suo partito e della possibilità di comprensione di eventi sì grandi e complessi, si smarrisce e potrebbe finir schiacciata ancora una volta, volente o no, nelle mai smobilitate macchine militari del Capitale. La guerra globale che l’alleanza internazionale della classe borghese prepara è un episodio dell’incessante scontro fra le classi, è la sua guerra globale contro la classe operaia.

Contro questa guerra sociale, nella quale il proletariato sarà costretto a battersi, non contano esortazioni né esecrazione, ma solo la forza, conta la mobilitazione e la sua riorganizzazione in vasti apparati sindacali difensivi opposti alle confederazioni serve del regime. Elemento determinante della forza storica di una classe è il suo grado di conoscenza della realtà in cui si trova a combattere. Questa è la funzione del partito politico al cui rafforzamento e nuovo radicamento fra i lavoratori del mondo va il nostro impegno. E questa è la funzione specifica delle tesi.

Tutte le previsioni del marxismo autentico sono state dalla storia confermate.

* * *

Il primo punto delle tesi distingue i tipi storici di guerre. Il nostro materialismo storico scarta la condanna di ogni guerra di pacifisti e anarchici, astratta ed insufficiente. Il nostro essere oggi contro le guerre imperialiste è motivato storicamente. Si ricorre alla classica distinzione in periodi del ciclo capitalistico: quello in Europa fino alla Comune di Parigi del 1871 è segnato dalle guerre nazionali di liberazione tendenti ad abbattere il giogo feudale, assolutista o straniero, guerre che i comunisti appoggiavano ed anche combattevano. Dal 1871 invece tutti i governi sono confederati contro il proletariato. La Prima Guerra mondiale vede una borghesia non più riformista ma pienamente precipitata nella fase imperialista del capitalismo, ciclo che ancora viviamo. Le guerre non sono più tra Nazioni ma solo tra Stati, non per spazzar via assetti storici reazionari ma per mantenere il capitalismo e la sottomissione del proletariato: spartirsi l’impiego degli schiavi salariati e ucciderne a milioni quando ribelli o in soprannumero.

Le tesi denunciano come i partiti traditori del socialismo e del comunismo abbiano avallato il camuffamento sia della Prima sia della Seconda guerra, che entrambe erano imperialiste e contro-rivoluzionarie, in guerre di liberazione nazionale e, la Seconda, che su di un fronte allineava lo stalinizzato Stato russo, addirittura di progresso verso le conquiste del socialismo.

Il punto secondo afferma la tesi centrale della inevitabilità, economica e materiale, della guerra imperialista. Il meccanismo della produzione, della grande industria, del commercio, della finanza opera secondo inesorabili leggi che abbisognano della guerra e che alla guerra conducono. La guerra, quindi, non è una politica di un certo strato o di un certo partito borghese, è invece una necessità storica generale del modo di produzione capitalistico.

Questo ignorano i movimenti del pacifismo interclassista, che si illudono e illudono di poter evitare la guerra pur mantenendo il capitalismo. Il pacifismo a-rivoluzionario, per conseguenza logica e determinazione di classe, nel momento cruciale sarà facilmente spinto ad impugnare le armi per “difendere la pace”.

Nell’ambito del modo di produzione capitalistico e con gli strumenti offerti dal sistema politico che su di esso poggia, la guerra imperialista non può essere evitata: solo una contro-forza sociale che si opponga a tale sistema, quella della classe proletaria guidata dal suo partito, può costituire l’unica possibilità di impedimento. Solo se verrà rasa al suolo la struttura mondiale del potere capitalistico potranno essere risparmiati all’umanità i suoi orrori, primo fra tutti la guerra: in un mondo socialista, in una società non mercantile, non capitalista, non statale, primo vero inizio della storia umana, essa non avrà più ragione di essere.

Il terzo punto afferma come la guerra generale sia storicamente evitabile alla sola condizione che le si opponga un movimento della pura classe salariata e che questo non si limiti alla richiesta della pace, ma di abbattere con essa guerra il capitalismo. La formula di Lenin fu: trasformare la guerra imperialista in guerra civile. Lenin sferzò la pretesa di poter fermare la guerra con uno sciopero, seppure generale e ad oltranza: ben altro ci vuole, a partire da una radicata organizzazione nel proletariato e nell’esercito, emanante dal partito di classe esteso ed influente, basato su salde posizioni teoriche, programmatiche, tattiche, unico organismo che possa dirigere la presa proletaria del potere col fine di abbattere la società del capitale.

Il punto quarto prevede, basandosi sul tragico precedente storico delle due guerre mondiali, che tutti i partiti del riformismo, nei casi di crisi acuta della società capitalistica, si schiereranno immancabilmente e apertamente dalla parte dei macellai borghesi, rivelando ogni volta senza pudori né pentimenti il loro ruolo storico di infiltrati nel movimento proletario a scopo di conservazione. Il riformismo fin dal 1914, vinto sul piano dei suoi presupposti programmatici e teorici, vinse però nella pratica sociale perché i proletari furono divisi e spinti a scannarsi gli uni contro gli altri dai governi, ben fiancheggiati dai socialisti traditori che da zelanti patrioti si erano presto infilati nelle uniformi militari.

I punti cinque e sei definiscono valutazioni e atteggiamento del partito di fronte ai fenomeni della crisi economica e della soluzione militare del capitalismo. Ad entrambi il marxismo non tende all’utopia di voler sostituire benessere e pace capitalistici, bensì li considera leve che debbono essere impugnate per rovesciare il potere borghese. Il partito rivoluzionario cercherà di approfittare delle crisi economiche come delle crisi belliche per tentare di abbattere il capitalismo; e ciò nelle sue varie fasi: periodo di preparazione, scoppio, sviluppo, immediato dopoguerra.

Il comunismo come è ugualmente contro la pace e contro la guerra borghesi, così è contro il capitalismo tanto nel suo slancio quanto nella crisi economica e non ha da preferire un momento del ciclo sull’altro, che è unico e storicamente inevitabile. Dalla crisi economica, o nella ripresa che la segue, il marxismo si attende, con il peggioramento delle condizioni della classe lavoratrice, che la spinga a reagire organizzandosi sul piano sindacale e sollecitando la sua combattività; da qui le condizioni per un’estensione dell’influenza del partito sulla classe operaia.

Alle origini della guerra imperialista è il perdurare non più tollerabile della crisi economica internazionale, che non permette altra soluzione che le immani distruzioni di merci e di proletari per uscire dal cappio della sovrapproduzione.

La guerra imperialista, azzerando i conti in rosso del capitalismo, e stabilendo un nuovo equilibrio e una nuova partizione dei mercati mondiali, sulle sue rovine permette l’inizio euforico di un nuovo ciclo semisecolare di rapina. La guerra risolve in sé crisi e rinascita del capitalismo.

Dalla Terza Guerra scaturirà la rivoluzione se prima del suo scoppio sarà risorto il movimento di classe. O comincia e si sviluppa la guerra fra gli Stati, o scoppia la guerra civile, la borghesia è rovesciata e la guerra non “scatta”. Ma lo scoppio della guerra deve trovare un proletario in movimento e un partito saldo sulle sue posizioni marxiste: queste sono le condizioni che la storia deve mettere a disposizione del proletariato per poterne approfittare.

La guerra che non abbia innescato all’inizio o nei suoi primi sviluppi l’incendio del­la rivoluzione vittoriosa, potrà più facilmente svilupparsi e andare a termine ridando nuovo vigore al capitalismo.

Il punto sette, che indaga le diverse situazioni nelle quali il partito si possa trovare ad agire, è formulato in chiave descrittiva degli atteggiamenti tattici storicamente assunti dal partito: da quello di Engels, che sperava in un ritardo nella guerra mondiale nel periodo ancora riformista del capitalismo, quando sfidava i borghesi col grido “sparate per primi”, intendendo ovviamente che avremmo risposto al fuoco, alla corrente di Sinistra che alla Prima Guerra opponeva al “vecchio” antimilitarismo uno “nuovo”, di classe e rivoluzionario, fino alla nostra Piattaforma del 1945, alla fine del secondo macello mondiale, che riaffermava la tattica del disfattismo rivoluzionario, seppure ne fosse impedita la messa in atto in quel contesto di ferrea dittatura borghese e stalinista sui proletari.

Nella situazione odierna, la ripresa del movimento in senso rivoluzionario si ravviserà in un’estesa reazione difensiva proletaria, nella rinascita di organismi sindacali classisti e in una sensibile influenza del partito sulla classe e sulle sue organizzazioni economiche, al fine di condurla a far gettito, prima di tutto, delle ideologie e dei programmi basati sull’azione democratica e sull’utilizzo delle istituzioni borghesi.

