Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 365 - maggio-giugno 2014 [.pdf]
PAGINA 1 Primo Maggio 2014: Ad un secolo dallo scoppio della Prima Guerra imperialista - Contro il capitalismo e i suoi preparativi di una terza - Per la ripresa delle lotte operaie - Per la Rivoluzione - Per il Comunismo
Ucraina: vieti nazionalismi per coprire un conflitto fra Imperi
PAGINA 2 Una riuscita riunione generale del partito 25-26 gennaio [RG118]: Alle origini del movimento operaio in Italia - Concetto e pratica di dittatura rivoluzionaria prima di Marx
Anche la merce forza lavoro deve concedersi just in time, Sintesi dei sistemi di organizzazione dello sfruttamento nelle fabbriche (fine al prossimo numero)

Per
il sindacato
di classe
In Sudafrica continua la lotta dei minatori contro governo padroni e sindacati di regime
Electrolux: Una sconfitta annunciata - Organizzarsi contro l’accordo e l’opportunismo dei sindacati di regime 
Cile: 22 giorni di sciopero dei portuali traditi dai sindacati
– 11 maggio, Alla Ikea di Piacenza: Difendere e organizzare la lotta di classe - Défendre et organiser la lutte de classe
ABB: Unire le battaglie ora isolate nelle aziende è la sola arma dei lavoratori
– Venezuela, Primo Maggio: Contro il “Socialismo del XXI secolo” e contro le opposizioni
PAGINA 5
– Il Capitale, stretto dalla caduta del tasso del profitto, ditta su Stati e Parlamenti
PAGINA 6
Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (continua dal numero 363): 22. Messico e Venezuela - 23. La crisi del 1929 - 24. Una Germania a secco - 25. Iran crocevia dello scontro tra imperialismi (Continua al prossimo numero)
 



 

PAGINA 1


PRIMO MAGGIO 2014
Ad un secolo dallo scoppio della Prima Guerra imperialista
Contro il capitalismo e i suoi preparativi di una terza
Per la ripresa delle lotte operaie
Per la Rivoluzione
Per il Comunismo


IERI

Nel 1914 l’attentato di Sarajevo dava il pretesto a tutti i borghesi Stati d’Europa per scatenare la loro prima guerra imperialista, prevista con due decenni di anticipo da Federico Engels, il quale aveva ammonito come quella mobilitazione di milioni di uomini in armi si sarebbe risolta, senza alcun risultato, in uno sconfinato orribile macello.

Fedeli alla linea di Marx ed Engels, i socialisti dell’estrema sinistra – Lenin, Luxemburg e la Sinistra italiana – tempestivamente denunciarono che la guerra era imposta dagli Dei del Profitto al fine di distruggere la enorme sovrapproduzione di merci, che anche allora si era accumulata, e ad un fine direttamente controrivoluzionario: sterminare una generazione di giovani proletari che in tutti i paesi, coscienti della loro forza di classe, minacciavano i poteri borghesi.

Nonostante questi ammonimenti, in nessun paese di Europa la classe lavoratrice poté opporsi, e fu costretta a marciare e morire per quella prima guer­ra controrivoluzionaria, a causa del­ tradimento dei Partiti Socialisti i quali, capovolgendo in una settimana tutta la dottrina e le consegne di guerra sociale di classe, chiamarono i proletari alla difesa della patria (ognuno la “propria”) e del militarismo borghese.

La reazione a questo tradimento, con la scissione dei vecchi partiti traditori, riformisti e social-sciovinisti, e la nascita di nuovi partiti rivoluzionari e comunisti, in Europa non poté aversi che passata la bufera della lunga guerra. Generose e determinate sollevazioni operaie, anche armate ed inquadrate, si ebbero nel 1919, in particolare in Germania e in Italia. Nuovo culmine, fino allora mai raggiunto nella chiarezza programmatica del partito, si ebbe, nel 1920, col Secondo Congresso della Terza Internazionale e, in Italia, nel 1921 con la fondazione del Partito Comunista d’Italia. Tappe queste fondamentali dalle quali il movimento non decamperà mai più. Ma giunte, in quei frangenti, troppo tardi per poter dare una efficace direzione politica rivoluzionaria alla classe, che in Italia, e anche in Germania, non fu sconfitta dal fascismo ma disarmata dal gradualismo della sopravvissuta socialdemocrazia, riformista, elettoralista, social-pacifista.

Solo in Russia, ove esisteva da prima della guerra un forte e ben impostato Partito Comunista, fu possibile per la classe operaia capovolgere la guerra imperialista in guerra civile, abbattere il potere statale, instaurare la dittatura del proletariato.

Negli altri paesi, la borghesia, passata la crisi del dopoguerra e mantenuto il potere, si faceva forte su una classe operaia che aveva visto fallire i suoi assalti. Anche sul potere comunista in Russia premeva il peso della sconfitta in Occidente, e presto il partito che fu di Lenin degenerò, con lo stalinismo, in un partito borghese e nazionalista, nonostante si nascondesse sotto false etichette comuniste, espressione di una società capitalista e di uno Stato imperialista in concorrenza con gli altri.

Da allora, quindi, il resto del secolo oggi trascorso è stato segnato dalla controrivoluzione, che solo la Sinistra Comunista italiana, dal secondo dopoguerra organizzata nel Partito Comunista Internazionale, ha avuto la forza di riconoscere, di denunciarne le forme e i miasmi, e di intravvederne la fine. Fuori del partito, il peso di questa secolare controrivoluzione e del debordante prevalere borghese in ogni campo ha stravolto prima e cancellato poi la memoria non solo dei più elementari postulati della rivoluzionaria dottrina marxista, base propria del partito comunista, ma anche degli stessi fini storici della classe operaia, il comunismo e la società senza classi.

Il capitalismo, frattanto, ha continuato ad ingigantirsi, come non può non fare, e ad esasperare tutte le sue contraddizioni economiche, accumulando sempre più ricchezza ad un polo e miseria all’altro. Un’altra grave crisi di sovrapproduzione l’ha colpito nel 1929, poi nel 1938. Di nuovo è dovuto ricorrere ad una guerra mondiale per azzerare, con la forza delle armi, i suoi ipertrofici conti in rosso. Lo Stato russo, ormai pienamente capitalista, al pari degli altri ha gettato i suoi proletari nella seconda guerra imperialista, spacciata per “democratica”, calpestando l’indicazione comunista rivoluzionaria, che fu di Lenin, del sabotaggio della guerra capitalista su tutti i fronti e della sua trasformazione in rivoluzione sociale, come avevano fatto i partiti socialisti allo scoppio della prima guerra mondiale.

 

OGGI

Nell’arco del secolo, il Capitale, nella sua corsa sfrenata, ha travolto ogni ostacolo alla sua crescita e, penetrato in ogni angolo della terra, anche con la fine del colonialismo ha abbattuto imperi millenari e società patriarcali, ed oggi le sue insegne monetarie, con i loro riflessi di Libertà (di mercato) e di individuo libero (di vendersi come salariato), sono ovunque accettate come “naturali”. La Cina, nonostante la verniciatura in rosso, ha al potere la borghesia, è già un grande capitalismo e si accinge a divenire il massimo imperialismo mondiale. Il capitalismo di nuovi grandi nazioni incalza da vicino i vecchi centri dell’imperialismo mondiale, che fondano ormai la loro forza più sulla loro residua potenza finanziaria, e per gli Usa sull’apparato militare, e sempre meno sulla produzione di plusvalore e sul dominio commerciale del mercato mondiale.

Una gigantesca rivoluzione è quindi avvenuta nella gran parte del mondo, da un lato con la rovina feroce di classi contadine e piccolo produttive antiche, dall’altro con la loro trasformazione in salariati, concentrati in mostruosi agglomerati urbani. Questo di solito ha comportato un certo progresso nelle loro miserrime condizioni di vita. Anche la classe lavoratrice in Occidente per breve parte di questo dopoguerra ha potuto trarre alcuni effimeri vantaggi dall’espansione universale del capitalismo. Oggi in tutti i continenti il capitale si trova davanti e deve affrontare una sconfinata classe operaia.

Dal 2008 il capitalismo mondiale è tornato a precipitare in una irrisolvibile crisi di sovrapproduzione e si dimostra incapace di continuare la sua espansione, che, mostruosamente, gli è necessaria per poter sopravvivere. Nella contesa per gli asfittici mercati e per sostenere il declinante saggio del profitto al capitale si impone la riduzione dei costi, in particolare quello della forza lavoro. Assistiamo quindi ad un generale attacco economico alla classe operaia, costretta a salari ridotti, orari e ritmi accresciuti, prolungamento della vita lavorativa, con una conseguente crescita della disoccupazione.

In questa guerra sociale, economica e politica, costantemente e quotidianamente combattuta fra le opposte classi, il proletariato si sta rendendo conto che non dispone di alcuna delle sue armi migliori: non ha un sindacato che lo organizzi, non ha un partito che lo diriga. Infatti, la generalità dei sindacati in tutti i paesi hanno ormai accettato e fatti propri i dogmi borghesi della produttività, della concorrenza fra aziende, della solidarietà nazionale; e i cosiddetti partiti operai vantano il loro patriottismo e la fedeltà alla democrazia, che è la maschera della dittatura del capitale. Nessuno proclama la difesa incondizionata della classe operaia, se non all’interno delle “compatibilità” del Capitale. La ripresa in grande della combattività e della forza operaia si manifesterà quindi nella rinascita di veri sindacati di classe e nella riscoperta del programma rivoluzionario, come formulato dal marxismo autentico di sinistra, e in un risorto unico Partito Comunista Mondiale che se ne faccia la vivente espressione.

 

DOMANI

La crisi economica mondiale di sovrapproduzione, che dopo sei anni non dà veri segni di soluzione, esaspera quella concorrenza, che l’euforia produttiva sembrava aver attenuato, fra i vecchi imperialismi, e fra i vecchi e i nuovi. Le manovre del gioco in borsa e della finanza tendono solo ad una ripartizione fra borghesi del plusvalore prodotto dai lavoratori, non possono quindi risolvere la crisi ma solo rimandarla, accrescendo il debito dei privati, delle banche e degli Stati, che però, prima o poi, viene ad esplodere in nuove e peggiori crisi finanziarie.

I regimi borghesi sanno che solo la guerra può permettere al loro modo di produzione di perpetuarsi per un altro ciclo storico con immani distruzioni di beni e di lavoratori. E alla guerra si preparano. Ne è una prova recente la contesa sul posizionamento del fronte militare Usa/Russia in Ucraina. Lo scontro in armi e armati sembra quindi riavvicinarsi alla vecchia Europa, culla insanguinata del capitalismo, della sua ideologia, delle sue rivoluzioni e delle sue prime forme statali, del colonialismo e dell’imperialismo; ma anche della classe operaia, della sua originalissima e folgorante dottrina marxista e delle sue prime, seppur non ancora definitive, vittorie.

La crisi è prima di tutto crisi dei borghesi, crisi del capitalismo come modo di produzione, che ha esaurito ogni suo portato storico progressivo ed ormai è solo un inutile peso sull’umanità lavoratrice, costretta ad uno sforzo accresciuto e ad una insicurezza crescente solo in ubbidienza alla folle religione del profitto.

La borghesia non rinuncerà mai ai suoi meschini privilegi senza esserne costretta dalla forza. Preferirà la guerra. Al proletariato mondiale accettare la sfida: guerra economica in difesa del salario, organizzato in veri sindacati di classe, contro la guerra economica per il profitto della classe borghese; guerra rivoluzionaria di classe contro la guerra fra gli Stati, inquadrato e diretto da un suo unitario e disciplinato partito comunista internazionale.

Noi non sappiamo quanto si potrà prolungare ancora l’agonia della bestia capitalista, ma abbiamo appreso anche dalle lezioni del secolo appena trascorso che gli organi della rivoluzione, Partito, seppure minoritario, e Sindacato, debbono prepararsi per tempo, ben prima del precipitare della crisi rivoluzionaria, per essere riconosciuti ed utilizzati dalla classe. Lavorare oggi, in piena perdurante controrivoluzione, alla formazione degli organi politico e difensivo della classe operaia è già Comunismo, è già Rivoluzione.

 

 

 

 

 


Ucraina: vieti nazionalismi per coprire un conflitto fra Imperi

L’Ucraina, per la sua strategica posizione di frontiera tra Europa e Russia, è stata da secoli preda ambita delle entità statali più forti che la circondano, determinate ad assicurarsene il controllo. Pur godendo di terre fertili, e oggi di importanti risorse minerarie e di una struttura industriale di rispetto, anche se in parte antiquata, si trova schiacciata dalla dipendenza energetica dall’estero e da un forte debito pubblico.

La crisi economica che da sei anni colpisce il capitalismo mondiale vi ha portato un abbassamento generale delle condizioni delle classi inferiori, il proletariato e gli strati piccolo borghesi, come in altri paesi con economia più debole: in Europa quelli del Sud, la Grecia, la Spagna, il Portogallo, e dell’Est, la Romania e l’Ungheria.

La classe lavoratrice vi soffre di un alto tasso di disoccupazione e di bassi salari. Ma, in mancanza di una prospettiva di classe, cioè senza l’indispensabile indirizzo del suo partito politico, il proletariato ucraino non riesce a reagire e resta schiacciato nell’abbraccio interclassista del popolo nel suo insieme. I lavoratori si lasciano inquadrare, come singoli cittadini, nel gregge elettorale illudendosi di imporre con la scheda la politica ai demagoghi del politicantismo, tutti foraggiati dal grande capitale, e l’adesione all’uno o all’altro degli schieramenti imperiali che si contendono il controllo del Paese.

Senza una prospettiva rivoluzionaria, privo anche dei suoi sindacati, legati alla cricca al potere, indebolito dalla disoccupazione dilagante e dalla crescente incertezza nel futuro, il proletariato ucraino non riesce ad opporsi alle bande mobilitate dai diversi partiti borghesi, da quelli fascisti di “Pravy Sektor”, Settore di Destra, a Patria di Yulia Tymoschenko, a quelli nazionalisti, “Svoboda”, nazional-comunisti e stalinisti. Una parte di esso cerca una illusoria “identità” nelle diverse Chiese che tradizionalmente si dividono le anime nella regione.

La questione della integrità territoriale dell’Ucraina, rivendicata dai partiti al governo a Kiev, non riguarda né il proletariato, che non vi ha nulla da guadagnare, né la rivoluzione comunista e non è da considerarsi progressiva, o meno reazionaria di una sua spartizione; dall’altro lato, è da reputare alla stessa stregua l’ottenuto “ricongiungimento” della Crimea alla madrepatria russa, voluto dai nazionalisti di “Unità russa”, al soldo di Mosca, o quello futuro delle regioni orientali del paese. Nello scontro tra i due imperialismi “globali” al proletariato non resta altro spazio che la sua autonoma battaglia, avversa ad entrambe le parti.

Fatto sta che il passaggio della Crimea alla Russia ha contribuito a gonfiare a dismisura il nazionalismo in tutta la regione, e a dividere lavoratori che da quasi un secolo vivevano gli uni accanto agli altri nelle stesse condizioni economiche e civili, rafforzando e suscitando nuove divisioni etniche e religiose e nascondendo quelle di classe.

Dividere la classe operaia è la necessaria condizione perché gli imperialismi possano scatenare una controrivoluzionaria guerra “etnica”, come è accaduto in Iugoslavia due decenni fa. Tale guerra internazionale dei capitalismi, e solo apparentemente “civile”, sarebbe un grave danno per il proletariato e per la rivoluzione non solo per il tributo di terrore, sangue e privazioni che sarebbe costretto a pagare, ma perché la guerra rappresenta per il capitale la sanzione della prona sottomissione proletaria alla sua dittatura.

Rispolverare oggi divisioni su basi etniche, religiose o nazionali all’interno dei confini dello Stato ucraino, a capitalismo sviluppato, con un forte proletariato, è solo un pretesto “irredentista” che cerca malamente di giustificarsi dietro il “diritto di autodeterminazione” di questa o quella minoranza nazionale. È solo borghese propaganda di guerra e il tentativo reazionario di spezzare in anticipo ogni possibilità di unione e riscossa proletaria. I nazional-comunisti, gli ortodossi moscoviti, gli stalinisti, i cosacchi che combattono per unirsi alla Grande Russia non sono migliori dei fascisti e dei nazisti che, insieme ai cosiddetti liberali e ai seguaci della Chiesa ortodossa ucraina, invocano l’unione con l’Europa e chiedono la protezione di Washington.

* * *

Nella guerra spietata fra gli Stati borghesi di nessun interesse sono le loro esteriori giustificazioni, se rientri o meno nel “diritto internazionale” il colpo di mano del Cremlino, che in pochi giorni è riuscito ad occupare militarmente la Crimea mettendo al sicuro la sua antica base navale di Sebastopoli; e nemmeno ci interessa più di tanto sapere se è Mosca che ha reagito al tentativo statunitense di spostare ancora più ad oriente i missili della Nato, o se sia stata la Nato a dover reagire a manovre russe tendenti ad occupare una parte o tutta l’Ucraina.

Le milizie filorusse del Donbass, rifiutando disciplina al nuovo regime a Kiev, hanno organizzato un referendum per sancire con la “volontà popolare” la richiesta di unione della regione, da loro ribattezzata Nuova Russia, con Mosca, sull’esempio della Crimea. Intendono così prevenire l’esito delle elezioni nazionali del prossimo 25 maggio, che sicuramente sanciranno la vittoria dei partiti filo-occidentali che governano a Kiev.

Il proletariato, che è particolarmente numeroso in quella regione perché è lì che si trovano miniere e fabbriche metallurgiche, pare acconsentire al suo “passaggio” alla Russia, non per “patriottismo” quanto perché, ritiene, gli procurerebbe se non salari migliori, una maggiore sicurezza sociale, pensioni più alte e così via.

* * *

In Ucraina la crisi è stata presentata come uno scontro tra chi nel paese ha interesse all’adesione all’Unione europea e chi vuole rafforzare la collaborazione con la Federazione russa. Ma in realtà le cause della crisi sono da ricercare al di fuori dei suoi confini.

Riguardo la Francia scrive Le Monde del 12 maggio: «Nonostante la crisi in Ucraina, la Francia non ha alcuna intenzione di sospendere la fornitura di due navi da guerra Mystral alla Russia, un contratto da 1,2 miliardi di dollari. La polemica era gonfiata dopo che la segretaria di Stato aggiunta americana per l’Europa aveva apertamente messo in guardia la Francia contro quella vendita alla Russia».

Riguardo invece la Germania scrive lo Spiegel on Line: «Il 22 maggio avrà luogo il St. Petersburg International Economic Forum; è certo che vi parteciperanno i dirigenti delle principali aziende tedesche–E.On, Metro, Basf, Daimler – nonostante le minacce degli Stati Uniti. Il leader del Cremlino vi terrà il discorso ufficiale, che i top manager tedeschi dovranno per forza applaudire vigorosamente».

I maggiori Stati capitalistici europei hanno legami molto forti con la Russia dove esportano merci in cambio di gas e petrolio; ma sono legati agli Stati Uniti in un’alleanza militare, la Nato, che per molti decenni li ha protetti.

Gli Stati Uniti premono in due direzioni: vogliono ridurre i legami economici tra Europa e Russia e legare di più l’Europa alla loro economia. Allo stesso tempo cercano di rafforzare la Nato e di darsi una catena di basi militari e rampe di lancio dei missili posizionate il più possibile ad oriente, appoggiandosi sui paesi dell’Est Europa tradizionalmente anti-russi, ed oggi manovrano per far aderire l’Ucraina alla Nato.

La Russia da parte sua vuole mantenere e aumentare l’interscambio con l’Europa e teme moltissimo lo spostamento della Nato ancora più ad Est, tant’è vero che era disposta a grossi investimenti finanziari in Ucraina pur di tenersela fedele.

Tutto questo in una fase di crisi economica che sta rendendo sempre più inevitabile un nuovo confronto militare interimperialistico su vasta scala.

Oggi i primi bagliori di guerra sembrano venire dal Mar della Cina, dove Pechino cerca di mettere in discussione gli equilibri, tutti favorevoli agli Stati Uniti, usciti dal secondo conflitto imperialistico mondiale, provocando forti attriti col Giappone, la Corea del Sud, il Viet Nam, le Filippine.

La Cina sulla questione ucraina è stata molto cauta, mentre riguardo alla Siria ha appoggiato la Russia nell’impedire un attacco militare americano.

Il partito comunista rivoluzionario non può disinteressarsi dei rapporti tra gli Stati imperialisti, di valutarne le forze e le politiche e di prevedere le conseguenze del loro conflitto, ma non ha da scegliere un fronte su cui schierarsi. Esso prepara il suo esercito e la sua guerra, la guerra rivoluzionaria internazionale contro tutti i fronti imperialisti così come fu fatto dalla Russia rivoluzionaria nei suoi primi anni di vita prima dell’imporsi della controrivoluzione stalinista.

 

 

 

 

 

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Una riuscita riunione generale del partito
25-26 gennaio 2014
[RG118]
  

Corso della crisi economica [ resoconto esteso ]

Economia marxista: storia dei modi di produzione
La questione militare: guerra russo-turca e guerre coloniali
Attività sindacale: L’accordo sulla “rappresentanza”
Fondamenti della questione nazionale
Origini del movimento operaio in Italia
Impostazione di uno studio sul movimento operaio in Venezuela
Concetto e pratica di dittaura rivoluzionaria prima di Marx
 
Seconda parte del resoconto - alla Prima parte
 

ALLE ORIGINI DEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA

Nel precedente rapporto abbiamo trattato della nascita e dello sviluppo del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, della sua partecipazione alle elezioni del 1882 (a seguito dell’allargamento del suffragio), dell’entrata dei primi socialisti nel parlamento borghese e dell’azione di vero parlamentarismo rivoluzionario condotta soprattutto da Andrea Costa.

Ci siamo soffermati sui sistemi repressivi, instaurati dai governi a guida di sinistra, nei confronti di qualsiasi organizzazione proletaria: arresti indiscriminati, sequestro e soppressione di giornali, violenta repressione di ogni forma di manifestazione, etc. Infine concludevamo parlando della nascita, in Lombardia, del secondo partito proletario: il Partito Operaio Italiano.

Facciamo ora un passo indietro per parlare dell’organizzazione del proletariato delle campagne.

Con il 1883-84, accentuandosi un fermento iniziato già da tempo, le masse contadine della Valle Padana, spinte dalla secolare miseria e dall’aggravarsi della situazione di senza riserve, entrarono in azione con grandi scioperi che avranno poi la loro influenza anche sullo sviluppo del movimento operaio e socialista in Italia. Oramai un proletariato agricolo di massa si era formato, era cosciente della propria forza e della necessità di imboccare la via della lotta di classe ad oltranza.

Il movimento ebbe il suo epicentro nella bassa Lombardia, si allargò verso il Vercellese, la Lodigiana da una parte e il Polesine, il Ferrarese e le Romagne dall’altra.

I primi scioperi di massa scoppiarono nel marzo del 1882, diffondendosi in tutto il Mantovano e fin nelle provincie di Cremona, Parma, Piacenza, Brescia. Si chiedeva che i salari, i quali andavano da un minimo di 0,60 ad un massimo di 1,50 lire, con orari di 12-14 ore al giorno, fossero portati a 2,50 lire: migliaia di contadini dimostravano al grido di «Pane e lavoro». L’offerta di 1,80 fatta dai proprietari fu respinta. Entrarono in funzione allora due compagnie di soldati e lo sciopero venne stroncato dalla violenza e dalla fame: numerosi furono gli arresti con condanne fino a tre mesi di carcere.

Nel 1883 a Ravenna un gruppo di braccianti costituì l’Associazione Generale Operai e Braccianti di Ravenna, prima cooperativa di lavoro d’Italia. Sempre nel 1883 scioperarono le mondine di Molinella: fu il loro primo sciopero e la loro prima vittoria, anche se come risultato ebbe solo un lieve aumento di salario. Scioperi parziali e tumulti continuavano, mentre il lavoro organizzativo procedeva. Nel 1884 sorsero due grandi associazioni che raggruppavano migliaia di contadini: l’una, diffusa intorno a Mantova e nell’Oltrepò, prese il nome di Società di Mutuo Soccorso fra i Contadini della Provincia di Mantova e aveva a suo organo “La Libera Parola”; l’altra, diffusa specialmente nella plaga che confina col Cremonese, si intitolò Associazione Generale dei Lavoratori Italiani, costituita dalle Società contadine di 24 comuni e con organo “La Favilla”. Il movimento scoppiò impetuoso con al grido di «La boje».

Le associazioni chiedevano un salario giornaliero da 2,50 a 3 lire. I proprietari sotto l’incubo di un’imminente sollevazione diffusero notizie tendenziose, facendo circolare false voci di incendi di vigneti, taglio dei garretti ai buoi, di assalti e devastazioni alle proprietà. Queste voci servirono da pretesto alla repressione poliziesca che effettuò 168 arresti, fra i quali tutti i dirigenti del movimento; nel frattempo giungevano forti contingenti di fanteria, bersaglieri e carabinieri: sotto la protezione delle baionette regie i proprietari, riunitisi, imposero la tariffa di lire 1,30.

Se è vero che il processo, celebrato a Venezia, terminò con una clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, è altrettanto vero che fu fatto solo dopo un anno di carcere preventivo. Le conseguenze immediate dell’agitazione furono dure e più dura fu la fame; ma era nata una grande forza; si era formata una coscienza di classe del proletariato agricolo di massa.

Fu in onore all’eroico movimento contadino che il Partito Operaio tenne a Mantova, nel dicembre 1885, il suo secondo Congresso. E, sempre a Mantova, nell’aprile successivo, il Partito Socialista Rivoluzionario teneva il quarto congresso

Nel maggio 1886 ebbero luogo le elezioni politiche.

Nelle Romagne si rinnovò, come nell’82, l’alleanza fra la sinistra democratica ed i socialisti. Ravenna non solo rielesse Andrea Costa, ma anche il condannato Amilcare Cipriani (elezione che venne ancora una volta invalidata). In Lombardia il Partito Operaio si presentò con candidati propri in 14 collegi, realizzando vistose affermazioni in otto collegi della Lombardia (5.451 voti nella sola Milano e 3.359 a Cremona) e in cinque collegi del Piemonte; un buon risultato venne conseguito anche a Napoli dove raccolse oltre 2.000 voti.

La posizione di assoluta indipendenza assunta dal Partito Operaio fece andare in bestia la democrazia radicale che imbastì una feroce campagna diffamatoria fino ad accusarlo di essere strumento della questura. Una violenta polemica si aprì tra radicali ed operaisti; Costantino Lazzari dalle colonne del “Fascio Operaio”, in una serie di articoli intitolati “La Democrazia vile” denunciò gli sleali metodi di lotta adottati dai radicali. Felice Cavallotti, il campione della democrazia radicale e dell’onestà borghese, pur sapendo quanto false fossero le accuse da lui mosse arrivò addirittura a presentare una interpellanza alla Camera insinuando l’accusa di connivenza tra il governo ed il Partito Operaio.

A fugare ogni possibilità di sospetto ci pensò il governo stesso; all’alba del 23 giugno Costantino Lazzari ricevette la visita della polizia che, dopo la perquisizione nell’unica stanzetta che gli serviva da cucina, camera da letto, studio, tipografia, gli notificò il decreto di scioglimento del Partito dichiarandolo in arresto come appartenente ad una associazione di malfattori diretta contro i poteri dello Stato, mirante alla guerra civile, alla strage ed al saccheggio. I dirigenti del partito ed i redattori del “Fascio Operaio” vennero arrestati e dopo 80 giorni di carcere preventivo, condannati a pene dai 3 ai 6 mesi di reclusione, salvo il Casati che ne ebbe 18.

L’episodio servì a far perdere ad Andrea Costa ogni illusione di poter fare un tratto di strada assieme alla democrazia radicale per la conquista di libertà democratiche di comune interesse. Questa sua disillusione la espresse chiaramente nell’intervento parlamentare del 2 luglio affermando: «È doloroso, lo riconosco, in quanto io penso che democrazia e operai abbiano un lungo cammino ancora da percorrere insieme, prima che fatalmente si combattano. Ma [...] per quanto doloroso possa essere questo distacco, esso è peraltro un fatto storico inevitabile, importantissimo”.

Questa vicenda, per quanto marginale, assume un valore sintomatico: le varie frazioni e fazioni borghesi si combattono fra loro, ma nei confronti del proletariato, riconoscendo che esso non è un avversario qualunque ma la negazione del regime capitalista, fanno fronte unico: lo Stato adottando gli strumenti della violenza repressiva, la democrazia radicale e progressista quelli della diffamazione e della calunnia.

Una delle conseguenze di questa campagna antioperaia fu l’uscita di Filippo Turati e di un gruppo di intellettuali dall’Associazione Democratica, che aveva parteggiato per Cavallotti.

Nello stesso periodo aveva inizio la politica coloniale del governo italiano; il 17 gennaio 1885 un modestissimo corpo di spedizione salpava da Napoli per «andare a trovare nel Mar Rosso le chiavi del Mediterraneo» come disse il ministro degli esteri; e il 5 febbraio i soldati italiani sbarcavano a Massaua. Si trattava di un contingente di appena 1.500 uomini (4 compagnie di bersaglieri, una batteria da campagna di 6 pezzi, un drappello di zappatori del genio e telegrafisti). I soldati alla partenza furono salutati con il seguente indirizzo: «Soldati, l’Italia vi affida l’onore della sua prima spedizione in Africa, e voi e i vostri Mille, emuli di quelli di Marsala, dimostrate a quei barbari che l’Italia è veramente civile, all’Europa che è potente, al mondo che è grande». I soldati italiani però non si trovarono di fronte gli annunciati «quattro predoni», ma diecimila guerrieri e da questi, a Dogali, il 25 gennaio 1887, furono massacrati.

Alla Camera, il piccolo nucleo dell’estrema sinistra, di cui Andrea Costa era indiscutibilmente l’elemento più combattivo, si era vivacemente opposto alla politica coloniale fin da quando, nel maggio 1885, era venuta per la prima volta in discussione. Da parte di Andrea Costa fu espressa la più decisa avversione dei socialisti e dei proletari italiani nei confronti di ogni intervento in Africa e più volte fu domandato il richiamo delle truppe. La parola d’ordine lanciata da Costa fu: «Né un uomo né un soldo!».

All’indomani del disastro di Dogali, invano l’estrema sinistra lottò per impedire l’invio di rinforzi. «Cessate – diceva Andrea Costa – da questa impresa pazza, e criminosa».

Il 29 luglio moriva Depretis. La borghesia vedeva con terrore il consolidarsi e l’espandersi del movimento operaio, il moltiplicarsi delle leghe e l’aumento delle agitazioni e degli scioperi, quindi volle manifestare apertamente la sua forza di classe, mise a capo del governo un uomo “autoritario”, che non “piegasse”, non “cedesse”. Quest’uomo fu trovato in Crispi. La politica di Crispi nei confronti della classe operaia venne così riassunta da un suo biografo: «Fedele al suo dovere di tutore dell’ordine, di difensore delle istituzioni, Crispi non aveva debolezze verso i partiti sovversivi; l’idea che ha sedotto altri ministri della monarchia, di dominarli, di neutralizzarli con le condiscendenze non entrò mai nella mente di lui».


CONCETTO E PRATICA DI DITTATURA RIVOLUZIONARIA PRIMA DI MARX

Il concetto di dittatura rivoluzionaria nasce con la rivoluzione francese, dove la teoria resta ancora in embrione, con alcune vette rappresentate da Babeuf e Filippo Buonarroti, mentre la pratica è sicuramente più avanzata, data la necessità di difendere la rivoluzione dai nemici interni ed esterni.

Nell’illuminismo settecentesco troviamo poco o nulla riguardo a tale concezione, e ciò è ovvio data la struttura sociale del tempo, in Francia molto avanzata rispetto alla maggior parte dei paesi europei, ma non paragonabile a quella dell’Inghilterra, che stava vedendo la nascita del capitalismo.

L’illuminismo, termine in sé vago dato che comprende posizioni tra loro molto diverse, è comunque e sicuramente la preparazione ideologica alla rivoluzione francese, che avviene per necessità come tutte le rivoluzioni, e trova la propria ideologia nell’illuminismo e in particolare in Rousseau, spesso inconsapevolmente modificato, divenuto l’arma teorica dei rivoluzionari.

Che i giacobini fossero grandi ammiratori di Rousseau è risaputo, ma anche l’influenza di altri, in particolare di Diderot, non è meno importante.

Riguardo la concezione del diritto di ribellione verso il potere, già Agostino di Ippona nelle “Confessioni” parla di un principio pattizio a cui anche il monarca si deve attenere, e di un diritto del popolo a ribellarsi nel caso contrario.

Il giurista tedesco Manegold di Lautenbach nell’XI secolo parla di un patto tra re e popolo vincolante per entrambe le parti. L’autorità imperiale è quindi una funzione affidata dal popolo al sovrano, e il giuramento di fedeltà è nullo quando il sovrano viene meno ai patti. Il fatto che ciò servisse a giustificare l’azione del Papa contro Enrico IV, in questo momento non ci interessa.