Ma se nella Terza Guerra non si verificherà la prospettiva più favorevole – anticipata dalla risposta rivoluzionaria o alle sue prime manifestazioni – il partito, rifuggendo ogni volontarismo, si porrà come forza attiva, nei limiti imposti dalle condizioni storiche e dal rapporto di forza delle classi, con la sua critica, la sua propaganda e le sue indicazioni sulla tattica da adottarsi, non mutevole, non “nuova” rispetto a “nuovi” avvenimenti, ma prefissata e nota alla compagine militante del partito.

Il punto otto formula il rigetto degli atteggiamenti “difesisti” ed “intermedisti” che concederebbero una tregua nella lotta di classe o addirittura di sottomissione proletaria alla guerra considerando il mantenimento o il ripristino della non belligeranza fra gli Stati, ovvero la vittoria di un fronte militare sull’altro condizione più favorevole all’avvento del socialismo o stazione intermedia sulla sua strada. Il partito quindi non sospenderà la sua lotta classista rivoluzionaria né su quegli obiettivi verrà ad alleanza alcuna con strati o partiti borghesi.

Il punto nove tratta del disfattismo rivoluzionario. Citando un testo del 1951 si afferma:

     «Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra; esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l’epoca delle guerre potrà finire. Sostituire, dinanzi all’avvicinarsi di nuove guerre al criterio dialettico di Marx e Lenin – tanto nella dottrina che nell’agitazione politica – lo sfruttamento plateale della ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l’opportunismo e il tradimento.
     «Le guerre potranno svolgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli stati maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.
     «La tradizione propria dell’ala rivoluzionaria, che venne a convergere dopo la guerra nella Internazionale bolscevica, si ricollega all’indirizzo di non rinunciare alla lotta contro il potere della borghesia e le forze dello Stato anche quando queste siano impegnate in guerra e provate dalla disfatta, di tendere ad una possibile azione rivoluzionaria interna senza fare alcun conto della possibilità di spostare gli equilibri militari a favore del nemico (...) Lenin lo dice esplicitamente: il nostro compito verrà giustamente espletato solo mediante la “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”».

Il punto decimo, ed ultimo, esprime l’estraneità al marxismo delle posizioni cosiddette indifferentiste, che sostengono il nessun effetto sul corso storico avvenire della vittoria dell’uno schieramento imperialistico o dell’altro. A questa evidente semplificazione opponiamo il concetto di Lenin di “male minore” fra i due esiti della guerra. Non è questo intermedismo, restando escluso per il partito di comunque raffrenare la rivoluzione per favorire il prevalere del “male minore”.

Seguono le Tesi sulla Tattica, dalle precedenti di principio derivate.

* * *

Questa robusta impostazione storica-politica è la cornice nella quale il lavoro del partito va inserendo il suo apprezzamento anche delle guerre locali, grandi e piccoli, che oggi si combattono, ne prevede tempi e sviluppi e ne considera gli aspetti specifici ed originali, dal sottostrutturale odierno frangersi della mondiale onda iperproduttiva nella palude degli asfittici mercati, all’intreccio dei colossali interessi economici, finanziari e commerciali, alla corsa ai riarmi, dai cinici valzer diplomatici, al sangue proletario inutilmente versato, e che sarà vendicato.

 

 

 

 


Dal meccanismo democratico al centralismo organico del partito

Nella fase imperial-fascista del capitalismo risuona sovente il piagnisteo del piccolo borghese per la violazione dei solenni ed eterni principi democratici e lo strapotere degli organi esecutivi sui legislativi.

La stessa denuncia è mossa all’interno dei partiti che si dicono operai e dei sindacati: se ne attribuisce la degenerazione al non utilizzo di quel metodo e principio, e si vede nel suo pratico ripristino la possibilità di un loro recupero ad atteggiamenti di combattività e a posizioni di classe.

Il capitalismo è costretto ad adeguare le sue sovrastrutture per la forza delle cose, in primis per la concentrazione produttiva. Tende a liberarsi della democrazia come com­promesso fra i ceti borghesi, del meccanismo democratico in pratica e dello stesso principio democratico, suo miglior strumento per frenare la lotta di classe.

È questa una grande conferma del marx­is­mo in merito alla stretta relazione che lega le basi strutturali alla sovrastruttura giuridica ed ideologica: senza nessuna no­stal­gia salutiamo questa sconfitta degli as­sunti primi borghesi e nostra vittoria teorica.

Non esiste un metodo di governo e di relazioni sociali slegato da un contenuto; esiste un determinato metodo capitalista adeguato ad un contenuto capitalista, e solo a quello. Ne deriva che nessuna norma statutaria è in grado – per quanto “perfetta” – di regolare, alla lunga, lo svolgersi nel tempo della vita della società, che è il divenire della lotta fra le classi.

Il partito politico di classe, in modo cosciente da quando si impostò sul marxismo, ha condannato come transeunte e borghese il principio democratico. Ma al suo interno ne adottava, fin dalla Prima Internazionale, il metodo. Allora il movimento proletario aveva al suo interno componenti diverse, oltre a quella marxista. Queste correnti politiche, e diverse scuole di pensiero, vi avevano diritto di cittadinanza poiché il corso della lotta di classe non le aveva ancora rigettate all’esterno. Della Prima Internazionale, inizialmente, facevano parte anche anarchici e mazziniani. Nella Seconda Internazionale e nei suoi partiti il riformismo di Bernstein coabitò, dominandovi, col comunismo rivoluzionario. Anche in Russia questo stadio di sviluppo si rifletteva nella mancanza di piena omogeneità politica. In questo arco storico il metodo di funzionamento che il partito adottava, mutuato dalla tradizione rivoluzionaria borghese, fu quello del centralismo democratico. Tale meccanismo, giammai un principio, fu lo strumento, non certo per risolvere questioni di scienza rivoluzionaria, ma per consentire la battaglia comune, nell’attesa che le lezioni della storia indicassero la giusta via e il prevalere della giusta dottrina.

Quale è stata la condizione che ha permesso al partito – prefigurazione della società futura – di liberarsi del meccanismo democratico, diventato angusto rispetto alla sua maturità programmatica? La risposta va ricercata nel corso storico della lotta di classe: la svolta è data dal grandioso ciclo Prima Guerra mondiale - Rivoluzione in Russa. Questo segnò il fallimento del riformismo: da allora, non esiste più un riformismo proletario e il riformismo è solo borghese.

La vittoria bolscevica ne provò la validità e scolpì nella positiva pratica storica l’integrale programma comunista di sinistra, privando di ragion d’essere tutte le altre correnti all’interno del Partito Mondiale. La strada era chiaramente tracciata come dimostrano le dure cristalline tesi che l’Internazionale di Mosca proclamò al mondo.

Tuttavia l’incompleto rigetto del riformismo in molti partiti aderenti e il rinculo della rivoluzione in Europa e in Russia non consentirono ci si mantenesse all’altezza di quelle vette. Il partito internazionale subì una degenerazione progressiva che lo portò nell’arco di un decennio a rinnegare i capisaldi teorici appena proclamati ed a ripresentare, in forma peggiorata, le vecchie debolezze della Seconda Internazionale. I suoi partiti presto degenerarono da proletari a “popolari”, che necessariamente si caratterizzano nella lotta permanente tra interessi di gruppi e logge per la conquista della maggioranza degli organi centrali e la spartizione del malaffare.

Chiusosi lo stretto varco storico che aveva permesso allora al proletariato di tentare l’assalto al cielo, il marxismo ortodosso, rafforzato dalla guerra che gli avevano mosso la borghesia trionfante e lo stalinismo, poté trarre l’ultima, nel tempo, lezione delle controrivoluzioni, necessaria maestra come le precedenti.

La Terza Internazionale – come si legge negli Statuti e nelle Tesi dei primi congressi – aveva codificato il principio della necessaria omogeneità programmatica delle proprie sezioni nazionali, senza la quale il revisionismo avrebbe ripreso terreno dopo il tradimento socialpatriottista del 1914.

Le condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista, i 21 punti approvati nel 2° Congresso del giugno-agosto 1920, e le Tavole scolpite nel lampo di Ottobre, non si spinsero invece alla stessa profondità per quanto riguardava i problemi della tattica, concedendo una certa libertà di manovra ai Partiti comunisti aderenti. Confidando nella spinta rivoluzionaria della classe in Occidente, l’Esecutivo dell’I.C. credette di poter compensare l’affluire nelle proprie file degli opportunisti pentiti dell’ultim’ora con la possente vitalità delle masse insorte.