Anche Tommaso D’Aquino il secolo successivo, nel “De regimine principum”, scrive che il popolo ha il diritto di destituire il tiranno che non rispetta i patti e la sua funzione.

Calvino, esponente di primo piano della Riforma protestante nel XVI secolo, realizza a Ginevra un governo teocratico e teorizza l’ossequio all’autorità costituita. I calvinisti francesi, dovendo lottare duramente contro i sovrani cattolici, arrivarono a teorizzare il diritto di resistenza armata.

Il teologo ginevrino Teodoro di Beza nel “De iure magistratuum in subditos”, del 1574, riafferma il principio della sovranità popolare, del contratto di governo, e del diritto di una minoranza oppressa a ribellarsi ai tiranni.

In uno dei vari libelli ugonotti, come venivano chiamati i protestanti francesi, le “Vindiciae contra Tyrannos” del 1579 scritto da Philippe Duplessis-Mornay, troviamo ancora il principio contrattualistico, ispirato come sempre agli esempi biblici, e quindi i limiti al potere del re, il diritto di resistenza e di uccidere il tiranno. Per questo furono chiamati monarcomachi.

Questi principi penetrarono tra i puritani inglesi e nella rivoluzione inglese del 1640. Il giurista John Selden scriveva nel 1640: «Per sapere quale obbedienza si deve al principe, guardate al contratto tra lui e il popolo (...) Quando il contratto è infranto, e non v’è più un arbitro che giudichi, la decisione spetta alle armi».

Nell’illuminismo francese, e non solo, troviamo tesi di grande interesse su materialismo, ateismo e comunismo.

In Morelly, Mably, Rousseau è una critica feroce alla proprietà privata, vista come origine di tutti i mali, anche se poi l’esito politico di tale riflessione sfocia nel dispotismo illuminato, cioè nella speranza in un sovrano che realizzi le nuove idee.

Va detto che fino agli anni ’60 del XVIII secolo non era visibile alcuna prospettiva di cambiamento, e i limiti degli illuministi e degli utopisti erano quelli della società in cui vivevano. La loro grandezza sta nell’essersi posti il problema, in una società sempre meno feudale, sempre più mercantile, con un potere che si andava sempre più centralizzando con l’assolutismo regio e con i suoi intendenti.

Scrive Engels nell’”Antiduhring”: «Gli utopisti furono obbligati a costruire gli elementi di una nuova società traendoli dal proprio cervello, perché nella vecchia società questi elementi in genere non erano chiaramente visibili. Per i tratti fondamentali del loro nuovo edificio furono ridotti a fare appello alla ragione, precisamente perché non potevano ancora fare appello alla storia del loro tempo».

Forse il primo accenno, pure molto vago, a qualcosa di riconducibile al concetto di dittatura rivoluzionaria è in Morelly. Nella seconda parte della sua opera più famosa, il “Codice della natura”, leggiamo: «Se non c’è situazione in cui l’uomo sia sempre disposto a cedere ai consigli e alle rimostranze più ragionevoli, la nostra ipotesi non esclude affatto che un’autorità severa vinca queste prime avversioni, obbligandolo in un primo tempo a doveri che la pratica renderà agevoli e che l’evidenza della loro utilità farà in seguito prediligere».

 

 

 

 

 


Anche la merce forza lavoro deve concedersi just in time
Sintesi dei sistemi di organizzazione dello sfruttamento nelle fabbriche

Il fatto più evidente di questa generale crisi sono i continui licenziamenti e la precarietà del posto di lavoro, accettati dai lavoratori quasi con rassegnazione, un accidente nefasto, ma momentaneo, come dicono i saccenti esperti borghesi “una congiuntura negativa”. Ma così non è.

Il sistema produttivo capitalistico dedica un costante e minuzioso impegno a organizzare la produzione allo scopo di aumentare i suoi profitti, riducendo le voci di spesa, compresa, ovviamente, quella dei salari. Le crisi economiche che periodicamente si trova ad affrontare gli impongono sempre nuovi perfezionamenti allo scopo di frenare la caduta tendenziale del saggio del profitto, il cancro che lo rode dall’interno stesso del suo modo di produzione.

Per meglio comprendere l’oggi dobbiamo tornare indietro nel tempo e ricollegarci all’altro ieri. Marx, studiando gli effetti prodotti dalla prima rivoluzione industriale nata in Inghilterra e lì sviluppatasi con rapidità e intensità, dedica diversi capitoli del Primo Libro del Capitale ad analizzare con forza e lucidità l’organizzazione del sistema produttivo capitalistico, il suo significato e la sua ricaduta sulla gran massa di lavoratori, che chiamò “esercito industriale”.

Le crisi di sovrapproduzione avvengono quando l’offerta delle merci prodotte non è compensata da un’adeguata domanda in grado di pagare, e si inceppa il ciclo produttivo capitalistico D-M-D’ – cioè il denaro investito nel processo produttivo D si trasforma in merci M che rivendute daranno una massa di denaro maggiore D’.

Quando le crisi di sovrapproduzione perdurano nel tempo la massa dei capitali disponibili non riesce ad investirsi nella produzione delle merci ad un pur minimo saggio di profitto. L’enorme massa di capitale nella sua inoperosità velocemente deperisce. La sovrapproduzione è solo relativa: «Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione (...) Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico (...) Sovrapproduzione di capitale non è altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e di sussistenza – che possono operare come capitale, ossia essere impiegati allo sfruttamento degli operai ad un grado determinato, poiché la diminuzione del grado di sfruttamento al di sotto di un livello determinato provoca delle perturbazioni e delle paralisi nel processo capitalistico di produzione, crisi, distruzioni di capitale» (Il Capitale, Libro III, Cap. XV).

Storicamente queste crisi, osserva Marx, si ripresentavano periodicamente in un arco temporale di circa 7-10 anni.

Non tutte sono uguali per intensità e durata. Quella del 1873 fu una crisi di sovrapproduzione di enorme portata e produsse una costante caduta dei prezzi per due decenni, fu la base economica che generò la cosiddetta seconda rivoluzione industriale, partita questa volta dagli Stati Uniti, che produsse profondi cambiamenti nel sistema produttivo tendenti a ridurre in modo significativo i prezzi delle merci per favorire il cosiddetto “consumo di massa”.

Nella prima rivoluzione industriale la forza motrice delle macchine era affidata alla macchina a vapore, prodotto dalla combustione di legna e carbone, nella seconda al motore a scoppio e l’utilizzo sempre più esteso dell’elettricità; il petrolio diventa la nuova fonte energetica e la chimica industriale mette a disposizione nuovi materiali. Tutte le scienze applicate permettono moltissime nuove invenzioni.

Di conseguenza si modifica la fabbrica sia nel senso fisico sia in quello organizzativo e delle condizioni di lavoro.

In ambito capitalista furono elaborate delle descrizioni del nuovo sistema produttivo che si presentava radicalmente diverso rispetto al precedente per la quantità e la qualità delle merci prodotte, per la diffusione territoriale nelle aree più sviluppate del pianeta e per le masse umane impiegate. Tra le tante fu presa in maggior considerazione quella dell’ingegnere americano F.W. Taylor che nel 1911 raccolse ne “L’organizzazione scientifica del lavoro”.

In sostanza Taylor – da cui poi si parlò di taylorismo – sulla base della sua esperienza come responsabile della produzione in aziende meccaniche, suggeriva di organizzare il modello produttivo analizzando con la massima precisione possibile ogni minima fase produttiva per tempi e metodi esecutivi. Lo scopo era di ottenere il massimo della produzione eliminando tutti i perditempo, i cosiddetti tempi morti, che si possono insinuare in una non accurata organizzazione del processo produttivo, e tutti gli sprechi di energia. Per ridurre al minimo indispensabile i movimenti degli operai elaborò il sistema detto “assembly-line”, giustamente tradotto in italiano in “catena di montaggio” (oggi pudicamente si preferisce dire “linea di montaggio”). L’insieme della produzione era diviso in piccole unità di operazioni semplici e ripetibili, eliminando per ognuna di esse ogni spreco di tempo e di energia. Gli operai quindi compiono sempre solo determinati movimenti e operazioni per tutta la durata della giornata lavorativa. Questi poi erano selezionati, addestrati e destinati alle varie mansioni dagli addetti alle “risorse umane”, come oggi si dice, dopo aver eseguito queste tre analisi: 1) analizzare la mansione da svolgere, 2) individuare il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione, 3) selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo nell’azienda.

I due punti cardine della sua teoria erano: 1) il principio dell’one best way (l’unico miglior modo possibile), ovvero per ogni problema tecnico o organizzativo esiste solo una soluzione, la migliore, e non una serie di alternative che possano distrarre l’operaio dalle funzioni assegnate; 2) il principio dell’”operaio bue”, ovvero il lavoratore deve eseguire esclusivamente la mansione ordinata senza nemmeno chiedersene il motivo, rispettando rigidamente regole e tempi previsti senza ritardarli o anticiparli. In questa logica l’operaio pigro e quello zelante sono egualmente sanzionabili perché non rispettano i tempi della predisposta organizzazione scientifica del lavoro. Il lavoro dell’operaio perde ogni residuo legame con quello dell’artigianato e diventa totalmente ripetitivo e meccanico.

Nella neonata “sociologia” industriale borghese avrebbe solo da qui origine la ”alienazione operaia”, intesa come ricaduta delle negatività di quel modo di lavorare, in particolare per il suo negato intervento e apporto di esperienza e creatività nel lavoro. Si parlò poi di “uomo-macchina”. Tutta una realtà che Marx aveva molto più approfonditamente descritto già da un secolo.

Quel complesso sistema di organizzazione industriale, con le necessarie e continue messe a punto, si rivelò molto efficace, ma aveva un punto debole: l’interruzione o anche la semplice fermata temporanea di un punto della catena, per guasto o indisponibilità di un operaio, bloccava l’intero processo. Normalmente è presente un esiguo numero di operai di riserva da assegnare momentaneamente alle assenze, ma nel caso di scioperi anche modesti si può verificare l’arresto di tutto il sistema.

Nel sistema americano di rapporti sindacali vi erano due situazioni: Il “closed shop” consentiva a un’azienda di impiegare esclusivamente gli iscritti a un determinato sindacato, il quale poteva anche assumere limitati compiti di co-gestione nell’azienda. I lavoratori, dal canto loro, erano obbligati a mantenere l’iscrizione a quel sindacato finché rimanevano in quella azienda. Ogni conflitto tra capitale e lavoro era regolato esclusivamente da quel sindacato. Fu nel 1947 dichiarato illegale con la “Taft-Hartley-Act” perché discriminatorio e lesivo della tanto osannata libertà individuale in America, implicando il monopolio della offerta della forza lavoro da parte sindacale. L’altra situazione era lo ”open shop”, dove i dipendenti non erano costretti ad iscriversi ad alcun sindacato il quale non aveva alcun “potere in fabbrica”. Fu poi adottata questa soluzione.

Altro punto debole della produzione alla catena era necessario che per impedire il blocco delle attività era necessario mantenere adeguate scorte di materie prime e semilavorati da immettere al momento giusto nelle varie fasi lavorative e di capienti magazzini dove custodire i prodotti finiti in attesa della vendita. Necessitavano quindi adeguati capitali per piazzali, magazzini e lavoratori a questi dedicati, e tutto ciò rappresentava un costo che si scaricava sul prezzo finale dei prodotti. Un mercato in continua espansione era però in grado di attenuare sensibilmente questi problemi che si presentavano solo nei momenti di sovrapproduzione.

L’industriale automobilistico Henry Ford intuì tra i primi i vantaggi di questo sistema, che applicò nella fabbrica di Higland Park, allora un sobborgo di Detroit, progettata e costruita per contenere il nuovo sistema di produzione. Questa iniziò nel 1913 con la produzione della “Ford T nera”, divenuta poi famosa e simbolo di quella fase; con il sistema della catena il tempo per montare un’automobile scendeva da venti ore a esattamente 93 minuti. La produzione era organizzata disponendo le macchine funzionalmente, cioè nella sequenza richiesta per la fabbricazione del prodotto. La costruzione della vettura iniziava nei piani bassi della fabbrica per salire poi ai piani superiori con le varie catene collegate da nastri trasportatori. Ovviamente il solletico delle odierne “personalizzazioni” ancora non esisteva: Ford diceva che nella sua fabbrica si costruivano macchine di ogni colore purché fossero nere!

Questo comportò una drastica diminuzione dei costi rendendo la vetturetta, e poi tutte le merci prodotte in quel modo, accessibili da un mercato più vasto. Le prime costavano 850 dollari dell’epoca, contro i 2.000-3.000 dollari delle concorrenti; le ultime meno di 300 dollari.

In quei particolari e del tutto eccezionali anni di euforia, in America si era affermata una scuola di economia secondo cui ricchezza e profitto possono avvantaggiarsi di alti salari, che permettano ai lavoratori di acquistare i beni che hanno prodotto. Henry Ford, applicando questo principio, nel 1914 portò la paga dei suoi dipendenti a ben 5 dollari al giorno, circa il doppio del settore, arrivando presto ad 8 dollari, pur lavorando un’ora in meno della media. Per molto tempo i dipendenti della Ford furono i meglio pagati al mondo, tanto che con 4-5 mesi di salario potevano comperarsi una macchina della loro fabbrica. Anche in questo modo si “comprava” l’adesione del lavoratore al sistema di fabbrica e i lunghi contratti, quando non a tempo indeterminato, diventarono anche una garanzia per gli industriali che disponevano di una forza lavoro stabile, ben selezionata e addestrata. Si credeva infatti che lo spettro della crisi fosse stato allontanato per sempre.

(Fine al prossimo numero)

 
     


Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo


In Sudafrica continua la lotta dei minatori contro governo padroni e sindacati di regime


Nel silenzio della stampa borghese è in corso in Sudafrica il più lungo sciopero nella storia della classe operaia in quel paese. Ottantamila minatori sono scesi in lotta nella cintura del platino, un’area che si estende dalla provincia di Nord-Ovest, dove operano le tre maggiori compagnie mondiali – la Anglo American Platinum, l’Impala Platinum e la Lonmin, che in Sud Africa estraggono l’80% del platino di tutto il mondo – alla provincia di Limpopo, dove opera la Northam, altra compagnia mineraria, nei pressi della omonima città.

Lo sciopero è iniziato il 23 gennaio e continua senza interruzioni da quasi quattro mesi. La mobilitazione è diretta ed organizzata dalla AMCU, la Association of Mineworkers and Costruction Union, il sindacato nato nel 1998 da una scissione dal NUM, la National Union of Mineworkers, federazione affiliata al COSATU, la storica confederazione sindacale sudafricana.

Con la fine dell’apartheid, il COSATU, conseguentemente al suo indirizzo politico riformista che persegue l’intento, impossibile, di conciliare le esigenze del Capitale coi bisogni della classe lavoratrice, è divenuto uno dei pilastri del capitalismo, garantendo la moderazione delle rivendicazioni operaie. Un sindacato di regime come la Cgil in Italia.

Il Sudafrica è un grande paese modernamente agricolo ed industriale che da solo produce un terzo della ricchezza del continente. Nelle miniere impiega 500.000 lavoratori diretti, cui se ne aggiungono altrettanti indiretti. Per questa loro alta concentrazione, e per le durissime condizioni di lavoro, i minatori sono la categoria operaia più combattiva del paese. Per questo sono stati i primi a riconoscere la natura filo-borghese del NUM e di tutto il COSATU.

Nel 2009 il presidente del NUM, Piet Matosa, intervenuto alla Impala Platinum Holdings Ltd., la più grande miniera di platino al mondo, nel tentativo di fermare uno sciopero fu cacciato con lanci di pietre. A maggio 2011, nella miniera di Karee, i minatori scioperarono, non contro l’azienda, ma contro la direzione regionale del NUM che aveva sospeso i capi del sindacato in miniera. La AMCU divenne così il primo sindacato in quella miniera. A gennaio 2012, 4.300 trivellatori scioperarono alla Impala Platinum contro un accordo firmato dal NUM, che prevedeva un aumento salariale solo per i livelli più alti. I trivellatori chiedevano un aumento che portasse il salario netto a 9.000 Rand. Il NUM li accusò di impedire agli altri di andare a lavorare.