La Sinistra italiana avvertì immediatamente il pericolo e ammonì che, qualora l’economia capitalista si fosse relativamente stabilizzata, approfittando del nuovo ciclo di accumulazione derivante dalla ricostruzione post-bellica, il riflusso delle lotte operaie sarebbe stato inevitabile. La fortezza comunista sarebbe stata da ogni parte attaccata dalle dilaganti armate controrivoluzionarie e da subdoli traditori; peggio, la sconfitta sarebbe stata devastante, travolgendo lo stesso partito, se questo avesse abbassato un ponte levatoio, aprendo l’Internazionale all’eclettismo tattico.

Le Tesi “di Roma” del 1922; il Progetto di Tesi presentato dalla Sinistra all’Internazionale al 4° Congresso del novembre 1922; le Tesi “di Lione” del 1926 anticipano già una delle lezioni che noi soli traemmo dalla incipiente controrivoluzione: «Non è il partito buono che dà la tattica buona, soltanto, ma è la buona tattica che dà il buon partito, e la buona tattica non può essere che tra quelle capite e scelte da tutti nelle linee fondamentali». A lungo andare gli errori nella tattica non possono che ripercuotersi, successivamente, sul programma, sui fini e sulla dottrina del partito, spingendolo inesorabilmente fra i rinnegati del comunismo!

Nell’immediato secondo dopoguerra il rapporto di forza – dettato da condizioni materiali mondiali sfavorevoli per l’assalto ai Palazzi d’Inverno – costrinse i marxisti di sinistra a lavorare alla difesa del partito, da consegnare alle future generazioni di comunisti. Non si trattava di risvegliare con proclami una classe vinta e tradita, ma di dedicarsi al lavoro di ristabilimento della teoria marxista, ripulita dalle scorie fetenti dello stalinismo.

Tra i vari compiti imposti dalla difficile ora era quello di analizzare il meccanismo di funzionamento del partito stesso, il modo di muoversi dell’organo politico nel perseguire i propri fini. Liberatosi dalla soggezione al metodo congressuale, che la maturità storica riduceva ormai solo a ridicolo scimmiottamento delle forme borghesi, il Partito poté presentarsi per quello che era divenuto, ed era sempre stato, libero dalle laceranti alternative che avevano segnato i partiti della Seconda Internazionale e, sul piano della tattica, anche della Terza.

Proseguendo nell’opera di intessitura delle norme di tattica al programma storico, a chi riteneva che il centralismo organico fosse un’invenzione arbitraria, il partito ricordò le antiche tesi di Marx sulla natura organica del partito, prefigurazione della società comunista: «Il partito, attore e soggetto della rivoluzione violenta e della dittatura, non è un qualsiasi partito; è il partito comunista, legato perciò ad una speciale prospettiva storica da cui deriva il suo programma e la sua azione, espressione di una classe particolare la cui lotta non va nel senso di ristabilire il dominio di una classe su altre classi, ma di distruggere la divisione in classi della società (...) Il partito intanto è “stato maggiore” in quanto è prefigurazione del modo di associarsi naturale e spontaneo che sarà proprio della futura umanità comunista» (1974).

Il centralismo organico non è una preferenza estetica, un valore assoluto dello spirito, un’idea astratta di perfezione; non è una scelta di alcuno, ma la necessaria, materiale, conclusione di un non breve cammino iniziato con il Manifesto del Partito Comunista, un assetto funzionale che il partito, rinato dopo la controrivoluzione, ha di fatto spontaneamente assunto come suo ovvio e naturale e che, oggi possiamo dire, ha dato una esemplare prova di validità sull’arco ininterrotto di sessanta anni e di almeno tre generazioni di militanti.

«Il marxismo non è la dottrina delle rivoluzioni, ma quella delle controrivoluzioni: tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta» (1951).

 

 
 
 
 
 
 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(continua dal numero 361)

 

13. I ladri di Baghdad

Già nell’autunno del 1914 le truppe britanniche erano sbarcate nello Sciatt-el-Arab e risalite verso Bassora con l’ordine di garantire la sicurezza dei campi petroliferi, delle raffinerie e dell’oleodotto. Ben presto le sconfitte subite dalle armate zariste, poi la rivoluzione del 1917 distoglieranno i russi da questa regione dove gli inglesi resteranno per un bel pezzo incontrastati padroni. La rivolta araba guidata da Hussein, con l’appoggio delle truppe britanniche, aveva reso possibile nel 1918 la conquista dei paesi arabi ai danni della Turchia.

Ma il sogno degli hascemiti di creare un vasto Stato arabo indipendente urtava contro gli interessi territoriali anglo-francesi, così come erano stati formalizzati negli accordi del 1916. In base ad essi la Francia avrebbe amministrato oltre alla Cilicia, la costa siriana e libanese fino ad Akko, mentre alla Gran Bretagna sarebbero spettati la Mesopotamia meridionale, compresa Baghdad, e in Palestina i porti di Akko e Haifa. Inoltre il 2 novembre 1917 Balfour, a nome del governo inglese, aveva annunciato la fondazione in Palestina di un “focolare nazionale ebraico”. Sfidando il ridicolo, venne escogitata la formula dei mandati: Francia ed Inghilterra ricevevano dalla Società delle Nazioni il mandato di amministrare i territori della Mezzaluna fertile, per portarli alla completa indipendenza (!).

Dopo due anni di ipocrite trattative, una convenzione franco-britannica per il petrolio venne firmata nell’aprile del 1920 a San Remo all’interno della Conferenza convocata per concludere il trattato di pace con la Turchia, all’insaputa degli americani. Il trattato attribuiva alla Francia il mandato sulla Siria, Libano compreso, e all’Inghilterra sulla Palestina e l’Iraq. Da notare che il trattato assegnò all’Iraq e non alla Siria il distretto petrolifero di Mosul, che gli accordi del 1916 avevano invece posto nella zona d’influenza francese. La Francia fece buon viso a cattivo gioco perché sperava nel sostegno della Gran Bretagna per l’occupazione della Ruhr. Come contropartita essa ottenne comunque la quota tedesca (23,75%) della Turkish Petroleum, in cambio dell’impegno ad agevolare la costruzione di un oleodotto fino al Mediterraneo attraverso la Siria.

Il governo francese aveva fretta di imbastire una politica del petrolio. Nel 1923, il presidente del Consiglio Poincaré affidava ad alcuni uomini d’affari l’incarico di impostare una politica nazionale del petrolio e di costituire una società avente lo scopo di gestire le azioni della Turkish, ancora sotto sequestro a Londra. Nella primavera del 1924 verrà creata la “Compagnie Française des Pétroles”, nella quale entra anche lo Stato con una quota del 25%. L’industria automobilistica francese era allora in pieno sviluppo: il parco veicoli toccava il milione e Citroën era il primo costruttore d’Europa. Il governo francese mise a capo della Compagnia un celebre scienziato del Politecnico, Ernest Mercier, e diede alla società una protezione particolare, costruendo raffinerie per il greggio proveniente dal Medio Oriente. Ma la C.F.P. non avrà mai una produzione di scala paragonabile a quella delle concorrenti anglo-americane, e il risentimento francese contro il loro dominio coverà sempre sotto la cenere, con periodiche esplosioni.


14. Prove di guerra tra fratelli

La Gran Bretagna aveva ottenuto il pieno controllo dell’Iraq, ma la regione si avviava a diventare il teatro di un nuovo scontro tra gli imperialismi. Già nell’estate del 1920 gli inglesi dovettero affrontare un’imponente rivolta nella regione dell’Eufrate, per reprimere la quale usarono gas asfissianti e bombe ad innesco ritardato, che lasciarono sul campo novantamila morti. Nel marzo 1921, una conferenza riunita al Cairo decise di creare un regno ereditario in Iraq e di affidarne la corona al principe hascemita Faysal, che gli inglesi avevano messo sul trono in Siria nel 1919 e che i francesi avevano detronizzato l’anno dopo. Per l’Inghilterra, che aveva bisogno di stabilità per continuare in santa pace le sue ricerche petrolifere, la scelta di un governo arabo di facciata che governasse a loro nome era perfetta.

Che il re fosse un burattino degli inglesi fu dimostrato dalla questione di Mosul. Questo territorio, ricco di petrolio, popolato in maggioranza da curdi, arabi musulmani e arabi cristiani, era rivendicato e dalla Turchia e dall’Iraq. L’Inghilterra naturalmente preferiva vedere le regioni petrolifere in mano agli iracheni piuttosto che ai turchi. Così nel 1924 il colonnello Lawrence “suggerì” a Faysal di rivendicare la sovranità sul territorio curdo. Gli inglesi portarono la controversia davanti alla Società delle Nazioni, che attribuì all’Iraq la maggior parte del vilayet di Mosul. I timidi tentativi di re Faysal di legittimarsi – da straniero imposto sul trono dall’esterno – nel nuovo composito Stato andranno a vuoto. Nel 1932 l’Iraq raggiungerà l’indipendenza formale, primo degli Stati nel sistema dei mandati, ma di fatto i britannici conserveranno il pieno utilizzo delle basi militari e un controllo diretto dell’esercito per mezzo di consiglieri militari.

Gli Stati Uniti, deliberatamente esclusi dagli accordi di San Remo col pretesto che non avevano dichiarato guerra alla Turchia, contestarono duramente il trattato: l’ambasciatore americano a Londra consegnò una nota di protesta al Foreign Office in cui implicitamente si accusava l’Inghilterra di voler esercitare una forma di monopolio per la produzione di una materia essenziale come il petrolio, in oltraggio al principio dell’uguaglianza nei rapporti internazionali. Con linguaggio pomposo la nota ricordava il contributo dato dall’America alla vittoria e il suo diritto a partecipare alla divisione del bottino. Era la solita storia del lupo che accusava l’agnello (in questo caso un altro lupo che perdeva il pelo) di intorbidire l’acqua pur bevendo a valle. Il ministro degli esteri inglese lord Curzon rammentò agli americani che il petrolio proveniente dalla Persia rappresentava soltanto il 4,5% della produzione mondiale, mentre gli Stati Uniti ne controllavano il 70%. Era la prima volta che si affrontavano direttamente il Foreign Office e il Dipartimento di Stato di Washington: fino ad allora le Compagnie inglesi ed americane avevano regolato le loro vertenze in via privata, senza far intervenire i rispettivi governi.

Gli inglesi sospettavano che dietro i ribelli iracheni ci fossero i dollari americani. Ma per il Dipartimento di Stato la politica della “porta aperta” (nel senso di rimuovere gli ostacoli all’entrata degli americani e permettere così alle potentissime società statunitensi di eliminare i concorrenti meno attrezzati) non doveva ancora attentare alla supremazia britannica per non mettere a rischio la stabilità dell’area. Alla fine, l’Anglo-Persian e la Shell si lasciarono persuadere dal governo che la cooptazione degli americani rientrava nell’interesse nazionale britannico e che il capitale e la tecnologia americani avrebbero accelerato il processo di sviluppo petrolifero del paese e rafforzato il governo filo-britannico.


15. Imperialismo e Rivoluzione in Russia

La rivoluzione bolscevica del 1917 aveva posto agli Alleati seri problemi sia riguardo ai rapporti da intrattenere con il nuovo governo sovietico sia riguardo alle frontiere del nuovo Stato. Quando nel novembre del 1918 i bolscevichi denunciarono il trattato di Brest-Litovsk, che aveva sancito la pace con la Germania nel marzo precedente, gli Alleati esitarono fra tre soluzioni: il negoziato, la lotta armata, la politica del “cordone sanitario”. A tutta prima si scelse l’opzione armata: il 1° dicembre 1918 l’ammiraglio Kolciak con l’appoggio inglese si impadronì del governo panrusso della Siberia, mentre il generale Berthelot, a capo delle truppe alleate in Romania, annunciò l’invio di 150 mila uomini e forniture militari a Odessa.

Ma questo atteggiamento mutò dopo la riconquista da parte dei bolscevichi dell’Ucraina, della Russia bianca e dei Paesi baltici e la sconfitta di Kolciak in Siberia. Lloyd George, Wilson e Clemenceau optarono per una conferenza di pace, e a questo scopo mandarono in Russia William Bullit per preparare il terreno. Dopo numerosi incontri, il 14 marzo 1919 Bullit e Lenin si accordarono su un progetto di pace che prevedeva che tutti i governi della Russia avrebbero conservato i loro territori, che sarebbero riprese le relazioni commerciali, che le truppe alleate si sarebbero immediatamente ritirate dalla Russia. Ma a Parigi il piano fu bellamente ignorato, probabilmente a causa dei tentativi rivoluzionari scoppiati nel frattempo in Germania con gli spartachisti e in Ungheria con Bela Kun. Né dovette essere particolarmente gradito agli occidentali l’annuncio a Mosca della creazione della Terza internazionale, nel marzo 1919. La nuova politica che si scelse di applicare contro i bolscevichi fu quella del “cordone sanitario”, ossia dell’appoggio alle armate controrivoluzionarie dei russi bianchi senza intervento diretto delle truppe occidentali.

Non ci dilungheremo sugli anni terribili della guerra civile, quando i bolscevichi furono costretti a ricorrere al petroliere americano Hammer per barattare le opere d’arte in cambio di grano e carburanti. Diremo soltanto che il fallimento della politica alleata di appoggio armato ai russi bianchi fu compensata da alcuni successi occidentali riguardo alla delimitazione delle frontiere sovietiche con la Finlandia, con le regioni baltiche, la Polonia e la Siberia.

Quanto al problema delle frontiere meridionali dei Soviet la questione fu abbastanza complessa. La rivoluzione russa aveva dato avvio a movimenti nazionalisti nelle regioni di frontiera del Caucaso. Nell’aprile 1918 si creò una Federazione Transcaucasica che poi si divise nei tre Stati indipendenti dell’Azerbaigian, dell’Armenia e della Georgia. Distaccamenti inglesi dell’armata del Medio Oriente marciarono immediatamente verso i campi petroliferi di Baku, presto imitati dai tedeschi e dai Giovani Turchi di Mustafà Kemal, che inviarono loro truppe con il pretesto della lotta in corso tra azeri (una popolazione di origine turca che popola la regione) e armeni.

Nell’aprile 1920, inseguendo l’esercito di Denikin, l’armata rossa invase l’Azerbaigian, l’Armenia e la Georgia: entrati a Baku, i bolscevichi cacciarono le truppe inglesi, tedesche e turche che erano arrivate fin là per impadronirsi del petrolio e come primo atto nazionalizzarono le quattrocento Compagnie petrolifere presenti nella zona. Ciò arrecò un notevole danno soprattutto alla Shell, che dal Caucaso ricavava la metà dei suoi rifornimenti. Ma anche la Exxon di Walter Teagle si scontrò per la prima volta con lo spettro della nazionalizzazione, che presto avrebbe turbato il sonno dei petrolieri di tutto il mondo. La rivoluzione d’Ottobre aveva causato un rimescolamento delle carte e molte Compagnie avevano occupato la scena sperando di fare affari approfittando della confusione del momento. I fratelli Nobel offrirono a Teagle l’acquisto di un terzo dei loro interessi a Baku e – incredibile a dirsi – la Exxon continuò le trattative anche dopo che l’armata rossa aveva sequestrato i pozzi. Essa puntava evidentemente sulla prossima caduta dei bolscevichi. L’accordo venne siglato nel giugno 1920 per una cifra di 11,5 milioni di dollari. Anche la Shell e la BP, concorrenti della Exxon, cercavano di fare affari con i sovietici.

Intanto i russi producevano petrolio in grande abbondanza e lo offrivano a basso prezzo, facendo incombere sugli americani la legge del contrappasso: l’incubo dell’inondazione dei mercati europei di petrolio russo a buon mercato. Alla fine Teagle e Deterding si accordarono per creare una società con l’obiettivo di tentare accordi separati con i sovietici “per la ricostruzione dell’intera industria petrolifera russa”. Ma l’accordo non andò mai in porto sia per le esose richieste di denaro da parte di Teagle, sia perché un’altra Compagnia americana, la Mobil, lanciò una campagna di bassi prezzi nel mercato indiano per scalzare la Shell. Deterding rispose scatenando una violenta campagna di stampa in cui accusava la Standard Oil di collaborazione con il comunismo. Alla fine, i russi erano riusciti a far emergere le insanabili rivalità che da sempre dilaniavano le Compagnie occidentali.

Il 28 aprile del 1920 fu costituita la Repubblica sovietica dell’Azerbaigian. L’8 maggio, il governo sovietico riconobbe formalmente l’indipendenza della Georgia, ma vi organizzò un movimento rivoluzionario che l’anno seguente portò alla proclamazione della Repubblica socialista sovietica, sotto la protezione dell’armata rossa. Quanto all’Armenia, il 18 aprile 1921 le truppe sovietiche entrarono nella capitale Erivan proclamandovi la Repubblica sovietica. Il trattato russo-turco di Kars dell’ottobre 1921 sanciva il definitivo dominio sovietico nella Transcaucasia. Rispetto all’impero degli zar, i sovietici perdevano solo i distretti di Kars e di Ardahan ceduti alla Turchia.