La lotta che ha segnato la svolta decisiva nei rapporti fra i proletari nelle miniere di platino, il NUM e l’AMCU è stata quella dell’agosto successivo. I trivellatori della miniera della Lonmin di Marikana scesero in sciopero rivendicando un salario base di 12.500 Rand. Il NUM, che insieme alle compagnie minerarie definì la rivendicazione “insostenibile”, fece aperta opera di crumiraggio e negli scontri fra i suoi uomini e gli scioperanti già nei primi tre giorni di sciopero si contarono dieci vittime. Il sesto giorno di sciopero, il 16 agosto, la polizia aprì il fuoco con le mitragliatrici uccidendo 34 lavoratori. Una strage che dimostra la continuità borghese del regime post-apartheid con quello precedente: un Governo nero con una polizia nera che reprime le masse operaie nere. La differenza è che il democratico Sudafrica non può più nascondere l’oppressione di classe sotto la specie della discriminazione razziale.

Nonostante quello che da allora è ricordato come il “massacro di Marikana” lo sciopero è proseguito per altre quattro settimane, estendendosi ad altre miniere, e non solo di platino. Il 18 settembre i minatori della Lonmin di Marikana accettavano un aumento del 22% che portava il salario intorno ai 5.500 Rand (485 USD). Questo risultato, per altro sarà concesso dalla compagnia solo parzialmente, era lontano da quanto rivendicato, ma il coraggio e la determinazione dimostrati dai minatori erano stati tali che non sarebbero andati dispersi per la parzialità del risultato. Come spiega il Manifesto del Partito Comunista del 1848, il risultato maggiore della lotta non è quello economico contingente ma la rafforzata unione ed organizzazione dei proletari.

Per il NUM invece è stata la fine nelle miniere di platino. L’AMCU è divenuto il primo sindacato nelle miniere della Amplats (60%), della Impala e della Lonmin (66%).

Il 2013, dagli scioperi di maggio alla Lonmin e di settembre alla Amplats, entrambi guidati dall’AMCU, è stato segnato da uno stillicidio di vittime nell’area di Marikana nello scontro fra membri del NUM e quelli dell’AMCU.

Il 23 gennaio, un anno e quattro mesi dopo il massacro di Marikana, i minatori sono scesi in sciopero per lo stesso obiettivo di allora: un salario base di 12.500 Rand. Le compagnie minerarie, che inizialmente hanno accettato di dialogare con l’AMCU, verificata la fermezza di questo sindacato nel rigettare le loro ridicole offerte, hanno chiuso ogni trattativa. Il 29 aprile, migliaia di minatori, riuniti nel Wonderkop Stadium di Marikana dall’AMCU, hanno rigettato l’ultima offerta delle compagnie.

Il NUM e tutto il COSATU si sono apertamente schierati contro lo sciopero e organizzano il crumiraggio. Il Primo Maggio, alla manifestazione del COSATU nell’Olympia Park Stadium di Rustemberg, 30 chilometri a est di Marikana, il presidente del NUM ha dichiarato: «Ci appelliamo a tutti i lavoratori affinché tornino al lavoro; questo sciopero è contro l’economia del nostro paese».

Come abbiamo scritto più volte in questi ultimi anni è tutta la classe lavoratrice in Sudafrica a essere in movimento. La crescita degli scioperi, guidata dai minatori del platino, con la crisi del NUM nel settore, si è riflessa all’interno del COSATU. A dicembre il NUMSA, la National Union of Metalworkers of South Africa, sua principale federazione, nonché primo sindacato del paese con 330.000 iscritti, metalmeccanici e di altre categorie, ha preso posizione contro l’attuale dirigenza del COSATU, accusandola di condurre un’azione filo-padronale, chiedendo un congresso straordinario e dichiarando che alle elezioni generali del 7 maggio per eleggere l’assemblea nazionale non avrebbe più appoggiato, come fatto invece sinora, l’African National Congress (ANC), che dal 1994, con la fine dell’apartheid, è il principale partito del governo borghese. La dirigenza del COSATU ha attaccato quella del NUMSA accusandola fra l’altro, di finanziare l’AMCU e di lavorare con questo sindacato alla distruzione del NUM.

Il borghese governo sudafricano si regge su una triplice alleanza formata dall’ANC, dal COSATU e dal South African Communist Party (SAPC), stalinista e che col comunismo non ha nulla che fare.

L’AMCU è accusata di essere un’organizzazione sindacale “anti-comunista”, per la sua ostilità ai partiti di governo, fra cui appunto il SACP. La dirigenza dell’AMCU definisce il sindacato “apolitico”, ma di fatto sta guidando il più grande lungo sciopero nella storia del paese. Ciò non significa che l’AMCU abbia una direzione comunista. Alla radicalità della lotta che dirige la dirigenza dell’AMCU contrappone dichiarazioni di rispetto verso l’economia nazionale, la legge e l’ordinamento politico democratico, cioè borghese. Questi principi vanno contro l’effettiva azione pratica del sindacato: anche se il suo presidente Mathunjwa, replicando alle accuse degli avversari, cerca di negarlo, lo sciopero danneggia l’economia nazionale, cioè il capitalismo, nazionale ed internazionale. Inoltre non può essere condotto, per essere vincente, che con mezzi anche extra-legali, intimidatori e violenti, per spezzare il crumiraggio organizzato dal NUM e dalle aziende e respingere la repressione delle forze armate statali, mirate a spezzare lo sciopero. Presto o tardi, se non saranno rigettati i principi borghesi – la legalità democratica, la difesa dell’economia nazionale, il pacifismo sociale – per abbracciare quelli comunisti, coerenti con la realtà e conseguenti con gli interessi del proletariato, sarà l’azione sindacale dell’AMCU a piegarsi ad essi, seguendo il sentiero già percorso da tanti sindacati, in Sudafrica come in tutto il mondo, guidati dalle correnti politiche riformiste.

La lotta sindacale, condotta in modo coerente e conseguente, conduce alla mobilitazione sempre più estesa ed unitaria della classe lavoratrice, inevitabilmente colpendo duramente l’economia capitalista e conducendo allo scontro fra la classe salariata e la macchina che gestisce gli interessi complessivi della classe dominante, lo Stato capitalista. Da lotta economica diviene lotta politica, portando i lavoratori, partiti inizialmente dalle loro esigenze economiche immediate, ad affrontare la questione della rivoluzione, cioè della conquista del potere. Se, dichiarando il sindacato apolitico, si vuole evitare questo esito obbligato della lotta di classe, si agisce nulla più che in senso politico borghese, ossia in favore della conservazione del capitalismo, e lo si fa ponendo un freno all’estensione e all’unificazione degli scioperi e della classe proletaria.

Gli 80.000 minatori in sciopero da gennaio sino ad oggi sono stati lasciati isolati dal resto della classe operaia. Il NUM e tutto il COSATU hanno lavorato in tal senso. La condotta del NUMSA è ambigua: nella raffineria e nella fonderia della miniera della Anglo American Platinum (Amplats), dove gli operai non erano ancora entrati in sciopero al fianco dei minatori, il 2 febbraio ha iniziato uno sciopero di 1.800 lavoratori, non impugnando però la rivendicazione dell’AMCU di un salario base di 12.500 Rand ma richiedendo un aumento inferiore. Il 17 marzo ha indetto uno sciopero generale della categoria ma per rivendicazioni ancora estranee a quella dei minatori in lotta. Tre giorni dopo, il 20 marzo, il NUMSA si è accordato per un aumento salariale nella raffineria e nella fonderia della Amplats fermando lo sciopero. Nei primi di aprile in un comunicato dichiarava che a causa della lunghezza dello sciopero un numero imprecisato di minatori stava abbandonando l’ACMU per iscriversi non al NUM ma al NUMSA.

Solo un piccolo sindacato che inquadra principalmente braccianti, il CSAAWU (Commercial, Stevedoring, Agricultural and Allied Workers Union), ha preso apertamente le parti dei minatori in sciopero, raccogliendo fondi per sostenerli, ma non sembra avere la forza per estendere lo sciopero nella categoria dei suoi organizzati.

L’AMCU maggioritaria nelle miniere di platino, è minoritaria in quelle d’oro e di carbone, dove il NUM conserva la posizione di forza. A gennaio uno sciopero pianificato nelle miniere d’oro Anglo Gold Ashanti, Harmony e Sibanye è stato fermato dalla Corte del Lavoro. L’AMCU non sembra quindi avere la forza per violare l’ordine del Tribunale in queste miniere e lanciare uno sciopero non protetto, come quello nella cintura del platino.

Lo sciopero sembra giunto, mentre scriviamo, a uno svolto cruciale. A fine aprile la sede di Marikana dell’ANC è stata assalita e data alle fiamme. La presenza nell’area del presidente della repubblica Zuma, in vista delle elezioni, confermata fino all’ultimo, per dimostrare che non esistono aree del paese in cui non possa non andare, è stata infine annullata. Il capo provinciale dell’ANC ha dichiarato che la decisione è stata presa per non favorire “gli anarchici e le loro iniziative”. Il 5 maggio Zuma per la prima volta dall’inizio della lotta è intervenuto direttamente sulla questione, condannando lo sciopero. Il 7 maggio si sono svolte le elezioni che hanno confermato la coalizione governativa ANC-SACP.

Chiusosi il democratico baraccone elettorale, utile alla borghesia per illudere i lavoratori di non essere sottoposti alla dittatura del capitale, il fronte antiproletario composto da Governo, Stato e sindacati borghesi è passato all’attacco. Le compagnie minerarie del platino hanno inviato messaggi telefonici ai minatori nei quali chiedono a ciascun di loro se accetta o meno l’accordo salariale rigettato dall’AMCU. Un modo per aggirare il sindacato trattando individualmente coi lavoratori e poi, giustificati dall’arma ideologica della consultazione democratica, meglio organizzare il crumiraggio. L’intento dichiarato dalle compagnie, e auspicato dal NUM, era veder tornare al lavoro la maggioranza dei minatori il 14 maggio. Una guerra di propaganda da un lato, ma utile anche a preparare una nuova azione repressiva. In vista di quella data il ministro dell’interno ha inviato rinforzi ai contingenti di polizia già presenti per sorvegliare le vie di accesso alle miniere, naturalmente per difendere il diritto al lavoro.

L’AMCU non si è piegata. Ha esortato i lavoratori a non farsi intimidire e ha organizzato manifestazioni per bloccare le vie di accesso alle miniere. Ne sono già risultati i primi scontri con le forze di polizia, con feriti e arresti. Il 14 maggio migliaia di minatori hanno nuovamente riempito il Wonderkop Stadium di Marikana, dando una grande prova di forza.

Il NUMSA ha dichiarato di prendere in considerazione la possibilità di indire uno sciopero in solidarietà coi minatori a fronte dell’accresciuta tensione. Ma di volerlo prima proporre al Comitato centrale del COSATU. Una mossa che appare quindi più che altro propagandistica.

È chiaro che in gioco non ci sono solo i profitti dei tre grandi produttori di platino ma quelli di tutta la borghesia nazionale. Se lo sciopero vincesse seguirebbero a ruota scioperi nelle miniere di carbone, d’oro, di diamanti e poi oltre nelle altre categorie per ottenere lo stesso risultato. La borghesia e il suo regime lo sanno bene e si muovono unitariamente contro questo settore isolato del proletariato per schiacciarlo. A non avere ancora una adeguata direzione sono i lavoratori che se si muovessero insieme invece che divisi a gruppi otterrebbero una sicura vittoria.

I 34 martiri di Marikana non hanno piegato i minatori, ne hanno temprato la volontà e la determinazione. Già oggi questi proletari non esiterebbero a lanciarsi alla conquista rivoluzionaria del potere per abbattere il capitalismo. Non è il coraggio che manca loro, ma il partito politico che li indirizzi in questa direzione, che prenda il controllo delle organizzazioni sindacali così da unire le lotte operaie in un unico potente movimento di tutta la classe dei lavoratori salariati, occupati e disoccupati, che li faccia uscire dal ghetto dell’azienda, della categoria e anche da quello della nazione, unendo questi eroici combattenti del proletariato mondiale ai loro fratelli di classe rivoluzionari di tutto il mondo.

 

 

 

 


Electrolux - Una sconfitta annunciata
Organizzarsi contro l’accordo
e l’opportunismo dei sindacati di regime

LAVORATORI della ELECTROLUX !

L’accordo firmato a Roma è l’inevitabile epilogo della lotta a cui avete dato generosamente le vostre energie con scioperi, blocchi delle merci e presidi ma che avete lasciato alla conduzione dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil).

Sin dall’inizio Fim, Fiom e Uilm hanno diviso i lavoratori, sia nelle singole fabbriche, operai da una parte impiegati dall’altra, che fra stabilimento e stabilimento, lasciando decidere a ciascuna RSU le modalità della lotta. Vallenoncello non è mai stata coinvolta e l’indotto nemmeno. Mai è stata data l’indicazione di unire le lotte dei lavoratori delle tante aziende in crisi nei territori degli stabilimenti. La manifestazione del 7 marzo a Porcia è stata disertata e sabotata dalle RSU Fim, Fiom e Uilm di Forlì e Solaro che non hanno proclamato lo sciopero di 8 ore per permettere ai lavoratori di parteciparvi. Solo la Flmu CUB di Solaro lo ha fatto e una minoranza di delegati Fiom di Forlì si è battuta in tal senso. La manifestazione unitaria del 7 aprile, a Roma, è stata una foglia di fico per mascherare la smobilitazione della lotta: infatti dopo quell’incontro le RSU Fim, Fiom e Uilm Solaro e Forlì hanno interrotto scioperi e presidi, continuati solo a Porcia e Susegana, e a Solaro per iniziativa della Flmu CUB.

Le strutture territoriali e nazionali di Fim, Fiom e Uilm hanno assecondato questa condotta, anzi certamente ne sono state ideatrici. Ad uno degli ultimi incontri con l’azienda, la responsabile nazionale Fiom per il settore elettrodomestici, che ha preso questo incarico prima occupato da Landini e che appartiene alla corrente sindacale di quest’ultimo, ha attaccato la più combattiva delegata Fiom di Susegana, sostenendo che non poteva partecipare all’incontro. In una riunione successiva ad essere attaccate dai dirigenti del loro sindacato sono state le due delegate Fiom più combattive di Forlì. La Fiom si riempie la bocca con la parola “unità” ma per essa questa significa unità sindacale con Fim e Uilm, divisione delle lotte e attacco ai suoi stessi delegati che si oppongono, persino di fronte al padrone. Nella sua fase finale le RSU sono state persino messe da parte e la trattativa è stata presa in mano dai segretari nazionali che ora tessono le lodi di questa nuova porcata, Landini in testa.

Non solo. Fim, Fiom e Uilm hanno assecondato la strategia aziendale facendo credere ai lavoratori che davvero esistessero due piani, uno A e uno B. Questi grandi strateghi sindacali, sempre pronti a inventare le vie più tortuose per far passare accordi che peggiorano le condizioni dei lavoratori, fingono di ignorare la più banale regola di ogni contrattazione, cioè che in prima battuta si chiede sempre di più di quel che si vuole realmente ottenere. Così, quando all’incontro del 7 aprile l’azienda ha presentato il preteso “piano B”, Fim, Fiom e Uilm hanno avuto la scusa per fermare la lotta a Solaro e Forlì! Il taglio del salario inizialmente rivendicato da Electrolux non poteva non scatenare la reazione dei lavoratori ed era chiaramente uno spauracchio, una manovra diversiva, utile anche a far stancare gli operai facendoli scioperare contro un obiettivo che l’azienda sapeva bene di poter raggiungere coi finanziamenti statali.

Gli altri contenuti del “piano B”, accolti nell’accordo finale firmato, sono gli stessi iniziali:
– I licenziamenti, oltre 1.300, sono solo spostati di qualche tempo, al 2017 se non prima!
– I ritmi di lavoro aumentano a Susegana, Forlì e Solaro e produrranno ulteriori esuberi.
– Permane, anche se ridotto, il taglio dei salari perché le due ore al giorno non lavorate sono pagate dallo Stato (con i soldi di tutti i lavoratori) solo per il 70%.
– Permangono gli esodi volontari e incentivati che aggraveranno la riduzione dell’organico complessivo in atto da anni. Fim, Fiom e Uilm, che li hanno sempre presentati come una conquista, in questo modo assecondano l’interesse individualistico di chi abbandona la fabbrica con una riserva minima per tirare avanti, a discapito dell’interesse collettivo di chi vi rimane, che si vede indebolito numericamente e più sfruttato per gli aumentati carichi di lavoro, nonché dei disoccupati, le cui speranze di trovare lavoro si riducono. L’opposto di ciò che dovrebbe fare un sindacato, ossia educare i lavoratori a lottare per gli interessi collettivi mettendo da parte quelli egoistici che conducono solo alla disgregazione dell’unità della classe e quindi alla disgrazia di tutti i lavoratori.
– Lo stesso valore hanno i contratti di solidarietà, decantati da Landini perché seguirebbero il principio di “lavorare meno, lavorare tutti”. Questo è falso. Essi sono contrattati aziendalmente e possono essere ottenuti solo da una minoranza di grandi imprese. La grande maggioranza dei lavoratori ne è esclusa. La solidarietà non è fra lavoratori ma a favore dell’azienda che vede pagate le sue maestranze dalla fiscalità generale, ossia dal complesso dei lavoratori. I contratti di solidarietà sono una riduzione dell’orario e del salario a carico della classe salariata. Mistificano e sviliscono la vera rivendicazione che unisce e da forza a tutta la classe lavoratrice: la riduzione generalizzata, per tutti i lavoratori, dell’orario di lavoro a parità di salario.

A Porcia, sarà diminuita la produzione da 1.150.000 pezzi ai 750.000 in tre anni. Ciò farà aumentare il costo del pezzo prodotto rendendo lo stabilimento meno “competitivo” e dando il destro all’azienda per giustificarne la futura chiusura. E non basta. A fronte di ciò i sindacati confederali hanno accettato il taglio dei 10 minuti di pausa aggiuntivi – dati nel 2002 in cambio dell’aumento dei ritmi a 94 pezzi/h! – ridotti a 5 minuti. Si dovrà produrre un volume minore di pezzi ma in meno tempo, per correre più rapidamente incontro alla chiusura.

LAVORATORI della ELECTROLUX !

La storia di Electrolux è emblematica del fallimento del sindacalismo concertativo di Cgil, Cisl e Uil. Ogni accordo a perdere vi è stato fatto digerire avallando il classico ricatto padronale “o così o a casa” e la menzogna dello “stare peggio oggi per star meglio domani”. I fatti dimostrano invece come ogni nuovo sacrificio sia sempre stato la premessa per arretramenti ulteriori. Così sarà anche questa volta. In futuro l’azienda passerà ancora all’attacco.

In tutti questi anni, Fim, Fiom e Uilm non hanno organizzato la vostra lotta per fermare gli attacchi di Electrolux: hanno accompagnato i piani di ristrutturazione, svolgendo una azione di consulenza all’azienda affinché li applicasse in modo da non scatenare la vostra dura reazione non controllabile da questi falsi sindacati. Anche questa volta ci sono riusciti!

La lezione da trarre da questa nuova bastonata ai vostri danni è quella di non lasciare la conduzione della lotta in mano a questi sindacati di regime. Alla Electrolux e in ogni altro posto di lavoro sta a voi stessi prendere in mano i vostri destini. Organizzatevi in Comitati di lotta cui possano aderire tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale e che prendano in mano la direzione della mobilitazione. Prendete contatto con i lavoratori e i delegati più combattivi di tutti gli stabilimenti Electrolux, compreso Valloncello, dell’indotto, delle altre aziende limitrofe in crisi e in lotta, per creare un Coordinamento territoriale dei lavoratori, come nella tradizione delle gloriose originarie Camere del Lavoro, con l’obiettivo di unificare le lotte con scioperi comuni e di solidarietà il più estesi possibile.

L’UNIONE DEI LAVORATORI non è una formula vuota ma è L’UNIONE NELLA LOTTA, NELLO SCIOPERO!

La nascita di questi organismi di lotta sarà la base di quella ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE che ancora manca e della quale sempre più hanno bisogno i lavoratori.

– W LA LOTTA DEI LAVORATORI DELL’ELECTROLUX !
– PER LA RINASCITA DEL SINDACATO DI CLASSE FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME !

 

 

 

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Cile
22 giorni di sciopero dei portuali traditi dai sindacati

Il 23 dicembre scorso quattrocento lavoratori aderenti al Sindacato dei Portuali Uniti (Union Portuaria) hanno iniziato uno sciopero a Porto Angamos, a Mejillones, ad Antofagasta, Coloso ed Esperanza. I lavoratori richiedevano un posto di lavoro stabile per circa 250 operai col definitivo passaggio da precari, a giornata, a fissi. L’azienda ha immediatamente respinto questa richiesta, così che la lotta è proseguita per più di trenta giorni.

Dal 4 gennaio anche i lavoratori di San Antonio hanno aderito allo sciopero aggiungendo alle richieste il pagamento retroattivo della pausa pranzo, che i padroni, pur avendolo promesso, costretti da una lotta precedente, non hanno mantenuto.

Il 6 gennaio L’Unione Portuaria del Nord (Antofagasta e Iquique, Tocopilla, Chanaral e Huasco) si unita a sostegno di Porto Angamos, seguita l’8 gennaio dai porti della Unione Portuaria del Bio Bio, come conseguenza della forte repressione verso i lavoratori portuali di Mejillones, nei porti di Lirquen, Penco, Coronel, San Vicente, Calbuco, Corral, Puerto Montt e Chacabuco.

I lavoratori in sciopero sono stati attaccati duramente a Porto Angamos e San Antonio e messi in stato di assedio. Ma i portuali non si sono piegati e hanno costretto con la lotta governo e padroni a trattare, raggiungendo un accordo sul pagamento retroattivo della pausa pranzo, ma non quello sulla regolarizzazione dei precari di Mejillones, cardine delle richieste operaie.

Il risultato dello sciopero è in gran parte il riflesso dell’azione dei sindacati di regime, del loro legalitarismo ed inclinazione alla collaborazione con i padroni. Questo è uno dei punti deboli che coinvolge il movimento operaio in molti i paesi: la lotta operaia è controllata dai sindacati inglobati nello Stato borghese, i quali demotivano i lavoratori. Quando non possono evitare lo scoppio della rivolta cercano di incanalare le energie della classe in “assemblee informative” mentre i dirigenti sindacali trattano alle spalle dei lavoratori evitando l’estensione delle lotte oltre i limiti aziendali.

Questa lotta ha avuto degli aspetti rilevanti ponendo da subito la questione della necessità dell’unità dei lavoratori attraverso scioperi di solidarietà. È evidente che questo è avvenuto non su iniziativa delle dirigenze sindacali ma della pressione della base operaia.

Durante lo sciopero le organizzazioni padronali, tra cui la Confederazione Padronale dei Camionisti ed i Trasporti del Cile, hanno spinto il governo alla reazione. Lo stesso è avvenuto con i comunicati della stampa, completamente asservita al capitale. Federfrutta, l’organizzazione padronale degli esportatori di frutta ha lamentato, durante i 22 giorni di sciopero, una perdita di 200 milioni di dollari, principalmente per la frutta fresca da esportazione; l’Associazione degli esportatori, ha dichiarato 40 milioni di dollari di perdite; Codelco, la più grande azienda di rame del mondo, ha dichiarato di aver avuto 130 milioni di dollari bloccati nel porto di Mejillones. «Il blocco del porto è gravissimo, perché lede l’immagine del paese» ha detto Andreas Santa Cruz, della Confederazione della Produzione e del Commercio (CPC); Herman Von Mulenbruck, a capo dell’associazione industriali del settore, ha definito illegale lo sciopero ed ha invitato il governo a porvi fine.

Per i padroni firmare al più presto un accordo era quindi fondamentale per preservare la reputazione delle imprese come fornitori affidabili nel commercio globale e tutto indicava che la vittoria sarebbe stata possibile.

Ma gli obbiettivi non sono stati raggiunti a causa del tradimento dei dirigenti del sindacato Portuali Uniti, che il 23 gennaio hanno firmato l’accordo con i padroni concludendo lo sciopero. Il sindacato ha manifestato piena soddisfazione per quello che ha definito un “trionfo” dei portuali cileni. In realtà non è stata accolta la richiesta del pagamento della mezz’ora per il pranzo, tra l’altro già concordata nel 2013, impegnandosi solo al pagamento di un “bonus” di 2.727 dollari. Tutti i lavoratori licenziati durante i giorni di sciopero sono stati reintegrati. Il ministro del lavoro Juan Carlos Jobet si è detto in disaccordo con queste concessioni e che non era giusto cedere alle richieste dei lavoratori.

Ma una delle richieste fondamentali dei portuali in questo conflitto era la stabilità del lavoro. Nel porto di San Antonio, 118 chilometri a sud-est di Santiago, solo il 20% dei lavoratori ha un contratto a tempo indeterminato e gli altri devono ogni giorno firmare un contratto a termine tutte le volte che entrano per il turno di lavoro e la disdetta quando lo finiscono. Trattamento che non è mutato dopo i 22 giorni di lotta.

Il “contratto a termine” è una variante estrema della precarietà del lavoro, inserita nel Codice del Lavoro dal governo di Pinochet e confermata dal governo della Concertazione (con alla presidenza nuovamente Michelle Bachelet dal 11 marzo 2014). La terziarizzazione e il precariato colpiscono la maggioranza dei lavoratori cileni e sono alla base del sistema di supersfruttamento capitalista che ha consentito il cosiddetto “modello cileno”.

Il “trionfo” non è stato dei lavoratori ma dell’alleanza governo-padroni-sindacalisti, che hanno arrestato il movimento di sciopero impedendo che i portuali si collegassero con altre lotte operaie in Cile, come quelle dei minatori.

I lavoratori in Cile ed in tutto il mondo dovrebbero portare avanti la lotta di classe basata su una loro organizzazione unitaria alla base, capace di andare oltre la direzione dei sindacati attuali ponendo le basi per la formazione di un sincero e combattivo sindacato di classe che riunisca tutti i lavoratori al di la del contratto, della nazionalità, razza o fede religiosa, che sia in grado di organizzare i lavoratori di mestieri diversi e categorie in una sola lotta: la lotta unitaria del proletariato contro la borghesia per la conquista di aumenti salariali, la riduzione della giornata lavorativa ed il miglioramento delle condizioni e dell’ambiente di lavoro. Questo è un percorso necessario perché il proletariato possa conquistare il potere e rovesciare la società capitalista, sotto la direzione del suo partito di classe: il Partito Comunista Internazionale.

 

 

 

 


Ikea di Piacenza
Difendere e organizzare la lotta di classe

     Continuiamo a seguire l’attività del SI Cobas. Questo piccolo sindacato sta dando filo da torcere ormai da cinque anni a sempre più aziende del settore logistico, organizzando un movimento di veri proletari. Negli ultimi mesi diversi sono stati i fronti di lotta: i magazzini Carrefour di S. Cristina (PV), Pieve Emanuele (MI) e Cameri (NO), la Fiege Borruso di Brembio (LO), la Frigoscandia di Cornaredo (MI), le aziende di trasporto presso la DHL, il centro di smistamento di Poste Italiane e i facchini della Mr Joob all’Interporto di Bologna, la TNT e la Gesco di Teverola (CE) e Casoria (NA), i magazzini IKEA di Piacenza, la Cooperativa 2008 ai Mercati generali CAAT di Torino. Davanti a questi ultimi pochi giorni fa un volantinaggio si è trasformato in un’assemblea spontanea presenziata da molti lavoratori.
     Molte di queste lotte sono contro i licenziamenti. In alcuni casi l’azienda committente cambia la ditta cui affidare l’appalto; una occasione per licenziare parte del personale e peggiorare le condizioni salariali e normative di quello restante. Spesso i licenziati sono iscritti al SI Cobas, anche perché questo, con grave errore, continua a riscuotere i soldi delle iscrizioni col metodo della delega, cioè dando la lista degli iscritti al padrone.
     La battaglia più importante è stata quella all’IKEA dove sono stati sospesi 33 lavoratori, tutti iscritti al SI Cobas, che è in questo importante magazzino il primo sindacato. I lavoratori hanno risposto con lo sciopero, bloccando l’ingresso delle merci. È prontamente intervenuta la celere guidata in prima persona dal questore e ne è nata uno scontro durato alcune ore. Il magazzino è stato bloccato con successo tanto che l’IKEA è stata costretta nei giorni successivi alla serrata. Il SI Cobas ha quindi organizzato una manifestazione nazionale per le vie di Piacenza, riuscita, cui hanno partecipato 600-700 lavoratori e durante la quale abbiamo diffuso il seguente volantino (anche in lingua francese).

Piacenza, 11 maggio
VIVA LA LOTTA DEI FACCHINI !

Il SI Cobas ha organizzato la lotta operaia in un settore molto importante per il capitalismo, in Italia come in tutto il mondo: la logistica. Dalle prime lotte nei magazzini del milanese l’organizzazione si è estesa nella Bassa Padana (Lodi, Pavia, Cremona, Piacenza, Modena, Bologna), a Torino, Novara e verso Sud fino a Roma, Caserta, Napoli. Da scioperi nelle singole imprese è giunto a dispiegare azioni che coinvolgono più aziende, a buon titolo definite generali.

Questa crescita organizzativa è avvenuta attraverso battaglie spesso dure, fronteggiando la reazione del padronato, sia quella legale del suo Stato, con le cariche delle forze dell’ordine, le denunce, i processi, persino i fogli di via, sia quella extra-legale degli scagnozzi padronali. Ed è avvenuta a discapito e contro il sindacalismo di regime.

La forza dei lavoratori cresce con la loro unità che si misura con la capacità di scioperare uniti. Un vero sindacato di classe difende e moltiplica questa forza perché la organizza in scioperi sempre più estesi, prolungati e unitari.

I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) inquadrano milioni di lavoratori di aziende e categorie diverse ma allo scopo opposto: coi mezzi più meschini impediscono l’unione delle lotte, isolano gli scioperi nelle singole aziende e persino nei singoli stabilimenti della stessa azienda. La loro esistenza è garantita dal regime capitalista che li tutela perché ha in essi i più efficaci strumenti contro l’unione della lotta dei lavoratori.

Un sindacato di classe nel capitalismo ha invece garantita solo la continua lotta che il regime borghese conduce contro di esso, sia tentando di distruggerne l’organizzazione sia cercando di corromperla concedendole il riconoscimento in cambio della rinuncia ai metodi e ai principi della lotta di classe.

Per quanto il SI Cobas si sia rafforzato è ancora fragile perché in grado di mobilitare i lavoratori solo nella categoria della logistica. Dopo il pesante attacco subito alla Cooperativa Adriatica e alla Granarolo di Bologna, oggi il padronato scaglia una nuova offensiva contro questo combattivo sindacato nel magazzino IKEA di Piacenza, centro logistico dell’azienda per il Sud Europa, e dove esso ha guadagnato la fiducia della maggioranza dei lavoratori con la grande vittoriosa lotta di un anno fa.

La borghesia italiana non può sopportare la presenza di un sindacato non asservito come Cgil, Cisl e Uil in centri tanto importanti per la produzione capitalista perché più avanza l’inesorabile ed irrisolvibile crisi economica mondiale del capitalismo più diviene possibile la sua estensione alle altre categorie della classe lavoratrice.

Per distruggere il SI Cobas nell’IKEA di Piacenza e il movimento operaio cresciuto in questi anni nella logistica la classe dominante sta dispiegando le sue classiche armi: le forze dell’ordine caricano i picchetti, la magistratura prepara nuove denunce, la stampa borghese denigra gli scioperanti, le istituzioni locali organizzano i lavoratori contrari allo sciopero, l’azienda ha annunciato la serrata e i sindacati di regime assecondano tutta questa azione antiproletaria condannando i metodi di lotta del SI Cobas, cioè quelli della lotta di classe.

Questa battaglia è importante per la borghesia ma lo è ancor di più per tutta la classe lavoratrice e per tutto il sindacalismo di base che deve impugnarla e sostenerla nella sua lotta contro il sindacalismo di regime per la ricostruzione del sindacato di classe.

 

Défendre et organiser la lutte de classe

Le SI Cobas a organisé la lutte ouvrière dans un secteur très important pour le capitalisme en Italie, comme dans le reste du Monde : la logistique. Depuis les luttes des magasiniers à Milan, l’organisation s’est étendue jusqu’aux basses plaines de la Padana (Lodi, Pavia, Cremona, Piacenza, Modena, Bologna), à Turin, Novara et vers le sud jusqu’à Rome, Caserta et Naples. De luttes limitées à des entreprises isolées, l’on est arrivé à organiser des luttes plus générales qui impliquent de façon coordonnée plusieurs entreprises.

Cette organisation progressive des luttes s’est faite au travers de batailles parfois très dures, en affrontant la réaction patronale, tant légale de son appareil étatique, avec les charges policières, les dénonciations, les procès, que celles extra-légales avec les hommes de main du patronat. Cette organisation des travailleurs s’est faite en dehors et contre les syndicats de régime.