16. Epoca usuraia del Dollaro

Al II Congresso dell’Internazionale Comunista nell’estate del 1920, Lenin traccia un quadro della situazione post-bellica cui è bene riferirsi per inquadrare il fenomeno dell’esplodere, grazie alla carneficina mondiale, dell’imperialismo americano. Egli già vede, mentre gli avvenimenti sono ancora incandescenti, quello che diventerà chiaro solo in seguito: la fine del primato imperialistico dell’Inghilterra e la retrocessione dell’Europa borghese imprenditoriale e commerciale di fronte all’America banchiera e finanziaria. Alla testa degli Stati che, al lume della critica marxista, appaiono come i veri vincitori del conflitto egli colloca non l’Inghilterra, che nel 1914 era la potenza egemone, ma gli ultimi arrivati nella giungla capitalista, gli Stati Uniti; e al secondo posto il Giappone, il grande profittatore delle guerre provocate in Asia dall’imperialismo europeo. La chiave di questa trasformazione risiede essenzialmente nel fatto che gli Usa erano diventati “l’arsenale delle democrazie”, come dimostrerà definitivamente la replica in grande stile della Seconda Guerra mondiale.

Ma la libera repubblica stellata non si limitava a fabbricare e a vendere armi ai belligeranti, essa era anche la cambusa degli eserciti in guerra: l’Europa aveva fame di armi, con cui alimentare la carneficina, e di viveri per sostentare le truppe dal momento che il “fronte interno” non bastava a portare la produzione all’altezza dei bisogni degli stati maggiori. Così l’Europa divenne cliente degli Stati Uniti e chiese la vendita a credito delle colossali ordinazioni a chi, fino al 1914, era stato suo debitore.

Mentre la guerra svenava le nazioni europee, l’economia americana faceva un balzo gigantesco. Gli impianti industriali subivano una pronta trasformazione nel campo tecnico e in quello della gestione, mentre le industrie europee segnavano il passo. In agricoltura furono incrementate le colture industriali e grandi estensioni di terra incolta dissodate e messe a coltura. Fiumi di prodotti industriali e di derrate si riversavano dalle coste atlantiche degli Stati Uniti in Europa, dove la fornace della guerra inghiottiva tutte quelle ricchezze acquistate ma non pagate. Il saldo dei debiti si rimandava alla fine delle ostilità.

Ciò che più di ogni altra cosa denuncia la svolta radicale compiuta dal capitalismo è il fatto, del tutto inedito, che la guerra imperialista, e per essa la dominazione del capitale finanziario, riduceva allo stato di colonia non solo paesi semicivili, ma persino le più progredite nazioni del mondo. Il trattato di Versailles imporrà ai popoli progrediti della Germania, dell’Austria-Ungheria, della Bulgaria condizioni che li precipiteranno in una situazione di soggezione coloniale, di miseria, di fame e di rovina, incatenandoli per numerose generazioni. Questo il vero volto del super-colonialismo capitalista sorto dalla Prima Guerra, la pace degli usurai che avrebbe gravato sulle generazioni future, provocando tremende catastrofi. All’indomani della guerra tutti i maggiori Stati sono indebitati, solo gli Stati Uniti si trovano in una situazione assolutamente indipendente. La sola Inghilterra, che pure vanta crediti presso la Francia, l’Italia e la Russia, è debitrice nei confronti degli Usa per la cifra astronomica di 21 miliardi di sterline-oro.

Se si considera che le potenze indebitate verso gli Stati Uniti erano i vertici di immensi imperi coloniali e controllavano attraverso le loro banche la maggior parte del mondo abitato, ci si accorge come gli Usa, già alla fine della guerra, si fossero messi sulla strada della egemonia planetaria, che conquisteranno definitivamente con la seconda guerra mondiale. Si può dire che la condanna del vecchio colonialismo è decretata nel momento in cui le banche statunitensi hanno visto le maggiori potenze della vecchia Europa accorrere ai loro sportelli, anche se per vederne gli effetti politici e rivoluzionari bisognerà attendere che il vecchio edificio sociale imputridisca ancora.


17. Una Linea Rossa sul Medioriente

La guerra commerciale tra la Standard Oil e la Turkish Petroleum si trascinerà fino al 1928, quando un gruppo di Compagnie americane, appoggiate dal governo, riuscirà ad ottenere una partecipazione nell’Anglo-Persian. Decisivi furono i massicci ritrovamenti presso Kirkuk, nel 1927, che spinsero le Compagnie al compromesso. Il 31 luglio 1928 fu firmato a Ostenda, in Belgio, un accordo tra i vecchi azionisti della Turkish e i gruppi americani riuniti nella “Near East Developpement Corporation” (Nedc). Dopo il nuovo rimescolamento di carte, il pacchetto azionario dell’Iraq Petroleum Company (nuovo nome della Compagnia) apparterrà per il 47,5% a capitali inglesi (23,75% ciascuno alla Royale Dutch-Shell e all’Anglo-Persian), per il 23,75% a capitali americani, per il 23,75% a capitali francesi, e per il restante 5% alla nostra vecchia conoscenza Calouste Gulbenkian, il primo degli imprenditori solitari destinato ad arricchirsi a spese del Medio Oriente.

Contemporaneamente, per evitare attriti all’interno della nuova Compagnia che potessero mettere in pericolo l’equilibrio del Medio Oriente, furono stabilite alcune semplici regole comuni a tutti i contraenti, sulla base dell’antico postulato: lupo non mangia lupo. L’intesa passò alla storia come “l’Accordo della Linea Rossa” perché Gulbenkian ebbe l’onore di segnare su una cartina con una matita rossa l’area geografica entro la quale i soci si impegnavano a non effettuare attività di ricerca se non congiuntamente, nonché a fare fronte comune per impedire qualsiasi intrusione di concorrenti. La Linea Rossa contornava gli attuali territori di Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano, Israele e dell’intera penisola arabica, lasciando fuori il Kuwait e la Persia.

Ma l’accordo fu firmato alla vigilia della crisi economica mondiale e dopo un deciso crollo dei prezzi, che nel 1928 erano scesi del 60% rispetto a qualche anno prima. Infatti, la guerra dei prezzi che Deterding aveva scatenato in India era ben presto dilagata in tutto il mondo e quella che era iniziata come una disputa intorno al petrolio russo finì per diventare una crisi generale dell’industria petrolifera, mettendo fuori mercato le società minori e diminuendo i profitti di tutti. Ma nessuno era sicuro di vincere perché ci si trovava di fronte ad una situazione di sovrapproduzione la quale, oltre che dalla contrazione dei consumi automobilistici, era determinata dalle nuove quote di produzioni di paesi come l’Iraq, il Venezuela e il Messico.

 
  (continua al prossimo numero)
 
 
 
 
 
 
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27 settembre - Fiat, Pomigliano d’Arco
Per la difesa dei lavoratori contro il capitalismo !
Per il Sindacato di Classe !
Per il Partito Comunista Rivoluzionario !
 

Oggi i lavoratori organizzati dal SI Cobas, dalla Confederazione Cobas Lavoro Privato e da altri organismi sindacali sono fuori dalla fabbrica a picchettare per unire i lavoratori al di sopra delle divisioni utili solo al padronato fra occupati, disoccupati, cassaintegrati, fra aziende e categorie, fra italiani e immigrati.

La crisi economica mondiale del capitalismo continua la sua marcia inesorabile. Le sue cause non sono affatto nuove. Sono le stesse che causarono la grande depressione del 1929: la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto.

Oggi, la cosiddetta politica economica keynesiana, ossia l’intervento dello Stato a sostegno dell’economia capitalistica, è invocata dalla sinistra borghese, sia moderata sia “radicale”, quale alternativa al neoliberismo e, a seconda dei casi, presentata come riformista o persino socialista!

Allora, questa politica economica fu praticata indifferentemente da tutti i regimi borghesi, dai democratici come da quelli fascisti e nazisti, e non risolse affatto la crisi. Ciò che permise al capitalismo di tornare alla “crescita” negli anni ’50-’60 fu la Seconda Guerra mondiale col sacrificio di 55 milioni di vite, quasi tutti proletari e contadini.

Il Comunismo rivoluzionario ha previsto e denunciato ai lavoratori la crisi e il suo inevitabile epilogo. Tutti i suoi avversari – a cominciare da coloro che per decenni hanno spacciato per comunismo il capitalismo di Stato russo, cinese, cubano, ecc. – come ieri hanno negato la previsione marxista della crisi, così oggi si affannano a darne false spiegazioni e soluzioni.

I lavoratori di tutto il mondo, anche quelli dei paesi occidentali, saranno spinti dal peggioramento delle loro condizioni di vita, che è solo agli inizi, a tornare alla lotta di classe, seguendo l’esempio dei loro fratelli di classe egiziani e tunisini che già hanno iniziato a intraprendere questa strada.

Questa lotta è destinata a sfociare o nella rivoluzione proletaria internazionale o in una nuova guerra imperialista mondiale.

La classe lavoratrice deve organizzare la sua battaglia, partendo dalla difesa dei suoi interessi immediati – economici – per rafforzarla fino a farla diventare una lotta per la conquista rivoluzionaria del potere politico. A questo scopo ha bisogno dei suoi organismi di battaglia: il SINDACATO DI CLASSE e il PARTITO RIVOLUZIONARIO. 

Il SINDACATO DI CLASSE: che ambisca a organizzare la massa più larga possibile dei lavoratori salariati, occupati e disoccupati, senza distinzioni di appartenenza politica, sesso, razza e nazione; che utilizzi i metodi propri della lotta di classe: scioperi senza preavviso e ad oltranza, con picchetti per impedire l’ingresso di merci e crumiri; che mai defletta dall’obiettivo di unificare le singole lotte divise per azienda, territorio e categoria in un movimento generale della classe lavoratrice per i soli obiettivi che la accomunano, uniscono e rafforzano:
 - riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
 - forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
 - salario pieno ai lavoratori licenziati, a carico della borghesia attraverso il suo Stato.
  

Il Sindacato di classe non può che rinascere FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), organizzazioni che devono la loro esistenza all’appoggio che il padronato e il regime politico capitalista fornisce loro in quanto migliori strumenti per ostacolare il ritorno alla lotta di classe dei lavoratori.

Il PARTITO RIVOLUZIONARIO: organizzato sulla base dell’adesione a un programma il più chiaro e definito possibile, quello originario comunista; che rigetti nell’azione pratica ogni mercanteggiamento di posizioni per fittizi e inesistenti obiettivi intermedi precedenti alla conquista rivoluzionaria del potere; che abbia saputo trarre dalle tragiche sconfitte delle rivoluzioni proletarie passate le lezioni necessarie alla riscossa futura; che lotti all’interno del Sindacato di classe per far prevalere il proprio indirizzo di lotta, il solo efficacie a vincere l’inevitabile influenza delle correnti politiche opportuniste e borghesi in seno al movimento operaio che mirano ad appropriarsi delle organizzazioni economiche dei lavoratori e ad inquadrarle nel regime capitalista, così come già fatto in Italia, in modo definitivo, con la Cgil.

I punti fondamentali del programma rivoluzionario comunista sono:
 - l’abolizione del lavoro salariato, con la conseguente estinzione del suo opposto, il Capitale, e quindi del denaro, e la distribuzione gratuita dei beni e dei servizi;
 - l’obbligo sociale del lavoro, con la scomparsa della disoccupazione;
 - la drastica riduzione dell’orario di lavoro a poche ore giornaliere;
 - la regolazione della produzione secondo parametri fisici riferiti ai bisogni umani e non più secondo gli interessi mercantili e aziendali;
 - la soppressione di interi settori di attività prettamente capitalistiche e parassitarie: da quelle legate alla contabilità monetaria e alla finanza, a quelle, ad es., pubblicitarie, con la conseguente liberazione di enormi energie per scopi realmente utili. 

Per questo grandioso quanto vitale compito il Partito Comunista Internazionale – erede della Sinistra Comunista italiana, la corrente che fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno nel 1921 e che lottò dalla prima ora contro l’ondata opportunista dello stalinismo che ha mistificato e stravolto agli occhi di intere generazioni proletarie il senso ed il significato del Comunismo – vi chiama alla milizia nelle proprie file.





La lotta “per il lavoro” non è sufficiente a difendere la classe lavoratrice
È necessario unire le lotte per conquistare il salario per gli operai licenziati e la riduzione dell’orario di lavoro

Da sempre istituzioni borghesi, sindacati di regime e partiti della "sinistra" borghese hanno illuso la classe operaia facendole credere che questa società è la migliore possibile, unica in grado di poter garantire, in un futuro non meglio definito, "benessere" per tutti!

La verità è che questa società può garantire ai proletari solo sfruttamento, disoccupazione, miseria e guerra.

Nel corso dei decenni attraverso dure lotte i lavoratori avevano ottenuto conquiste momentanee come aumenti salariali e "diritti" che oggi, in piena crisi del capitale, sono stati cancellati in barba a tutte le sacre costituzioni e carte dei "diritti".

Operai di Ideal Standard, lavoratori di Electrolux,

i padroni tentano di salvare i loro profitti sulla vostra pelle, chiudendo le fabbriche ora non più "competitive" a causa della crisi mondiale del Capitale, che è crisi di sovrapproduzione di merci e che porterà sempre più proletari ed essere dei veri senza riserve.

Comuni, Provincia e Regione mostrano nuovamente il vero volto delle istituzioni fedeli alla classe dominante, che detiene i mezzi di produzione delle merci, la Borghesia. Le ricette istituzionali sono inutili e dannose, impotenti a difendere i lavoratori dagli attacchi padronali, atte ad allontanare i lavoratori dall’unica ricetta possibile: la lotta di classe!

L’orchestra suona con la complicità dei bonzi di regime CSIL UIL UGL ed anche CGIL che nel corso degli anni hanno diviso la classe lavoratrice in mille rivoli di categorie e contratti schierando gli operai gli uni contro gli altri, precari contro "stabili", italiani contro stranieri.

In questo contesto la parola d’ordine della difesa del posto di lavoro risulta sempre più inadeguata, perchè non allarga il fronte della lotta ma lo rinchiude, lo soffoca nel recinto aziendale alimentando in questo modo la concorrenza tra fabbrica e fabbrica, stabilimento e stabilimento. Lottare “per il lavoro” conduce gli operai, pur di continuare a lavorare, ad accettare ogni imposizione padronale, diminuzione del salario, aumenti dei carichi di lavoro, aumento degli esuberi, come dimostrano tutti gli accordi al ribasso firmati da CGIL CSIL e UIL. Concessioni che non hanno fine. Se da una parte aumentano il numero dei disoccupati dall’altra peggiorano le condizioni di vita e di lavoro degli operai ancora in produzione.

Lavoratori,

Solo attraverso la lotta per la ricostituzione di un sincero e forte sindacato di classe, si potranno ritessere quelle fondamentali e necessarie reti di solidarietà e difesa proletaria. Questo sindacato dovrà far suoi i tradizionali e necessari principi della secolare lotta dei lavoratori: nessuna collusione col nemico, né accettazione di alcun interesse comune, né “compatibilità”; rigetto di qualsiasi regolamentazione dell’esercizio dello sciopero; rifiuto delle “concessioni” padronali come i distacchi che sono solo mezzi di corruzione; ritorno alla riscossione delle quote senza passare dalle casse padronali, poiché il vero “riconoscimento” si ottiene solo con la lotta. Il sindacato di classe si batterà per la parità salariale, normativa e di diritti per tutti i lavoratori, precari, interinali e immigrati compresi, per il pieno salario ai lavoratori licenziati, solo mezzo per evitare la sconfitta generale di tutti.

La lotta sindacale, il Sindacato di Classe, sono necessari per iniziare a difendersi dagli attacchi padronali. Ma per farla finita una volta per tutte con questo oramai nauseabondo cadavere chiamato Capitalismo, il proletariato dovrà ricollegarsi al suo partito, il Partito Comunista Internazionale, il solo che ha saputo mantenere l’originale programma rivoluzionario della società comunista difendendolo dall’ultima e peggiore sconfitta rivoluzionaria, quella culminata con lo stalinismo e la menzogna del falso socialismo russo, cinese, ecc., e che da quella sconfitta ha saputo trarre le lezioni necessarie per la riscossa rivoluzionaria futura.

 
 
 
 
 


18 ottobre
Contro le illusioni del riformismo,
per il Sindacato di Classe, per il Comunismo Rivoluzionario !

Lavoratori,

oggi i sindacati di base vi chiamano giustamente allo sciopero generale contro l’austerità, la precarietà, le leggi anti-immigrazione, le offensive di industriali e governo, complici i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), volte a scaricare sui lavoratori gli effetti della crisi, come il blocco del contratto dei dipendenti pubblici, la demolizione del contratto nazionale, gli accordi aziendali fatti di licenziamenti, cassa integrazione, tagli del salario, aumenti dello straordinario e della produttività.

Tutti questi attacchi sono spiegati dalla cosiddetta sinistra radicale – che dirige le principali organizzazioni sindacali di base e la minoranza di sinistra interna alla Cgil – come il prodotto di una particolare politica economica, il neoliberismo, che sarebbe colpevole d’aver provocato la crisi e di continuare ad aggravarla, a cui andrebbe contrapposta un’altra, basata sul forte intervento dello Stato nell’economia, con investimenti e nazionalizzazioni, che permetterebbe – a loro dire – di estendere i servizi e la previdenza pubblica, redistribuire il reddito, uscire dalla crisi.