La force des travailleurs s’accroît avec leur union qui se mesure à leur capacité à lutter tous ensemble. Un vrai syndicat de classe défend et multiplie cette force en organisant des grèves toujours plus étendues, et non pas de courtes durées – type une heure ou 24h – et en ayant des revendications qui unifient l’ensemble des travailleurs.

Les syndicats de régime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) encadrent des millions de travailleurs dans des milliers d’entreprises et de catégories très diverses, mais dans un but bien différent : ils font semblant d’organiser les travailleurs en empêchant l’union des luttes, ils isolent les grèves en les limitant au niveau de l’entreprise isolée et voire même en organisant des luttes partielles au niveau de l’atelier isolé au sein de l’entreprise sans liens avec les autres travailleurs. L’existence de ces « syndicats » de collaboration de classe est une assurance pour le régime capitaliste, car il constitue l’instrument le plus efficace pour lutter contre l’union des luttes ouvrières.

A l’inverse le régime bourgeois mène une guerre sournoise contre les syndicats de classe, soit en cherchant à les détruire, soit en cherchant à les corrompre en offrant la reconnaissance en échange du renoncement aux méthodes et aux principes de la lutte de classe.

Faisant suite aux dures attaques subies à la Coopérative Adriatica e à Granarolo de Bologne, maintenant le patronat passe à l’offensive contre il SI Cobas du magasin IKEA de Piacenza, qui sert de centre logistique à l’entreprise pour le Sud de l’Europe. Là le SI Cobas trouve son point de force en ayant gagné la confiance de la majorité des travailleurs avec la lutte victorieuse de l’année dernière.

La bourgeoisie italienne ne peut pas supporter la présence d’un syndicat qui ne soit pas asservi comme la Cgil, la Cisl e l’Uil dans un centre aussi important pour la production capitaliste. Que pour la bourgeoisie il s’agisse d’une bataille importante, le fait que le ministère du travail ait été confié à l’ex président de la ligue pour les coopératives (LegaCoop), nous le confirme.

Bien que le SI Cobas se soit renforcé, il reste encore fragile, car il n’arrive pour le moment à mobiliser seulement les travailleurs de la catégorie appartenant à la logistique. La classe dominante est en train de déployer toutes ses armes anti-ouvrières : les forces de l’ordre chargent les piquets de grève, la magistrature prépare de nouvelles mesures de dénonciation, la presse bourgeoisie dénigre les ouvriers en grève, les institutions locales organisent les travailleurs non grévistes – les jaunes – pour augmenter leur poids, l’entreprise quant à elle a annoncé la fermeture et les syndicats de régime soutiennent ces actions anti-prolétariennes en condamnant les méthodes de lutte du SI Cobas, c’est-à-dire les méthodes de lutte de classe.

Cette bataille est importante pour la bourgeoisie, mais elle l’est encore plus pour tout le syndicalisme de base dans son affrontement contre le patronat et les syndicats de régime pour la renaissance de le SYNDICAT DE CLASSE.

- VIVE LA LUTTE DES MAGASINIERS !
- POUR LA RENAISSANCE DE LE SYNDICAT DE CLASSE CONTRE LES SYNDICATS DE RÉGIME !

 

 

 

 


ABB
Unire le battaglie ora isolate nelle aziende è la sola arma dei lavoratori

     Di seguito riportiamo il volantino che i nostri compagni della sezione di Genova hanno distribuito ad uno sciopero degli operai della ex RGM-polycontrol, assorbiti ad ottobre 2012 dalla multinazionale ABB, azienda che ha 150 mila dipendenti in circa 100 paesi nel mondo. Gli investimenti promessi non si sono poi avuti, anche perché il mercato internazionale, in crisi da tempo, è sì ricco di clienti ma soprattutto di competitori. In questo contesto è arrivata la cassa integrazione per questa divisione di ABB, già utilizzata in precedenza in altri reparti.
     Lo sciopero ha visto la partecipazione di un centinaio di operai, comprese due piccole delegazioni di lavoratori della Piaggio e della Selex.
     I nostri compagni hanno riaffermato la necessità di estendere la lotta non chiudendosi in fabbrica, ribadendo che continuare a legare le sorti dei lavoratori a quelle aziendali significa costringerli a sopportare ogni sacrificio, ogni ricatto, pur di mantenere in vita l’azienda e un capitale che è socialmente morente. L’attacco alle condizioni anche ad una piccola porzione della nostra classe non è mai una questione “privata” dei dipendenti di quel singolo stabilimento o azienda o categoria perché queste condizioni influenzano, prima o poi, quelle di tutti i proletari, di Genova, d’Italia, di tutto il mondo.


LAVORATORI !

La forza che spinge un’impresa a peggiorare le condizioni dei lavoratori non ha origine al suo interno, ma nel complesso del modo di produzione capitalistico, che ha le sue leggi economiche–basate su numeri e non su opinioni–che formano la catena dello sfruttamento della classe dei lavoratori.

Sotto i colpi della crisi economica, che non è locale ma mondiale, le aziende continuano a licenziare. Per “rimanere sul mercato” si pretende lo stesso lavoro utilizzando sempre meno operai. In molti casi le fabbriche chiudono.

Il ciclo del capitale, dalla ricostruzione seguita al secondo macello mondiale è ormai giunto a quelli che sono i suoi limiti intrinseci: crisi di sovrapproduzione e conseguente incapacità di creare quel profitto su cui basa ogni sua azione ed in nome del quale tutto va sacrificato. Già si sta attrezzando in vista del terzo macello mondiale.

I lavoratori, anche per l’azione concertativa dei sindacati di regime, sono costretti ad accettare sacrifici sempre più pesanti, sottomettendosi alla concorrenza fra proletari, che spinge al ribasso le condizioni di lavoro, fabbricando quindi con le proprie mani le basi di questa evidente debolezza.

CGIL CSIL e UIL sono totalmente asservite agli interessi del Capitale, non solo non si sono impegnate nella lotta generale contro questi peggioramenti ma ne sono state ideatrici e anche corresponsabili nell’imporle, magari un poco alla volta.

Laddove i lavoratori sono tornati a lottare veramente, imponendo con la forza miglioramenti alle loro condizioni, si sono trovati a combattere non solo contro padroni, governi e Stato ma anche contro questi falsi sindacati. Il movimento operaio nella logistica, organizzato con successo dal SI Cobas in decine di magazzini in Lombardia, Emilia, Piemonte, Lazio e Campania, ne è l’ennesima dimostrazione.

A Genova, tutte le principali aziende sono in crisi ed attaccano i lavoratori: Piaggio, Fincantieri, Ilva, Selex, Ericsson, Abb, Ansaldo, Elsag, senza citare le decine e decine di aziende minori che non fanno cronaca; i lavoratori delle aziende partecipate – Amt, Amiu, Aster – sono anch’essi sotto attacco, coi tranvieri che sei mesi fa hanno scioperato a oltranza per cinque giorni, dando un esempio di come si lotta.

La forza della classe lavoratrice potenzialmente è enorme, ma rinchiusa entro i confini aziendali, divisa in mille rivoli, come può difendere il posto di lavoro in una impresa in crisi se non accettando sacrifici sempre più pesanti e sottomettendosi alla concorrenza tra lavoratori?

Finché i proletari accetteranno le divisioni fomentate dal capitale, tra lavoratori di questo o quel reparto, di questa o quella azienda, di questa o quella città o nazione, non potranno mai avere la forza necessaria per porre un limite ai danni prodotti dal precipitare della crisi.

A fronte della attuale impreparazione è necessario organizzarsi in ogni azienda in comitati di lotta cui aderiscano i lavoratori a prescindere dalla loro tessera sindacale, che impugnino la direzione della lotta togliendola a Cgil, Cisl e Uil, ai loro funzionari e ai loro organismi rappresentativi addomesticati quali le RSU e le RSA, che incoraggiano la partecipazione diretta dei lavoratori e perseguano senza esitazione l’obiettivo di uscire dal ghetto aziendale e di formare un coordinamento territoriale interaziendale per unificare le lotte in un movimento generale della classe lavoratrice.

È questa strada che condurrà alla rinascita del SINDACATO DI CLASSE, necessario per battersi per i veri obiettivi generali della classe lavoratrice:
- forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
- drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
- salario pieno ai lavoratori licenziati.

FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME, PER LA RINASCITA DEL SINDACATO DI CLASSE !

 

 

 

 

 


Venezuela - Primo Maggio
Contro il “Socialismo del XXI secolo” e contro le opposizioni

Riproduciamo qui, dal volantino che il partito ha distribuito in Venezuela in occasione del 1° Maggio, la cui versione completa in lingua spagnola si può leggere sul nostro sito, i passi che caratterizzano l’intervento del partito rivoluzionario in una zona del mondo capitalistico dove le forze del regime orchestrano lo sfruttamento operaio, in collaborazione con l’opposizione anti-governativa, anche violenta. Il partito ripropone quindi i temi fondamentali: smascheramento della borghesia in quanto classe; punti fermi del programma comunista; necessità della lotta immediata che affasci l’intera classe operaia; indicazioni pratiche di inquadramento delle forze della nostra classe in organizzazioni di tipo sindacale che sappiano difendere gli interessi immediati dei lavoratori.

* * *

È una menzogna del chavismo che la crisi attuale in Venezuela sia un fenomeno passeggero originato da una “guerra economica” provocata dagli imprenditori e da una “congiura” dell’opposizione politica. Il capitalismo in Venezuela è stato sempre speculatore, anche durante la Quarta e la Quinta Repubblica. Ieri come oggi lo sfruttamento operaio è la base sulla quale i capitalisti del Venezuela e del mondo intero hanno costruito e continuano ad aumentare la loro grande ricchezza.

È una menzogna che i partiti del blocco delle opposizioni potrebbero formare un governo che migliorerebbe le condizioni della classe operaia. I partiti d’opposizione sono solo un’alternativa politica di cui dispone la borghesia per continuare a sfruttare la classe operaia.

L’inflazione e la carenza di prodotti alimentari come di merci e servizi di prima necessità, la disoccupazione, la perdita del potere d’acquisto dei salari, il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro sono solo alcuni degli effetti sulla classe dei lavoratori conseguenti alla crisi capitalistica.

I bassi salari non recuperano l’inflazione neppure attraverso il lavoro straordinario, che spesso nemmeno viene retribuito. Molti contratti collettivi sono scaduti ed il padronato, sia pubblico sia privato, non esita a derogarne.

La crisi attuale non è il risultato di una “cattiva politica” dello “spreco” o della “corruzione”. La crisi non è il frutto di una gestione “perversa” dell’economia capitalistica, mentre una “giusta” e “onesta” garantirebbero il benessere ed il progresso della classe operaia. Tanto meno la colpa di questa crisi risiede nella cattiva gestione dell’industria petrolifera. L’economia capitalistica deve necessariamente cadere nella crisi profonda e generale e la completa rovina sta proprio nelle cause delle sue inevitabili contraddizioni interne.

Il volantino si conclude con queste considerazioni, fondamentali per capire la realtà oltre la demagogia:

Il “Socialismo del XXI secolo” escogitato per il Venezuela è un’altra menzogna della borghesia e dell’opportunismo al solo fine di dare ossigeno al capitalismo. La classe operaia non deve seguire né i partiti di governo né i partiti della opposizione, perché entrambi i fronti politici sono le due facce di una stessa moneta: il capitalismo sfruttatore. VIVA IL COMUNISMO !

 

 

 

 

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Il Capitale, stretto dalla caduta del tasso del profitto, ditta su Stati e Parlamenti

Il sistema capitalistico è passato allo stadio imperialista con la formazione dei monopoli sovranazionali alla fine del 19° secolo. La concorrenza fra di essi e le leggi economiche dell’accumulazione hanno condotto inesorabilmente alla loro concentrazione e centralizzazione, alla formazione di cartelli industriali, appoggiantisi alle grandi banche, che controllano, direttamente o indirettamente, migliaia di imprese. La precedente libera concorrenza ha così condotto alla formazione di giganteschi monopoli, che gli economisti borghesi e i loro propagandisti oggi chiamano pudicamente “multinazionali”. Prima i mercati nazionali sono divenuti troppo stretti per l’accumulazione del capitale, poi il suo modo di produzione ha avvinghiato tutto il pianeta. Ma lo spettro della crisi incalza e anche il globo terreste è divenuto troppo piccolo: se potesse, il Capitale si impossesserebbe dell’universo!

I capitali, per opporsi alla caduta tendenziale del tasso del profitto, che li strangola inesorabilmente, sono oggi costretti ad una sfrenata contesa per appropriarsi dei declinanti profitti e sovrapprofitti. Il sovrapprofitto di monopolio è una rendita della quale si appropriano i grandi capitali controllando con la loro forza il mercato.

Per sopravvivere il Capitale spezza ogni ostacolo all’accumulazione e, in nome dei mitici principi del libero scambio, tenta di abbattere ogni impedimento e barriera, non fermandosi certo davanti ai “sacri” confini delle varie patrie nazionali. Il capitale, giunto allo stadio imperialista da più di un secolo, tende ad imporsi sugli “egoismi” dei capitali nazionali, ad annullare le barriere protezioniste che impicciano la libera circolazione delle merci e dei capitali. Per far questo gli è facile manovrare gli apparati della democrazia formale e dei parlamenti nazionali, nascondendo i suoi interessi sotto la pretesa creazione di impieghi e della ripartizione dei profitti.

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, il capitalismo, ringiovanito dalla guerra, si è organizzato per favorire l’apertura di mercati sempre più vasti, e quindi, la formazione di monopoli sempre più numerosi e mostruosi. In Europa si volle creare un mercato unico con la Comunità Economica Europea, nel 1965, preceduta dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 e dalla Comunità Economica di Difesa nel 1952. Si parlava allora di assicurare un idillio di pace fra gli Stati, ma la realtà era la necessità economica del capitale alla ricerca dei profitti.

A scala mondiale fin dal 1947 esisteva un Accordo Generale sulle Tariffe doganali ed il Commercio, o GATT, firmato da 23 paesi, divenuti 120 nel 1994, emanante dagli Stati Uniti per armonizzare le politiche doganali. Gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944 avevano fondato il sistema monetario mondiale ancorato al dollaro. Con questi accordi, non si trattava di evitare una nuova guerra mondiale, che in quella fase ascendente dell’accumulazione non si poneva, ma un’altra crisi economica mondiale come quella del 1929.

Dopo trent’anni di ricostruzione postbellica e di euforia produttiva si è riaperta la fase di sovrapproduzione con la crisi internazionale del 1975. I mercati erano già divenuti troppo stretti, e il GATT, che lasciava aperte troppe deroghe e troppe “autonomie nazionali”, non bastava più.

L’Organizzazione Mondiale del Commercio, OMC, era stata creata nel 1994 per offrire agli Stati un ambito per le trattative commerciali; ma le conferenze del 1999 a Seattle negli Usa, nel Qatar nel 2001, con 135 paesi membri, e quella a Cancun nel Messico nel 2003 dimostrarono l’antagonismo fra i grandi blocchi imperialistici, soprattutto nel settore dei prodotti agricoli. All’interno dell’OMC si discusse anche un Accordo Generale sul Commercio dei Servizi teso a mettere in concorrenza le imprese pubbliche e le private, diminuendo la sovvenzioni alle prime. Nel 2005, la VI conferenza dell’OMC a Hong Kong pretendeva di imporre la soppressione entro il 2013 delle sovvenzioni alle esportazioni agricole (vedi le manifestazioni degli agricoltori e delle imprese agro-alimentari come quelle in Bretagna).

Ma già fra il 1995 e il 1997 era stato negoziato segretamente dai 29 Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico un progetto di Accordo Multilaterale sugli Investimenti, AMI, che tentava di introdurre un sistema di compensazioni per gli investimenti in paesi “svantaggiosi” a causa di una legislazione sul lavoro troppo “restrittiva” o di norme sull’inquinamento “abusive”. Quando questo progetto di accordo fu reso pubblico, i promotori furono costretti a metterlo da parte.

Fu necessario quindi scavalcare l’OCDE, troppo trasparente, e presentare le manovre dei grandi capitalisti internazionali come necessarie a salvare salari e posti di lavoro e i profitti alle imprese in difficoltà.

Il Consiglio Europeo di ottobre 2012 si impegnava ad intraprendere delle trattative di libero scambio fra l’Europa e gli Usa. Queste si sono aperte ufficialmente il 13 febbraio 2013 con la nomina di una Commissione, condotta dall’addetto al commercio dell’UE, il belga Karel de Gucht, per negoziare con gli Usa un Trattato di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (quindi scavalcando i deputati nazionali “democraticamente” eletti). Attraverso riunioni regolari fra i membri della Commissione, i portavoce delle multinazionali e delle lobby finanziarie si sono dati il compito di espungere dalle legislazioni nazionali ogni “superflua” forma di regolazione del mercato o di “difforme” protezione nel mondo del lavoro e della salute dei cittadini. Nel giugno 2013 la Francia ha ottenuto una “eccezione” per i servizi “audiovisivi” (la “cultura”, parbleu!).

Una prima tappa importante è stata la conclusione il 18 ottobre 2013 delle discussioni sul libero scambio fra Canada e Unione Europea, iniziate nel 2008, considerata di buon augurio per la trattativa con gli Usa. Si tratta di un primo accordo economico e commerciale “globale” di libero scambio fra l’Unione Europea ed un paese del G8: i diritti di dogana sono soppressi sul 99% dei beni scambiati e sono “liberalizzati” gli investimenti e i sevizi: finanziari, banche e assicurazioni, telecomunicazioni, energia, trasporti; esclusi la sanità, l’audiovisivo e l’educazione. Secondo i portavoce l’accordo andrebbe a creare nuovi impieghi e lavoro per le imprese di entrambe le parti, con aumento degli scambi anche con altri paesi vicini. Per esempio il mercato europeo si apre alla carne di bovino canadese (agli ormoni e agli Ogm) e il Canada ai formaggi europei (con gran mugugno dei produttori di latte canadesi e degli allevatori europei).

I rappresentanti dell’UE e quelli degli Usa si sono incontrati a Bruxelles in novembre e a Washington in dicembre 2013: le trattative vanno avanti e dovrebbero terminare nel 2015. La delegazione americana conta più di 600 consulenti nominati dalle multinazionali, e sarà sicuramente lo stesso da parte europea. Le trattative, che si svolgono a porte chiuse per non generare “pre­oc­cupazioni” fra la popolazione, tendono ad “aprire” settori importanti, mercantili e non, sopprimendo preesistenti normative su sicurezza degli alimenti, limiti di tossicità, assicurazioni sanitarie, protezione della “privacy”, cioè internet, diritti d’autore, formazione professionale, immigrazione, regolazione dei prodotti finanziari e delle banche.

Le decisioni prese si impongono agli Stati nazionali, le cui legislazioni sono divenute “inadeguate”, fino ai consigli municipali, che debbono ridefinire la loro politiche pubbliche. Gli “amministratori” dovranno rinegoziare gli accordi con le imprese, al fine di renderle “competitive”.

L’accordo spazzerà via le regole sanitarie europee adeguandole agli standard minimi americani su alimenti, energia, inquinamento dell’aria, internet, ecc. Sarà autorizzata la carne agli ormoni, il suino alla ractopamina (utilizzato per aumentare il tenore di carne magra, sostanza proibita in 160 paesi fra cui l’Europa, la Russia e la Cina), il pollo clonato, tassi di insetticida elevati negli alimenti, assenza completa di controllo sui prodotti da colture Ogm, compresa la loro origine. Bisogna insomma consumare qualsiasi cosa.

L’OMC potrebbe infliggere alla Unione Europea una penalità di molte centinaia di milioni di euro per il rifiuto di importare organismi geneticamente modificati. Ma ormai le multinazionali possono attaccare in proprio nome. Infatti per la regolazione delle dispute fra Stati e multinazionali si è addirittura proposto di creare un tribunale “privato”, un “tribunale speciale” internazionale composto di giudici che non devono rispondere ad alcuno. Le imprese avrebbero il diritto di denunciare gli Stati ed esigere danni ed interessi quando una pubblica amministrazione si opponesse ai loro profitti o diminuisse il valore dei loro investimenti (il fornitore di elettricità svedese Vattenfall già chiede molti miliardi di euro alla Germania per la sua “svolta energetica” verso il carbone; lo Stato canadese ha preferito revocare la proibizione di un additivo tossico utilizzato nell’industria del petrolio piuttosto che rischiare un processo). Uno Stato potrebbe essere perseguito dalle compagnie petrolifere se si rifiuta di far estrarre petrolio o gas di scisto con la tecnica estremamente inquinante della frattura idraulica, o di privatizzare dei sevizi pubblici (trasporti, energia nucleare...); una municipalità potrebbe essere denunciata di ostacolo alla libertà di commercio se si fosse opposta alla privatizzazione dell’acqua.

Quanto alla cosiddetta “libertà su internet” non si tratta che dell’accesso da parte delle ditte private ai dati personali (mentre è in pieno lo scandalo della NSA): che conta la decantata “privacy” di fronte alla possibilità di aumentare i profitti grazie ad una pubblicità che può spiare le sue vittime?

Le multinazionali, europee ed americane (3.300 imprese europee sono presenti negli Usa e 14.400 compagnie americane dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali) sperano ora di poter mettere le mani a volontà nelle casse degli Stati. Del resto sono i loro Stati e ne fanno quello che vogliono. Libertà per tutti! Mai più ostacoli al libero scambio, ai profitti, all’accumulazione! Un vero Maggio ‘68 del capitale!

Ma in realtà questi accordi commerciali, queste nuove disposizioni di legge, sono gli Stati che le organizzano. Quel che non comprendono, o non vogliono comprendere i piccolo borghesi che si lamentano di questa situazione, è che gli Stati sono i difensori degli interessi di classe della borghesia e dei rapporti economici del modo di produzione capitalistico. Finché non sarà rovesciato il potere della borghesia e demolito il suo apparato di Stato, finché non saranno aboliti i rapporti di produzione capitalistici, il salariato e il capitale, permettendo così il libero sviluppo del comunismo, non potrà essere altrimenti!

Anche il governo degli Usa, come quello di tutti gli Stati, ha da tempo dimostrato di essere il fedele agente delle multinazionali e delle lobby con sede nel paese. Nel 1994, sotto la presidenza Clinton, fu varato l’Accordo di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA, con Usa, Canada, Messico), con la promessa di milioni di posti di lavoro. Di fatto ha esacerbato la concorrenza per l’importazione di prodotti a basso prezzo che hanno rovinato le piccole imprese di ciascun paese; un milione di posti di lavoro è andato distrutto negli Usa, senza parlare dell’abbassamento dei salari, per la chiusura di fabbriche riaperte in Messico. In Messico milioni di piccoli contadini sono stati costretti a spostarsi nelle bidonville, non potendo competere con il mais sovvenzionato e transgenico proveniente dagli Usa. L’aumento del prezzo del mais, alimento principale nel paese, provocò le rivolte del 2007 e il Messico, fino allora autosufficiente, ne è divenuto importatore.

Questo si ripete con l’Accordo di Partenariato Transpacifico fra gli Usa e i paesi che si affacciano su quell’oceano (Nuova Zelanda, Australia, Malesia, Singapore, Vietnam, Giappone, Canada, Messico, Perù, Cile; ma non la Cina!) che impone nuovi diritti sovranazionali alle imprese. Il suo scopo è di arrivare ad azzerare i diritti di dogana fra i paesi della zona per lo scambio di tutti i beni, i servizi, le proprietà intellettuali, ecc. Le trattative sono state condotte da Islam Siddiqui, americano di origine indiana che ha servito nell’amministrazione Clinton dal 1997 al 2001 nel dipartimento dell’agricoltura e rimane il principale negoziatore nel campo per gli Usa; è stato vicepresidente di Croplife America (organo della lobby delle imprese biotecnologiche), ed è ostile a qualsiasi politica di etichettature dei prodotti ed indicazione sulla presenza di Ogm.

Il trapasso della economia e della società capitalistica mondiale nella sua fase imperialista non è reversibile ed ormai, dopo più di un secolo di guerre e di rapine, ha totalmente sottomesso a sé tutte le istituzioni politiche e statali borghesi, che sono al prono servizio delle grandi concentrazioni finanziarie e industriali.

Le “sinistre”, gli “ecologisti”, i “nazionalisti” sono lì solo per ingannare il proletariato o come espressione impotente della piccola borghesia. Della democrazia rimane solo la maschera, che cadrà definitivamente solo quando i borghesi, così come i loro valletti al comando degli Stati, saranno proprio allo stremo; allora si mostrerà apertamente a chi rispondono veramente le istituzioni giuridiche e politiche e che non sono quella palude informe dei ceti medi, illusi dall’inganno elettorale di disporre col voto della loro quota di potere.

Ma qualunque accordo, segreto o pubblico, “illegale” o legalizzato, non inaugurerà un mondo “migliore”, dove le classi borghesi di tutte le nazioni si intenderanno a meraviglia (per sfruttare il proletariato). La corsa alla formazione di monopoli sempre più mostruosi non eviterà di ravvivare la concorrenza fra i grandi paesi imperialisti che, sotto l’effetto di incontrollabili crisi di sovrapproduzione, saranno interessati, o costretti, ad uno scontro globale, trascinando con sé i piccoli Stati obbligati a scegliersi un campo.

Oggi questi accordi escludono la Cina, la grande rivale ormai sul piano economico e militare degli Usa. Anche la Cina ha delle ambizioni fondate su una forza economica enorme; ce lo ricordano le tensioni in Asia fra il grande Dragone e i suoi vicini, in particolare il Giappone, la Corea del Sud, il Vietnam.

Per ringiovanire il capitale, che ha esaurito il suo ciclo del dopoguerra e la cui accumulazione tende allo zero, un bagno di sangue è ineluttabile. Non saranno movimenti generici di “cittadini” né forze di Stati che potranno fermare la corsa folle del capitale. Niente né alcuno, salvo il proletariato che è il solo che può lottare contro la nemica classe borghese ed impedire l’avvento di un terzo conflitto mondiale. Quel proletariato che vede le sue condizioni di vita e di lavoro deteriorarsi ogni giorno.

A questo ultimo assalto delle forze borghesi, dell’organizzazione internazionale del capitale, i proletari debbono rispondere con le loro organizzazioni economiche internazionali di difesa e ritrovare nel Partito Comunista Internazionale le tradizioni secolari di lotta, di teoria e di tattica rivoluzionarie!


 
 
 
 
 

 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(continua dal numero 363)

 

22. Messico e Venezuela

La lotta per il controllo delle fonti energetiche non risparmiò il Sudamerica, anzi fu proprio in questa parte del mondo che il nazionalismo si scontrò per la prima volta con le Compagnie petrolifere.

Nel Messico il petrolio era stato scoperto nel 1903 e subito le Compagnie inglesi e americane si erano accomodate sotto l’ala protettrice del dittatore di turno. Inutile dire che la sicurezza degli impianti era inesistente e le condizioni di lavoro insopportabili. La prima grande catastrofe della storia del petrolio data al 1908, quando esplose un pozzo nei pressi del porto messicano di Tampico, lasciando una colonna di fuoco alta 500 metri che continuò a bruciare per 59 giorni e un numero imprecisato di morti.

Durante la guerra il Messico fu una fonte essenziale per i rifornimenti americani, fino a quando il nuovo presidente non aumentò le tasse delle Compagnie e nazionalizzò i pozzi. La risposta delle società statunitensi fu classica: riduzione della produzione e assassinio del presidente. Questo andrà a vantaggio del Venezuela il cui regime, per attrarre i capitali dall’estero, affiderà alla stessa Standard Oil (e alla Shell) l’incarico di scrivere la Legge petrolifera, prima di consegnare direttamente alle due Compagnie le chiavi della produzione. Negli anni Venti il Messico e il Venezuela diventeranno rispettivamente il secondo e il terzo produttore mondiale. Il Messico petrolifero fu sconvolto nel 1937 da un’ondata di scioperi generali per l’aumento dei salari, che coinvolgeva soprattutto gli impianti della Shell.

Ma nei precedenti dieci anni la quota di produzione petrolifera messicana era crollata dall’11 al 2,5% mondiale. Nel 1938, per cercare di arrestare questo declino, il governo messicano espropriò le Compagnie straniere e nazionalizzò il petrolio, rischiando per un pelo la guerra con la Gran Bretagna. Ma le Compagnie, con l’aiuto dei servizi segreti britannici, preferirono la strada del putsch, mettendo non poco in allarme il governo statunitense. Sottoposto all’embargo, il petrolio messicano non trovò più compratori. La produzione si dimezzò e lo Stato avrebbe rischiato il fallimento se non fossero intervenute le commesse tedesche, italiane e giapponesi. La Compagnia nazionale Pemex poté così sopravvivere fino allo scoppio della guerra, quando le si spalancò il mercato americano.

Ancora una volta dalle vicende messicane trarrà vantaggio il Venezuela. Questo paese, con una superficie superiore a quella del Texas e una popolazione di soli sei milioni di abitanti, diventerà durante la guerra il principale esportatore di greggio al mondo ed una risorsa vitale per le tre Compagnie che vi dettavano legge, Exxon, Shell e Gulf. La guerra in Europa, sebbene l’opinione pubblica non se ne renderà conto, dipenderà proprio dal petrolio del Venezuela. Grazie al petrolio, il Venezuela era diventato la nazione più ricca dell’America Latina e la sua capitale Caracas in vent’anni si era riempita di automobili e la popolazione raddoppiata.

Come già in Messico, i rapporti tra le Compagnie e i vari governi non furono mai semplici, a causa degli esorbitanti profitti intascati dalle società statunitensi e delle miserabili condizioni in cui vivevano i lavoratori dei campi petroliferi. Nel 1938 i venezuelani, dopo la caduta del dittatore Gomez, chiesero, in cambio del rinnovo delle concessioni, una revisione dei contratti, maggiori royalty e tasse. L’alternativa era la nazionalizzazione. Nonostante l’iniziale malumore delle Compagnie, su intervento del Dipartimento di Stato americano fu introdotta una nuova legge che, in cambio di più alte royalty, accordava alle Compagnie nuove concessioni e contratti di durata quarantennale. In breve tempo la produzione petrolifera raddoppiò.

Nel 1945 il partito radicale “Acciòn Democratica” prese il potere in Venezuela e nuovo ministro del petrolio diventò Perez Alfonso, un nazionalista cosmopolita che conosceva a fondo l’economia del settore essendosi formato negli Stati Uniti e che era destinato ad essere il futuro architetto dell’Opec. Nel 1948, approfittando dei durissimi scioperi scoppiati tra i lavoratori petroliferi, fece approvare una nuova legge che concedeva al governo venezuelano una partecipazione del 50% negli utili derivanti dal petrolio, ma soprattutto che le royalty fossero pagate in petrolio, che il governo avrebbe venduto direttamente, togliendo in questo modo alle Compagnie l’esclusiva “per diritto divino” della commercializzazione. Era nata la formula del fifty-fifty. Presto essa diventerà un’esigenza generale e attraverserà l’Atlantico.


23. La crisi del 1929

La Germania era vogliosa di rivincita dopo che alla fine della prima carneficina mondiale gli alleati, Gran Bretagna, Francia e Usa, per liberarsi di un pericoloso concorrente, le avevano strappato tutte le concessioni petrolifere e imposto durissime riparazioni di guerra. Le avevano cioè imposto di “riparare” i vincitori dei danni patiti in una guerra la cui responsabilità venne attribuita, dai vari Wilson, Lloyd George, Clemenceau, Orlando, esclusivamente alla Germania. L’articolo 231 del trattato di Versailles stabiliva che «la Germania riconosce di essere responsabile, per averli causati, di tutti i danni subiti dai governi Alleati ed Associati e dai loro cittadini in conseguenza di una guerra, che è stata loro imposta dalla sua aggressione». La Germania fu anche costretta ad una dichiarazione di “colpevolezza morale”!

Ma lo stesso trattato, che metteva a sacco la sua economia a vantaggio dei vincitori, poneva la Germania nell’impossibilità di rimettere in sesto la macchina produttiva sconquassata dalla guerra e quindi di far fronte agli impegni. Allora intervenne, deus ex-machina, il genio finanziario dei banchieri americani, che partorì l’idea che le riparazioni di guerra tedesche sarebbero state rimborsate grazie ai crediti concessi dalle stesse banche americane! Tu mi devi rimborsare un debito e non guadagni abbastanza per pagarmi? Niente paura: io ti anticipo una somma supplementare che ti servirà a sfruttare un maggior numero di operai e quindi ti permetterà di rimborsarmi col profitto ricavato il prestito antico e quello nuovo, oltre gli interessi su entrambi. In fondo, il grande banchiere attorniato da uno stuolo di scienziati dell’economia borghese non si comporta in modo molto diverso dal classico strozzino caro alla letteratura mondiale.