Tutto questo è completamente falso e induce i lavoratori a imboccare la strada della sconfitta, come già la storia ha dimostrato.

Nessuna politica ha provocato la crisi, né poteva scongiurarla, per il semplice fatto che essa è inevitabile, perché causata dalle non modificabili leggi di funzionamento del capitalismo.

Il marxismo rivoluzionario è il solo che, fin dalle sue origini col Manifesto (1848) ed il Capitale (1864), ha previsto e denunciato ai lavoratori di tutto il mondo l’inesorabile precipitare dell’economia capitalista in crisi sempre più catastrofiche, la cui unica soluzione all’interno di questa società è la guerra.

I partiti riformisti e opportunisti – quelli che per decenni hanno ingannato i proletari spacciando per comunismo il capitalismo di Stato russo, cinese, cubano, ecc. – come ieri hanno nascosto o negato la previsione marxista della crisi, lasciando i lavoratori impreparati ad affrontarla, così oggi si affannano a darne false spiegazioni e soluzioni.

Le cause della crisi odierna non sono affatto nuove, sono le stesse che causarono la grande depressione del 1929: la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto, due malattie degenerative ed incurabili dell’economia capitalista.

Non è una cattiva amministrazione del capitalismo ad averne causato la crisi. Lo dimostra il fatto che colpisce tutti i paesi, da quelli comunemente considerati corrotti e male amministrati, come ad esempio l’Italia e la Grecia, a quelli noti per la loro efficienza, quali il Giappone, la Germania, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Olanda, fino all’Islanda. La diversa gravità con cui ciascun paese è colpito dalla crisi è dovuta al fatto che i capitalismi nazionali più forti, per ora, riescono a scaricarne parte degli effetti sui concorrenti più deboli. Ma con la sua inevitabile avanzata la crisi affonderà tutti i paesi uno dopo l’altro come i pezzi di un domino. Non esistono paradisi nazionali nel capitalismo per i lavoratori.

La politica economica invocata oggi dalla cosiddetta sinistra radicale, all’epoca della grande crisi del 1929 fu adottata indifferentemente da tutti i regimi borghesi – democratici, nazi-fascisti, falsamente comunisti (la Russia stalinista) – e, a seconda di chi la propugnava, definita keynesiana, socialdemocratica, nazionalsocialista, comunista. Al di sotto della cortina fumogena di queste ideologie – tutte scientificamente demolite dal marxismo – quella politica non era finalizzata a superare il capitalismo ma a conservarlo. Infatti la crisi non si risolse. A farlo fu solo la Seconda Guerra mondiale con le sue terribili distruzioni delle merci in eccesso, fra cui innanzitutto la merce forza-lavoro, con 55 milioni di morti, quasi tutti proletari e contadini, con la sottomissione dei lavoratori al massimo sfruttamento prima nel regime di guerra e dopo in quello della ricostruzione. Solo questo inumano e controrivoluzionario sacrificio ha permesso il famigerato boom economico degli anni successivi.

La forte crescita dei primi decenni del dopoguerra ha permesso da un lato alla borghesia di proseguire la politica, già avviata prima della guerra, di interventismo statale in economia ed estensione dei servizi e della previdenza pubblici (in Italia, per esempio, l’IRI fu fondata nel 1933 e l’INPS nel 1935), dall’altro al riformismo (in Italia il PCI) di illudere i lavoratori che il capitalismo fosse stato definitivamente cambiato dalla democrazia, la quale avrebbe portato loro benessere e diritti garantiti.

Ma la crescita – invocata da un estremo all’altro dello schieramento politico borghese quale “bene comune” a tutte le classi – altro non è che la crescita del Capitale. Oltre un certo limite è impossibile: perché sono state prodotte troppe merci e perché il margine di profitto diviene sempre più esiguo. Le fasi economiche di forte crescita sono solo la premessa della crisi generale.

Nel 1974 la prima manifestazione della crisi attuale segnò l’esaurirsi dell’effetto benefico, per il capitalismo, della Seconda Guerra mondiale. Da allora il capitalismo ha rimandato il precipitare della crisi e mantenuto una crescita sempre più debole, manovrando su tre leve: il debito, l’allargamento del mercato mondiale, l’aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice. La crescita del debito pubblico, iniziata proprio nel 1973-’74, e l’allargamento del mercato mondiale, maturato dalla metà degli anni ’80, hanno permesso alla borghesia di attaccare con studiata gradualità la classe operaia: nel 1978 la Cgil inaugurò, con la “svolta dell’EUR”, la politica della “moderazione salariale”; nel 1983 iniziò l’attacco alla scala mobile con il “protocollo Scotti”, completato nel 1992 con l’accordo Amato-Trentin; nel luglio 1993 fu formalizzata la “concertazione” e varata la nuova “politica dei redditi” sul parametro della “inflazione programmata”; nel 1995 il governo Dini riuscì dove aveva fallito il precedente governo Berlusconi, facendo approvare la controriforma del sistema pensionistico; nel 1997 la legge Treu aprì le porte al precariato nei rapporti di lavoro, sanzionata e peggiorata dalla legge 30 del 2003; nel 1998 la legge Turco-Napolitano istituì il reato di clandestinità e i Centri di Permanenza Temporanea contro gli immigrati, poi aggravata dalla legge Bossi-Fini del 2002. Tutti questi questi attacchi sono stati giustificati sempre allo stesso modo: “stare peggio oggi per stare meglio domani”. È evidente invece che ogni nuovo sacrificio è stato la premessa a un arretramento ancora peggiore e che la crisi è stata rimandata ma non risolta: è esplosa cinque anni fa e continuerà fino al tracollo l’intero sistema economico capitalistico. L’attacco contro i lavoratori si è così fatto più duro con la Riforma Fornero del mercato del lavoro e quella Monti del sistema pensionistico.

Il fatto che, in questo ultimo arco di 35 anni, in tutti i paesi, la maggior parte dei partiti socialdemocratici abbiano abbracciato il cosiddetto neoliberismo dimostra che è l’andamento dell’economia capitalista a determinare le politiche dei governi borghesi, non viceversa, e che chi accetta il capitalismo deve sottostare alle sue leggi. Non è il neoliberismo ad aver generato la crisi ma questa ad aver imposto quella politica ai governi borghesi, di destra e di sinistra. Lo dimostra anche la storia del falso comunismo russo, il più chiaro tentativo non certo di socialismo ma di regolazione del capitalismo da parte dello Stato, crollato miseramente nel 1989 proprio sotto il peso delle leggi economiche capitalistiche che pretendeva dominare.

Lavoratori, operai, compagni !

Affinché la vostra lotta sia efficace ed abbia una prospettiva futura non deve farsi carico della salute di questa società morente. Questo significa rifiutare di sottomettere i vostri bisogni al preteso superiore “bene del paese”, che non è il bene di tutti i cittadini, al di sopra delle classi, secondo la formula borghese del “siamo tutti sulla stessa barca”, ma è solo il bene del Capitale.

Come quando  i lavoratori si illudono di tutelare i propri interessi legando le proprie sorti a quelle dell’azienda in cui lavorano, e sono messi in concorrenza gli uni contro gli altri, col risultato di abbassare salario e condizioni della classe intera, così se pensano di risolvere e superare la loro condizione di miseria all’interno del loro paese, si incatenano al carro della propria borghesia nazionale, che oggi li mette in concorrenza coi lavoratori degli altri paesi sul piano economico, domani, quando la crisi non avrà più sbocchi, li condurrà alla guerra.

Nessuna politica nazionale, sia essa finalizzata, ad esempio, a pagare o non pagare il debito, a stare dentro o fuori la falsa e borghese Unione Europea, a privatizzare o nazionalizzare le aziende, è contro il capitalismo e può quindi risolvere le sue contraddizioni, che generano miseria, sfruttamento e guerra. Non esistono patrie socialiste. La soluzione per i lavoratori è in una superiore società senza Capitale, possibile solo sul piano internazionale. La prima e più antica parola d’ordine del comunismo rivoluzionario è sempre la più attuale e necessaria: proletari di tutti i paesi unitevi!

Quindi, di fronte alla crisi che avanza i lavoratori devono difendere intransigentemente le proprie condizioni di vita sul piano economico organizzandosi in un vero SINDACATO DI CLASSE, fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) necessario per unire in modo sempre più esteso le singole lotte fino a raggiungere la capacità di dispiegare lo sciopero generale a oltranza per i soli obiettivi che veramente uniscono tutta la classe lavoratrice:
Difesa intransigente del salario, con aumenti maggiori per le categorie peggio pagate;
Riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario e da elevare a livello europeo;
Salario ai lavoratori licenziati, adeguato al costo della vita, a carico di industriali e banchieri mediante il loro Stato.