Così nel 1924 viene elaborato il Piano Dawes, dal nome del generale americano Charles P. Dawes, uomo di fiducia della finanza americana e abile speculatore egli stesso. La Commissione per le riparazioni, come nella migliore tradizione del capitalismo monopolista, era infarcita di banchieri che erano contemporaneamente industriali, non esclusi i rappresentanti tedeschi delle banche e del cartello dell’acciaio. Evidentemente, la grande finanza considerava le macerie del vecchio continente terreno ideale per incrementare i propri affari. La Commissione non fu infatti una riunione di benefattori: il capitale americano, in cambio del prestito di 800 milioni di marchi-oro per la ricostruzione economica del paese, mise un’ipoteca sui beni e sulle fabbriche tedesche. Il piano Dawes riduceva drasticamente la sovranità dello Stato e metteva nelle mani degli uomini di Wall Street la direzione economica del paese. I prestiti più cospicui furono concessi dalle banche internazionali per aiutare i maggiori cartelli tedesco-americani (Aeg/General Electric, Vereignite Stahlwerke/United Steel, IG Farben/American IG Chemical), nei cui consigli di amministrazione sedevano banchieri americani e rappresentanti della Standard Oil. Vera colonia della Borsa di New York, la Germania divenne il paradiso della finanza internazionale: nel 1928 era indebitata sull’estero per 25 miliardi! Di fatto i prestiti destinati alla ricostruzione della Germania più che a ristabilire la pace, ebbero il compito di gettare le basi della futura guerra mondiale!

Il piano Young, che prese il nome da un altro banchiere americano, fu varato poco prima che scoppiasse la crisi a Wall Street, nella primavera del 1929. Sostituiva il piano Dawes e si dava due obiettivi: arrivare ad una stima del debito dovuto dalla Germania per le riparazioni, rimasto fino ad allora indeterminato, e rimuovere i controlli stranieri sull’economia tedesca. L’intera somma fu ripartita in cinquantadue annualità, con una media di due miliardi di marchi l’anno. Parve che la Germania tornasse padrona di sé: le ferrovie e la Reichsbank tornarono nelle mani dello Stato, l’Intesa evacuò la Renania. In realtà, era più schiava che mai, essendo obbligata a versare le rate fino al 1988 (anno della lontana riunificazione!) e non potendosi sottrarre alla spoliazione perché la sua economia dipendeva totalmente dai prestiti anglosassoni.

Tanto è vero che, quando i finanziatori americani, colpiti dalla crisi, richiamarono i loro capitali, una tremenda catastrofe si abbatté sulla Germania. Le industrie si fermarono. Moltitudini di disoccupati riempirono le strade: tre milioni e mezzo nel 1929-30, sei milioni nel 1931. Quali circostanze avevano provocata la crisi negli Stati Uniti? Le stesse che avevano favorito il crescere abnorme della produzione americana, cioè gli stretti legami finanziari e commerciali stabilitisi tra l’Europa e l’America. Dopo la guerra, il capitalismo americano non si era arrestato nella sua folle corsa: in crescente aumento erano la produzione industriale, la produzione agricola, i profitti, gli investimenti, le vendite. Il paese rigurgitava di capitali che si offrivano in prestito. Nel 1928 la bilancia commerciale americana registrava un attivo straordinario: le esportazioni superavano le importazioni per un valore di 800 milioni di dollari. Nel 1929 la produzione annua dell’acciaio aveva toccato la quota di 50 milioni di tonnellate. Per le strade dell’Unione scorrazzavano 5 milioni di automobili. I prestiti all’estero raggiunsero la cifra straordinaria di 1,26 miliardi di dollari. Dollari 1928!

Fu proprio questa enorme massa di denaro a provocare la crisi. Mentre in America l’orgia delle vendite a rate, delle aperture di credito, della speculazione manteneva alti i costi di produzione provocando fenomeni inflazionistici, in Europa, grazie alla pioggia di dollari, le economie si riprendevano, la produzione superava i livelli d’anteguerra, il commercio estero riannodava i suoi fili. Senza però dimenticare che bisognava pagare gli interessi sui prestiti. Di qui la tendenza a ridurre le importazioni dall’America per non far crescere troppo il montante del debito. Inoltre contro le importazioni americane, che avrebbero finito alla lunga per danneggiare l’agricoltura e l’industria dei paesi europei, si lavorava ad erigere sbarramenti sul commercio estero. La grande fiumana delle esportazioni americane cominciava a rifluire. I prodotti agricoli furono i primi ad ammucchiarsi nei magazzini. Dalle campagne, tradizionalmente l’anello debole dell’economia capitalistica, la crisi si estese all’industria. Chiudevano le fabbriche di automobili, le acciaierie, i cantieri edili, le officine. La catastrofe esplose quando il morbo attaccò il cuore dell’economia americana: la finanza, le grandi banche private, gli enti di credito pubblico, la Borsa. Quando queste istituzioni decisero di coprirsi esigendo, all’interno del paese e all’estero, il rimborso dei crediti, la crisi si allargò al mondo intero.

Nel generale rifugiarsi dei governi dietro le trincee del protezionismo, due sono gli avvenimenti di estrema importanza che vengono a derivare dalla crisi economica mondiale e che plasmeranno la storia futura. Il primo è l’occupazione nell’estate del 1931 della Manciuria da parte del Giappone. Se il capitalismo nipponico si decise al gran passo, pur sapendo di attirarsi addosso l’ostilità delle potenze anglosassoni, ciò accadde perché la crisi aveva preso alla gola il commercio estero giapponese restringendo i mercati di sbocco. Il secondo avvenimento fu l’ascesa al potere del regime nazista in Germania dovuto a due condizioni obiettive: la disperazione delle moltitudini che la paralisi delle industrie gettava nella miseria e nella fame, e il tradimento dello stalinismo internazionale che rifiutò di chiamare le masse operaie all’azione rivoluzionaria.


24. Una Germania a secco

La politica europea negli anni Venti e Trenta era dettata dalle grandi banche di Londra e di New York e l’ascesa al potere di Hitler fu appoggiata dai grandi cartelli tedeschi, che vedevano in lui una carta su cui puntare per difendere i loro profitti.

Per la Germania, che alla fine della guerra era stata spogliata di tutte le concessioni petrolifere, la necessità di produrre petrolio autonomamente diventava una questione di vita o di morte. Dipendere da altri per il petrolio col rischio di trovarsi sotto il ricatto di un embargo non poteva non turbare i sogni di chi aveva in mano le sorti del paese. Anche se era stato sottoscritto con l’Unione Sovietica un accordo segreto per la fornitura di petrolio, si cercavano altre fonti di energia.

Presto si puntò sulla tecnologia chimica per la produzione di carburanti sintetici, di cui un brevetto era di proprietà della IG Farben (International Gesellschaft Farben Industrie). Questo cartello era nato nel 1925 dalla fusione di sei industrie chimiche tedesche e l’operazione era andata in porto grazie all’intervento di capitali americani, in particolare della Standard Oil-Exxon. Quest’ultima acquistò i diritti del brevetto di idrogenazione del carbone fuori della Germania in cambio della cessione alla IG Farben del 2% del suo capitale, concordando un piano di collaborazione che andrà avanti fino al 1941 e che costerà alla Standard l’accusa di tradimento da parte del presidente Truman.

Ma, a parte la solita ipocrisia puritana, la reindustrializzazione tedesca, come già era accaduto durante la guerra mondiale, non sarebbe stata possibile senza l’aiuto delle grandi aziende statunitensi favorevoli, nonostante i nazisti, ai buoni affari. I due monopoli tedesco e americano creeranno una filiale comune negli Stati Uniti specializzata in ricerche petrolchimiche: il settore sviluppato dalla IG Farben, su brevetto americano, sarà quello della gomma sintetica, un prodotto importante per l’industria bellica. Hitler si era impegnato a sostenere il progetto di idrogenazione del carbone della IG Farben fin dal 1932 e divenuto cancelliere lanciò la motorizzazione e la costruzione della rete autostradale tedesca. Il regime nazista impegnò lo Stato nella costruzione delle strutture necessarie al progetto dell’autonomia energetica, dal cui raggiungimento sarebbero dipese le sorti del futuro ineluttabile conflitto.

La Germania aveva bisogno di piombo tetraetile per produrre benzina ad alto indice di ottano per far volare gli aerei e aumentare l’efficacia dei motori a terra. La Standard e la General Motors crearono la società Ethyl Gasoline Corporation per commercializzare questo prodotto di cui detenevano il brevetto (en passant: il piombo tetraetile nella benzina verrà proibito, a causa della sua tossicità, nel 1985 negli Usa e solo nel 2001 in Europa). Nel 1935 questa tecnologia fu trasferita in Germania dove furono costruite fabbriche apposite, che permetteranno ai tedeschi di produrre piombo tetraetile durante la guerra. Senza l’etile la Luftwaffe non avrebbe mai potuto decollare. Alla vigilia dell’invasione della Polonia, nel settembre 1939, erano in funzione nel territorio tedesco quattordici impianti di idrogenazione e altri sei erano in costruzione. Tra il 1937 e il 1938, per la sua importanza strategica, la IG Farben passò sotto il controllo dello Stato. Vantava quote di partecipazione in 380 altre industrie tedesche e in 500 imprese estere più oltre duemila accordi di cartello con la Standard Oil, con la Dupont de Nemours, con la General Motors, ecc. L’impero IG Farben possedeva proprie miniere di carbone, centrali elettriche, altiforni, banche, centri di ricerca, una propria rete commerciale. Oltre alla gomma e al petrolio sintetici, produceva gas mortali, tra cui il tristemente celebre Zyklon B. Inoltre, grazie al sistema di interdipendenza tecnica e finanziaria con l’industria americana, la IG Farben e il cartello dell’acciaio fabbricavano il 95% degli esplosivi tedeschi. I due grandi produttori di carri d’assalto tedeschi furono la Opel, di proprietà della General Motors (anch’essa controllata da una delle banche americane creditrici della Germania), e la Ford AG, succursale tedesca della fabbrica di Detroit (Henry Ford verrà decorato dai nazisti per i servizi resi alla Germania).

Ma, nonostante i grandi passi compiuti nella produzione dei carburanti sintetici, il petrolio era sempre in cima alle preoccupazioni di Hitler. Il 23 agosto 1939 la Germania sottoscrisse un piano di non aggressione con l’Urss: Mosca, oltre a mettere a disposizione le proprie fabbriche per la produzione di armamenti, nel biennio 1939-41 rifornì la Germania di 65 milioni di barili di petrolio, che andarono ad aggiungersi agli enormi stock già accumulati. Senza i rifornimenti russi e americani (questi ultimi arrivavano segretamente in Germania attraverso paesi “neutrali” quali la Svezia e la Spagna) i panzer tedeschi non avrebbero potuto invadere l’Europa.

Alla formulazione del concetto strategico di “guerra lampo” non fu sicuramente estranea la mancanza di produzione petrolifera interna. Si rendevano necessarie battaglie di breve durata, con l’uso concentrato di forze motorizzate e vittorie decisive prima che potessero sorgere problemi di carburante. All’inizio la strategia funzionò: nel 1939 con la Polonia e nel 1940 con l’invasione della Norvegia, dei Paesi Bassi e della Francia. L’aviazione tedesca rase al suolo gli impianti petroliferi del porto di Rotterdam e le installazioni francesi a nord della Loira, compresa la raffineria di Port Jerome, la più grande d’Europa. Molti impianti furono smantellati e trasportati in Germania, mentre il sequestro dei depositi di petrolio migliorò temporaneamente la situazione energetica tedesca.

Quali che fossero i piani strategici generali della Germania, la cui analisi esula dagli scopi di questo lavoro, per i tedeschi era di vitale importanza proiettarsi verso il petrolio dei paesi dell’Est e del Medio Oriente. In particolare il controllo dei giacimenti petroliferi del Caucaso, tra i più importanti al mondo, era una motivazione prioritaria non tanto per il mantenimento dello status quo, ma in vista di una lunga durata del conflitto e di un suo probabile imminente allargamento.

Il fatto che nel giugno 1940 Stalin avesse occupato gran parte della Romania nord-orientale e spinto le truppe a ridosso dei giacimenti petroliferi di Ploiesti, aveva allarmato non poco i borghesi tedeschi, dal momento che il petrolio rumeno copriva oltre la metà del loro fabbisogno. Il 22 gennaio 1941 Hitler, nonostante il patto di amicizia stretto con Stalin, iniziò la preparazione della invasione della Russia. Il piano prevedeva un attacco a tenaglia per impadronirsi contemporaneamente del petrolio del Caucaso e di quello del Medio Oriente: una prima offensiva si sarebbe dispiegata sull’asse Rostov-Stalingrado-Baku, mentre l’Afrikakorp guidato da Rommel, partendo dalla Libia, avrebbe invaso l’Egitto e attraverso la Palestina, l’Iraq e l’Iran si sarebbe ricongiunto alle truppe tedesche che combattevano nel Caucaso. In questo modo, l’Inghilterra sarebbe stata tagliata fuori dai rifornimenti di petrolio.

I tedeschi pensavano che sarebbe stata una ripetizione delle altre offensive-lampo già viste in Europa. Ma non sarà così. L’attacco alla Russia ebbe inizio il 22 giugno 1941, il giorno prima dell’anniversario dell’inizio dell’invasione napoleonica del 1812. Il passo si dimostrerà altrettanto fatale per Hitler quanto lo era stato per il celebre predecessore, anche se la fine non sarà altrettanto rapida: Napoleone si ritirò dalla Russia prima della fine dell’anno, Hitler resistette fino all’inizio del 1943, quando le truppe tedesche furono costrette a ritirarsi dal Caucaso e l’armata di Von Paulus, ridotta allo stremo, si arrese a Stalingrado. Un’altra disfatta, altrettanto decisiva, i tedeschi la subirono in Africa settentrionale, al confine tra la Libia e l’Egitto. L’andamento della guerra dipendeva ormai dalle forze meccanizzate, e per l’esercito germanico, sconfitto ad El Alamein, fu drammaticamente determinante la penuria di petrolio.


25. Iran crocevia dello scontro tra imperialismi

Già prima della guerra, l’Iran si era aperto all’influenza tedesca: Reza Pahlevi la migliorò per emancipare il paese dal dominio economico e politico dei russi e soprattutto degli inglesi. La quota della Germania nel commercio estero iraniano era passata dall’8% nel 1932 al 45% nel 1941. Imprese tedesche avevano costruito ferrovie e fabbriche, comprese quelle di armamenti, e l’80% del macchinario importato proveniva dalla Germania. Più di tremila tedeschi risiedevano in Iran con una quinta colonna molto attiva. Gli inglesi temevano per le loro linee di comunicazione e per lo sfruttamento petrolifero dell’Anglo-Persian. Il problema di assicurare la sicurezza delle vie di accesso si acuì per gli alleati dopo l’attacco della Germania alla Russia, perché per l’Iran passavano i rifornimenti all’armata rossa nel Caucaso.

Nell’agosto del 1941 i governi russo e inglese, di comune accordo, reclamarono dallo Scià l’espulsione dei tedeschi. Al suo rifiuto, motivato dalla neutralità dell’Iran, entrarono nel paese affermando, con notevole spudoratezza, di non voler attentare alla sua integrità territoriale né indipendenza. Inglesi e russi pretesero dal governo facilitazioni per il trasporto del materiale bellico attraverso il paese e la consegna dei cittadini tedeschi alle autorità militari alleate. Reza Scià pensava di poter mantenere il trono, a dispetto dei suoi sentimenti filo-tedeschi, ingannato in questo dalla risposta amichevole di Roosevelt a cui aveva chiesto i buoni uffici nei negoziati tra l’Iran e gli occupanti. Ma il 16 settembre, in seguito a una violenta propaganda inglese e russa diretta contro di lui, fu costretto ad abdicare in favore del figlio. L’indomani stesso le truppe britanniche e russe entrarono a Teheran. L’ex sovrano fu deportato prima nelle isole Mauritius e poi in Sudafrica, dove morirà tre anni dopo.

Il nuovo governo accettò, obtorto collo, di divenire alleato delle potenze occupanti e fu costretto a barcamenarsi di fronte alla nuova situazione di sovranità limitata, in cui il ruolo delle sue truppe sarebbe stato “limitato al mantenimento della sicurezza interna” (accordo del 29 gennaio 1942). Nel settembre 1943 lo Scià dovette umiliarsi fino a dichiarare, sebbene solo nominalmente, guerra alla Germania. Nel novembre 1943 i “tre Grandi”, Churchill, Roosevelt e Stalin, scelsero proprio Teheran come sede del loro primo incontro, nel corso del quale ribadirono l’impegno dell’assistenza all’Iran contro il nemico comune e riaffermarono il desiderio di mantenere l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale del paese. Ma ben presto il problema del petrolio farà venire a galla gli interessi contrastanti delle grandi potenze, perché la geografia collocava l’Iran all’incrocio delle loro zone d’influenza.

(Continua al prossimo numero)