Il SINDACATO DI CLASSE deve essere ricostruito rigettando tutto il bagaglio del sindacalismo di regime facendo propri i principi e i metodi dell’originario movimento sindacale proletario:
– utilizzo dei metodi propri della lotta di classe: scioperi a oltranza, senza preavviso, che cercano di estendersi sempre agli altri lavoratori al di sopra delle aziende e delle categorie, con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri;
vita sindacale basata sul lavoro gratuito e volontario dei militanti sindacali, riducendo al minimo funzionari stipendiati;
raccolta delle quote mensili sindacali per via diretta, attraverso i militanti sindacali, rigettando il mezzo della delega, per non dare in mano all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, base materiale fondamentale del sindacalismo concertativo e collaborazionista;
organizzazione sindacale che privilegi le strutture territoriali rispetto a quelle aziendali, come nella tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si incontrano in quanto tali, non come dipendenti della singola azienda, rafforzando i legami di classe.

I sindacati di base possono forse essere l’embrione del sindacato di classe a patto di sconfiggere al loro interno le dirigenze riformiste e opportuniste, le quali dalla loro nascita li mantengono divisi, battendosi per la loro unificazione dal basso e per l’affermazione di questi metodi e principi.

Lavoratori, operai, compagni !

La lotta sindacale è necessaria a non restare schiacciati dal capitalismo, ma è pur sempre una fatica di Sisifo contro i suoi effetti. Per questo non deve essere fine a se stessa ma servire da palestra per salire dalla lotta economica difensiva a quella offensiva per il solo obiettivo politico dei lavoratori nel capitalismo: la conquista rivoluzionaria del potere, rigettando tutti i fittizi obiettivi politici intermedi dell’opportunismo utili solo ad allontanare questa soluzione.

Per questo grandioso quanto vitale compito vi chiama alla milizia nelle proprie file il Partito Comunista Internazionale – erede della Sinistra Comunista italiana, la corrente che fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno nel 1921 e che lottò dalla prima ora contro l’ondata opportunista dello stalinismo, che ha mistificato e stravolto agli occhi di intere generazioni proletarie il senso ed il significato del Comunismo.

 
 
 
 
 
 


Unire le battaglie isolate in una lotta comune contro la crisi !
Per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
Per il salario ai lavoratori disoccupati !

Sotto i colpi della crisi economica mondiale le aziende riducono drasticamente la forza lavoro, licenziano e in molti casi chiudono le fabbriche. Per “rimanere sul mercato” gli investitori borghesi, vista la demenziale concorrenza che caratterizza il modo di produzione capitalistico, pretendono lo stesso lavoro da sempre meno lavoratori. La cassa integrazione, sempre più magra e ridotta, è solo per i privilegiati che ne hanno “diritto” mentre i precari e i contratti “atipici” sono enormemente cresciuti in questi ultimi anni, consentiti da norme e leggi a favore dei padroni firmate da governi di destra e di sinistra.

I padroni, con la copertura del proprio Stato di classe e di tutte le sue Istituzioni, da un lato licenziano, dall’altro a chi rimane aumentano i ritmi di lavoro, sempre più ossessivi, e riducono i salari, ricattando la classe operaia, bombardata da giornali e mezzi della cosiddetta informazione con le menzogne sulla necessità di sacrifici per salvare il “bene comune” nazionale, la difesa della Democrazia e della sacra Costituzione. Ma nella prassi della Democrazia e nei compiti della Costituzione borghese non rientra la soluzione della disoccupazione né la lotta ai licenziamenti se non dal punto di vista degli interessi capitalistici di classe.

La Democrazia e la Costituzione sono abiti dietro ai quali i padroni borghesi fanno tranquillamente i propri affari.

La forza che spinge una impresa a chiudere o a peggiorare le condizioni dei lavoratori non ha origine al suo interno ma nel complesso del sistema economico capitalistico mondiale, nella sua crisi che rende la competizione sempre più agguerrita e le cui cause – la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto – sono le malattie incurabili del capitalismo. L’azienda è solo l’ultimo anello della catena dello sfruttamento al collo dei lavoratori.

La forza della classe lavoratrice potenzialmente è enorme, la sola rivoluzionaria in questa società decadente, ma per ora è rinchiusa entro i confini aziendali, divisa in mille rivoli, resa impotente. Come possono i lavoratori difendere il “posto di lavoro” in una impresa in crisi? Solo accettando sacrifici sempre più pesanti, sottomettendosi alla concorrenza fra proletari che spinge al ribasso le condizioni di lavoro, fabbricando con le proprie mani le basi della propria debolezza.

LA VIA D’USCITA DA QUESTA SITUAZIONE NON VA INVENTATA MA RITROVATA NELLA TRADIZIONE DI LOTTA DEL PROLETARIATO IN QUASI DUE SECOLI DI CAPITALISMO: È NELL’UNIONE DEI LAVORATORI NELLA LOTTA DI CLASSE.

È all’intera borghesia, industriale e finanziaria, non alla singola azienda che la classe lavoratrice deve imporre il soddisfacimento dei propri bisogni, unendo le singole battaglie in una lotta comune con gli altri compagni di classe.

I sindacati di regime si adoperano per impedire che i lavoratori imbocchino questa strada chiudendo il loro orizzonte entro le mura dell’azienda: puntano il dito contro la dirigenza incapace o truffaldina, dispensano consigli per migliorare la competitività aziendale e i piani industriali, vogliono dare a intendere che se fossero loro a guidare le imprese queste non chiuderebbero, non licenzierebbero, ecc. Non organizzano la lotta dei lavoratori ma si propongono quali padroni migliori o quanto meno indispensabili consiglieri! La loro forza non deriva dalla fiducia in essi riposta dai lavoratori ma da quella della borghesia che li considera i più efficienti ostacoli alla lotta di classe.

Quindi, quando scendono in lotta i lavoratori devono innanzitutto organizzarsi FUORI E CONTRO questi falsi sindacati, cercando il contatto con i proletari delle altre aziende per stabilire organismi di battaglia comuni e permanenti che organizzino insieme veri scioperi.

È questa la strada che conduce alla ricostruzione dell’organo di battaglia economica dei lavoratori, il SINDACATO DI CLASSE, necessario per unire progressivamente in modo sempre più esteso le lotte, fino a raggiungere la capacità di dispiegare lo sciopero generale ad oltranza per i soli obiettivi che veramente uniscono tutta la classe lavoratrice:
  – Difesa intransigente del salario, con aumenti maggiori per le categorie peggio pagate;
  – Riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, da elevare a livello europeo;
  – Salario pieno ai lavoratori licenziati, a carico di industriali e banchieri attraverso il loro Stato di classe.

Il SINDACATO DI CLASSE deve essere ricostruito rigettando tutto il bagaglio del sindacalismo di regime quale, ad esempio: i distacchi sindacali, il pagamento delle quote a mezzo della delega, l’accettazione dei codici di regolamentazione degli scioperi. Deve far propri i principi e i metodi dell’originario movimento sindacale proletario:
  – Difesa intransigente dei bisogni dei lavoratori, rifiutando ogni subordinazione a quelli dell’azienda e del paese, dell’economia nazionale, ossia del capitalismo;
  – Utilizzo dei metodi propri della lotta di classe: scioperi a oltranza, senza preavviso, cercando di estenderli sempre agli altri lavoratori al di sopra delle aziende, delle categorie e delle nazionalità, con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri;
  – Funzionamento basato essenzialmente sul lavoro gratuito e volontario dei militanti sindacali, riducendo al minimo i funzionari stipendiati;
  – Raccolta delle quote mensili sindacali per via diretta, attraverso i militanti sindacali, e non a mezzo della delega, per non dare in mano all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, base materiale fondamentale, questa, del sindacalismo concertativo e collaborazionista;
  – Sforzo continuo, in ogni lotta parziale e contingente, di dimostrare ai lavoratori la necessità di unire ed estendere il fronte della lotta, rompendo i limiti di azienda e categoria.

La lotta e il sindacato di classe sono necessari per iniziare a difendersi dagli attacchi padronali, ma non sono sufficienti per farla finita una volta per tutte con il cadavere nauseabondo del Capitalismo. Il proletariato dovrà ricollegarsi al suo partito, il Partito Comunista Internazionale, il solo che ha saputo trarre le lezioni per la riscossa rivoluzionaria futura dall’ultima e peggiore degenerazione della III Internazionale, culminata con lo stalinismo e la menzogna del falso socialismo russo, cinese, ecc., e che ha saputo mantenere l’originale programma rivoluzionario della società comunista.